10/05/2010

Il corpo del fantasma ("Spettri di Derrida")

   Sono usciti per gli Annali dell'Accademia del disegno di Valerio Adami gli atti del convegno "Spettri di Derrida" tenutosi a Napoli, Istituto di Studi Filosofici, l'ottobre dello scorso anno. Impossibile pubblicare qui il mio intervento-relazione (oltre 25 pagine), ma un brano iniziale sì, e anche l'ultimo breve paragrafo...
   Il testo ha per titolo "Il corpo del fantasma", ed è un percorso a tappe, una "hantologie", la chiamo, cioè un'antologia di fantasmi, quelli che ritrovo nel mio percorso testuale e di pensiero, letterario o filosofico che sia, ma da sempre e ogni volta anticipato dall'opera di Derrida...
Ecco comunque l'estratto da: Il corpo del fantasma:

[...]
In un’epoca in cui sempre più nettamente e violentemente si assiste a una messa al bando delle idee, della scrittura, della memoria, della gratuità, quindi della vita, Jacques Derrida teneva alta la complessità del pensare e della lingua, e assicurava con la sua statura, il suo ingegno e la sua fama una sorta di barriera difensiva - sia che parlasse di Sant’Agostino, dell’essere marrani, di scrittura e teologia apofatica, del concetto di democrazia, del divario tra giustizia e diritto, tra legge e forza, o del concetto di Stato-canaglia. Per dirlo con parole povere, Derrida allargava costantemente l’area del pensiero e della teoria, come i migliori scrittori allargano l’area del narrare. Nel 2004 Derrida aderì a un appello “contro la guerra all’intelligenza” lanciato dalla rivista Les Inrockuptibles: pur esprimendo riserve su quel soprannome, esso – disse Derrida - “designa chiaramente una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, il risentimento, anche, di tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope, quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, la società civile, lo Stato e anche l’economia”. Insomma, Jacques Derrida parlava molto del proprio tempo (che è il nostro), anche se agli antipodi dell’esaltazione del “presente vivente” con cui Jean-Paul Sartre inaugurava nel 1948 Les Temps Modernes [...].

[...]
  Il nostro tempo, ha suggerito Derrida in Spettri di Marx (Cortina 1994), è molto simile al tempo sconnesso di Amleto, quando grazie allo spettro conosce la vera ragione del nuovo ordine del regno e prende atto che “The time is out of joint” (W. Shakespeare, Amleto I. v.). Analoga profetica disgiuntura fu annunciata da Marx, della cui descrizione economico-antropologica del capitalismo - dell’alienazione tramite il feticcio della merce, del valore del valore e altri spettri, che non era già mai solo alienazione del lavoro, ma alienazione dell’uomo e “della specie” - si traggono soprattutto oggi le conseguenze. E’ il tempo out of joint del liberismo selvaggio e della crescente esclusione dalla vita democratica, della disseminazione di armi atomiche e degli “Stati-fantasma”, come la mafia, il consorzio della droga, ecc. Scrive Derrida:
   “[I]l tempo è disarticolato, lussato, sconnesso, fuori posto, il tempo è serrato e disserrato, disturbato, insieme sregolato e folle. Il tempo è fuori di sesto (hors de ses gonds), il tempo è deportato, fuori di sé, disaggiustato. Dice Amleto”. Derrida passa in rassegna le traduzioni di questo verso di Shakespeare, anch’esse “out of joint. Per quanto corrette e legittime, [...] sono tutte disaggiustate”. Fino a quella magniloquente di Gide, “Cette époque est déshonorée”. Altrettante versioni esistono in italiano.
   Derrida non ha letto, credo, lo scrittore americano Philip K. Dick, e in particolare il suo romanzo del 1959 dal titolo Time out of joint (senza l’articolo). Interessante è la variante del traduttore italiano (Gianni Pannofino) per Sellerio, del resto assolutamente fedele al senso del romanzo: “Tempo fuori luogo”. Come tutte le storie di Dick parla di un dis-astro, un deragliamento, un andare fuori asse del tempo che comincia in modo impercettibile e deve assolutamente trasformarsi. Narra di quella situazione così letteraria (diciamo l’Unheimlich di Freud) del percepire qualcosa fuori posto, sconnesso, disaggiustato nell’ordine delle cose (...); un oscuro disagio il cui crescendo spettrale ricorda la situazione filosofica dell’aporia descritta da Derrida in, appunto, Aporie. Tralascio la trama. Ma il problema narrativo, qui come nel genere di romanzi detta dei “mondi possibili”, è sempre l’amletico problema di Hamlet, vorrei dire dell'homeless: quello di tornare a casa. Come tornare, e come “sentirsi” a casa. Nello spettro dell’abitare, lo sappiamo, hanter, “infestare”, è una delle non tantissime modalità.
   Il “fuori luogo” dice la dislocazione, la dis-giuntura su cui indugia Derrida nel libro su Marx; ciò che Amleto chiama il tra, l’interim, ovvero il passaggio impossibile, l’aporia; percorso dal Ghost al Guest e viceversa, secondo l’etica dell’ospitalità e dell’accoglienza più volte ribadita da Derrida. E' lo spirito (Geist), del tempo. Fuori luogo sono i discorsi inattesi e paradossali (come quelli sull’ospitalità, appunto, o sul “dono”); l’essere clandestini come condizione ontologica (per di più, oggi in Italia, criminale, poiché “essere clandestini”, oltre a un pleonasma, è un reato). Il fuori luogo è il sempre altrove, faglia o rottura spazio-temporale, è la sensazione così attuale di essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso, come in una diaspora universale in cui si è dappertutto ma mai a casa (e forse è per questo che abbiamo bisogno di una home page). E’ una dislocazione (o “delocazione”, come le opere straordinarie di Claudio Parmiggiani ottenute col fumo e con le tracce dell’assenza delle cose), che connette la questione dello spettro e dello spettrale alla specularità, o spectrum, o speculazione e, da qui, dalla scrittura delle storie di fantasmi alla scrittura fantasma, ghost writing. (Questione in sospeso, quindi, di cosa e come sia una lingua di fantasmi). La disgiuntura, il “tempo fuori luogo”, dice l’urgenza, come ha scritto altrove Derrida, “faticosamente, dolorosamente, tragicamente, [di] un nuovo pensiero delle frontiere, una nuova esperienza della casa, del chez-soi e dell’economia”. Questa nuova esperienza dell’abitare è naturalmente anche una nuova esperienza del linguaggio: leggendo Shakespeare (ma anche leggendo Derrida, forse anche leggendo Marx e Philip K. Dick), il lettore investito da questa dislocazione è trasformato in un “guest-writer”.
   Ovvero, per esempio, un testimone, che è sempre un, o il, fantasma – revenant, colui che ritorna. Un arrivante, un ritornante, un superstite. [...]

   [...]
   Accennavo prima a una nuova esperienza dell’abitare, che, mutuata da Derrida, è anche una nuova es   perienza del linguaggio, quella del revenant, testimone, forse homme des lettres. In realtà è un’esperienza molto antica. E’ quella dell’unica vera avventura, di fronte alla quale ogni altra ne è solo l’insoddisfacente surrogato, del “parlare con i morti”, su cui da anni sto scrivendo il mio, chiamiamolo così, “romanzo”, e che ritrovo, sempre in anticipo e insieme in differita - in différance - in Derrida (per esempio, nel primo straordinario capitolo di Spettri di Marx).
   Trasformare il ritorno in rivolta, ha scritto Derrida, a proposito di Marx, e dello spettro del comunismo.
   Il tempo del fantasma (come l’archivio) è l’avvenire, ha scritto altrove Derrida, e la sopravvivenza è “la vita più intensa che sia possibile” (cfr. intervista a le Monde del 19/8/2004).
   Ma penso ora, in particolare, al Canto Undicesimo dell’Odissea. Penso a un testo come Circonfession.
   Parlare con i morti, incontrare fantasmi, è ciò che accomuna l’esercizio della filosofia e della letteratura fin delle origini. Per dirlo in una frase, una frase che compendi in un comune avvenire gli spettri di Derrida e i miei, né Ulisse né Dante, né Amleto, né Shakespare, né Marx, né Jacques Derrida, sarebbero stati capaci di ritornare a casa, se prima non avessero parlato con dei fantasmi. Né Enea, l’eroe della nostalgia irrimediabile e senza ritorno, sarebbe stato capace di reinventarsela. [...]

1 commento:

Serena G. ha detto...

Quando provai a leggere Derrida la prima volta ero una studentessa al primo o secondo anno di filosofia, ne sapevo abbastanza da aver sentito il suo nome, e non molto di più. Lessi un paio di ore e richiusi, non avevo capito letteralmente niente. Qualche anno dopo, qualcuno me ne doveva aver parlato, lo riaprii, e non mi fermai più. Per anni lessi quasi soltanto lui. A quel punto avevo imparato che ci sono molti modi di capire una cosa. Che non tutto si commenta, alcune cose si possono solo scrivere, ai margini, in nota, fra i bordi e le righe, che i libri trasbordano, provocano, tradiscono, che sono in molti modi perché si è in molti modi e tutti ti ri-guardano. All'epoca Derrida era ancora vivo ma non cercai mai di incontrarlo, mi sarebbe sembrato di farne un feticcio. Quando ho saputo la sua morte ho sentito un brivido che andava per la schiena. Poi ho rivisto il film su di lui del 2002, quando gli chiedono delle donne in filosofia. E lui risponde che non voleva filosofe, che lui lavorava all'alba della donna che pensa.
Perché ci sono più cose in cielo e in terra, certo, e ogni uomo è Mercuzio.