11/29/2009

La nebbia e il volto

Sono in Emilia-Romagna (dove sono nato e cresciuto) per una serie di incontri pubblici. In uno di essi, a Cesena, sul tema dell’abitare, scopro l’uovo di Colombo della vitalità dei cosiddetti centri storici: dissuadere le banche dall’occuparne gli edifici, spingerle fuori dal centro. Abituato a constatate che, dove c’erano un ristorante o un cinema, ora c’è una nuova banca, scopro che Cesena è uno di quei rari posti in cui si può dire il contrario: dove c’è quella libreria, prima c’era una banca. Lungi dalle città (la maggior parte) in cui il centro è lugubre come un non-luogo all’ora del coprifuoco, a Cesena in centro abita la gente, e l’unico conflitto, a mio avviso risolvibile, è tra chi crede che la musica e le voci siano rumore e chi crede che il rumore sia una cosa, la socialità un’altra.
Accade poi che l’odore della nebbia mi provochi un groviglio di nostalgia e sinestesia e – coincidenza – proprio sulla nebbia sfoglio in libreria il sontuoso e voluminoso repertorio a cura di Remo Cesarani e Umberto Eco (Einaudi). La nebbia non è solo un’anima del luogo e un conforto alla solitudine (come scrisse Baudelaire e dopo di lui Walter Benjamin), ma una procedura che permette nessi invisibili o insoliti tra le cose, ovvero un modo di conoscenza. Non è neppure vero, o non sempre, che la nebbia impedisca di vedere: a volte fa vedere di più, rendendo le cose come volti (come sapeva Pascoli): cioè primi piani.
Quanto all’abitare, mentre da Roma mi giunge voce della protesta contro il decreto sulla prostituzione, davanti alla “casa chiusa” di Palazzo Grazioli, nella nebbia di Bologna, tra i vicoli algidi e imbellettati del centro storico nella nebbia di Bologna, su un muro ben ristrutturato emerge in primo piano questa scritta anarchica quasi d’altri tempi che mi guardo bene dal commentare: - sbirri + puttane).

(rubrica "acchiappafantasmi" de l'Unità, domenica 29 novembre)

11/28/2009

Una dittatura piccola piccola (Under the Dome di Stephen King

(oggi su l'Unità la mia recensione, scritta molto frettolosamente, in viaggio, di The Dome di Stephen King, appena uscito anche in italiano da Sperling & Kupfer)

La situazione romanzesca, al limite del cliché fantascientifico, da cui prende le mosse The Dome, l’ultimo romanzo di Stephen King, richiama la celebre fulminante definizione di Ludwig Wittgenstein: “Filosofia è insegnare alla mosca a uscire dal bicchiere”. Sotto al “bicchiere”, una cupola trasparente e infrangibile (the Dome, appunto) di materiale ignoto, sorta improvvisamente un mattino d’estate terso e soleggiato, ci sono gli abitanti di una cittadina del Maine, Chester’s Mill. L’autore confessa di averne avuto l’idea nel 1976, ma di avervi rinunciato per incapacità dopo il primo capitolo – una formidabile descrizione narrativa al rallentatore degli effetti della cupola, come lo schianto contro il nulla trasparente di un aereo e la contemporanea decapitazione di una marmotta. Aggiunge di averne ripreso la scrittura solo nel 2007 - e il lettore non può evitare di pensare al film I Simpson, uscito quell’anno, che narra una storia simile, quella di un misterioso globo che isola e rinchiude la città. Ma questa idea, per quanto pazzesca o suggestiva, non è qui che il pretesto, la cornice. Il McGuffin, direbbe Hitchkock. Perché The Dome di Stephen King è uno dei più importanti romanzi etico-politici degli ultimi decenni.
Come in tutti i romanzi di King, qualunque grado di suspense e di horror si propongano di svolgere e comunicare, in The Dome è la descrizione corale e sociale della realtà ad avere il sopravvento, anche se è più estesa del solito la pluralità dei personaggi, un’intera comunità descritta con minuzioso realismo. La novità è che l’orrore che fa fatalmente irruzione è tutto umano e, inteso come genere narrativo, l’horror si conferma il più adatto a descrivere la realtà politica della nostra epoca.
La misteriosa cupola, il cui materiale si rivelerà di natura extraterrestre, è in grado di resistere perfino alle bombe atomiche e ai più sofisticati acidi corrosivi della tecnologia americana. Divide un fuori e un dentro, anche se nei pressi della parete trasparente le persone possono ancora comunicare a voce. Il mondo di fuori continua la vita di sempre, con le regole e i rituali della democrazia, dello scambio, della circolazione di notizie, del controllo reciproco dei poteri. Il mondo dentro (o meglio sotto) la cupola perde invece in pochi giorni i propri connotati. Il ricco e corrotto consigliere comunale detto Big Jim, già divorato da smodate ambizioni di potere personale, occulto fabbricante e spacciatore di metanfetamina, vede nella cupola la formidabile occasione per mettersi da una parte al riparo di imminenti guai giudiziari, dall’altra per rafforzare smisuratamente il proprio potere. Il romanzo descrive così in modo quasi didascalico e impietoso la formazione di una dittatura nelle sue varie tappe: grazie all’isolamento, certo (le comunicazioni col mondo esterno sono cessate), alternando paura e protezione, simpatia e violenza, e mettendo in atto ogni manipolazione e falsificazione della verità. Apologo iperreale, la storia assume a tratti una valenza quasi documentaria. C’è l’invenzione del nemico e del capro espiatorio (le solite Cassandre, o “comunisti”); ci sono le tecniche di fabbricazione del consenso, in accordo col rappresentante locale del fondamentalismo religioso; ci sono le “ronde” e le squadracce fasciste, e provocazioni di ogni tipo per rafforzare e legittimare il potere e l’eliminazione delle libertà; c’è naturalmente la chiusura dell’unico giornale, e infine quella dei negozi, perché anche il razionamento del cibo (come della luce elettrica) serve al controllo della popolazione. Ogni tessuto connettivo democratico salta e, tassello dopo tassello si compie l’assoggettamento della città al potere del Capo, fino al delirio di contrapporsi al resto del mondo, per esempio contro quel comunista del nuovo presidente (l’allusione è a Obama). Naturalmente, “Dio” è dalla parte di questo potere.
Intanto la cupola trasparente diventa sempre più opaca, l’inquinamento atmosferico all’interno raggiunge tassi allarmanti, la stessa luce del sole è filtrata da nuvole di smog, e i colori e le forme di ciò che prima era naturale sfumano in una terra desolata, un’alienazione priva di vita. Niente di tutto questo importa al consigliere comunale detto Big Jim, per il quale la fine del mondo come tutte le chiacchiere ecologiche è una favole buonista messa in circolazione da comunisti e froci.
Naturalmente, come in ogni romanzo di Stephen King, al Male si contrappone il Bene, incarnato solitamente da un’umanità eterogenea, spesso disabile o fricchettona (né mancano mai i bambini), alla cui lotta “partigiana” si aggiunge la ricerca di una soluzione al mistero della Cupola. Il tono e l’orizzonte etico-narrativo ricordano qui i romanzi di Philip K. Dick, soprattutto per due formidabili spunti. Il primo è l’idea della paranoia come resistenza, ovvero che “se la realtà è un gigantesco complotto, la paranoia è il modo migliore per raggiungere la verità”. Il secondo, più teologico-trascendentale, di una teologia ludica e per nulla rassicurante, è l’idea che l’immensa cupola di materiale non identificato sia il gioco di un bambino alieno che guarda alla Terra come un bambino umano guarderebbe a un formicaio: e che smette di uccidere le formiche solo se una comunicazione ineffabile, un sentire, affiora al suo cuore (o alla sua mente) fino a farlo desistere da quel gioco crudele. La speculazione sull’istinto al bene raggiungerebbe qui finezze filosofiche cui King si limita ad alludere poeticamente. C’è un terzo elemento che ricorda Dick, ma che a ben vedere ricorda anche molto, e intimamente, Stephen King: la potenza, distruttiva o edificante a seconda dell’uso, delle droghe. Ma questo lo scoprirà meglio il lettore.

11/26/2009

11/22/2009

Questa cosa del vedere il mondo dal di fuori...

(Tentativo di dare un seguito con parole diverse alla rubrica della scorsa domenica, in una passeggiata a Parigi in novembre).

... Questa cosa del vedere il mondo dal di fuori, la vita, bevendo la birra a Place de la Contrescarpe, poi rue d’Ulm e la piazza dove vidi l’alba abbracciato a X. nel grande spazio rosa e bianco deserto come un quadro di De Chirico, le strade di un passato tanto più remoto quanto più recente, cioè passato, dove insegnava il celebre filosofo marxista Louis Althusser prima che ammazzasse la moglie e andasse al manicomio, quando c’era un futuro ma la politica nascondeva nascita e morte come i giochi dei bambini, riproiettandole in utopie (l’origine è la meta), le parole vibravano all’unisono della città - le macchine i palazzi bianchi i libri che si fanno corpo, le metafisiche le politiche i cortei le bandiere i lampi azzurri e le sirene, e la sensazione della parola giusta, irrimpiazzabile come nelle poesie (“è vero!”, “è così!” – e che cosa vorrà dire questa esclamazione). Questa cosa di vedere il mondo e la vita dal di fuori, come se ci fosse un fuori, come se fosse o potesse essere – qualcosa – al di fuori di questo, le parole, penso mentre cammino ora boulevard Raspail, quel piano alto del palazzo anni ’30 dove un’altra primavera Y. mi abbracciava e diceva “sembra una casa giapponese”, e l’avremmo lasciata vuota e bianca - l’idea che le parole abbiano una consistenza fisica, che le parole smuovano il mondo (ma la filosofia era già meno importante, preferivo i musei, scettico come si addice a uno scrittore), camminando a vuoto tra gli alberi piangenti sotto il cielo alto – ma potrebbe essere sotto i platani di Parma o di Bologna, tra i vicoli o i viali di palazzoni di Roma, tra i prati di periferia sopravvissuti – mi chiedo se sono io o è il mondo intorno - la realtà, la storia - che invecchia e muore.

(da l'Unità di oggi, rubrica "acchiappafantasmi")

11/14/2009

Sognare e abitare tra Francia e Italia (1a parte)

“L’Italia non fa più sognare”, mi ha detto a tavola a Roma tempo fa il mio amico Claude Nori, grande fotografo francese innamorato da sempre dell’Italia (e che terrà nei prossimi giorni a Lucca una mostra e un workshop nell’ambito del Photo Fest). Stavamo cercando di non parlare di politica, ma la politica c’entra sempre, anche e soprattutto se si parla di sogni e di felicità, di orizzonti. Forse anche in questo il nostro Paese si mostra laboratorio, come iniziò tragicamente a partire dagli anni ’20 del Novecento: in Francia le dichiarazioni e i conflitti di questi giorni tra scrittori e potere politico ricordano la polemica sugli “intellettuali clown” fatta anni fa dal nostro capo del governo. Mi riferisco al putiferio scatenato dall’intervista alla meravigliosa scrittrice Marie NDiaye, francese di origine africana, insignita dal prestigioso premio Goncourt, che vive attualmente a Berlino perché la Francia di Sarkozy e delle politiche sui sans papier le sembrano irrespirabili, anzi "mostruose". Ora, le sue frasi hanno sì suscitato una richiesta di censura da parte di un deputato della destra governativa, ma nel Paese di Voltaire, Diderot, Zola, Camus e Sartre non ha trovato alcuna sponda. Ecco, l’unica censura, nella liberale Francia, è sulle intenzioni di censura, e qui sta la grande differenza tra la destra di Sarkozy e il sultanato berlusconiano; e a un Bondi che insulta l’arte e il cinema corrisponde un Mitterand che tra mille ambiguità è scelto pur sempre per competenza e amore per le arti.
Ma sognare è un’altra cosa. E se capisco bene cosa voleva dire sull’Italia Claude Nori, mi accorgo, mentre cammino con amici scrittori per le vie di Parigi e i bar chiudono uno dopo l'altro in una città che si riempie d buio, che anche qui sembra dissolversi la memoria, quell’identità che è vettore di sogni e di ogni immaginazione... Ma di questa angoscia di fantasmi, di sopravissuti, vorrei parlare la prossima volta.

(rubrica "acchiappafantasmi", su l'Unità di domenica 15 novembre)

11/08/2009

La vita nuda del sans papier

Ho viaggiato nudo per 24 ore. Sono stato fortunato: malgrado i tempi che corrono non mi ha arrestato nessuno, neanche all’albergo che mi ha ospitato una notte senza carta d’identità. E’ bastato che prima di partire cambiassi giacca, dimenticando soldi, documenti e telefonino nelle tasche dell’altra, per precipitare nella clandestinità e nella non appartenenza, diventare l’uomo (socialmente) invisibile: nomade, clandestino, sans papier. Negli anni Settanta Italo Calvino fu arrestato a Los Angeles perché camminava invece che andare in automobile, era senza documenti e per di più con dei soldi in contanti in tasca. Lo salvò la foto di copertina di un suo libro americano. (Il fatto che io sia l’autore di Panchine, che dovevo appunto presentare in una città di provincia insieme a un altro mio libro dal titolo Oggetti smarriti, temo sarebbe stata un’ambigua e losca aggravante per il poliziotto di turno che mi avesse interrogato).
Sans papier. Ontologia dell’attualità, è invece il libro che Maurizio Ferraris ha dedicato agli “oggetti sociali”, a quei documenti che rendono “vestita” la vita altrimenti nuda. Senza attestati scritti di una documentazione e registrazione dell’identità, riconoscibile e verificabile, si incorre oggi in Italia, oltre che in un dramma esistenziale, nel perverso reato di clandestinità (che comporta una paradossale catena di documentazioni giuridiche). L’assenza del telefonino dissolve infine ogni riferimento, dato che ad esso deleghiamo la memoria di ciò che tranquillamente possiamo dimenticare (e sono consapevole del platonismo insito in questa presa di distanza nei confronti della scrittura come memorandum, “farmaco peggiore del male”, scriveva il filosofo). Il discorso ci porterebbe molto lontano. Mi limito qui a suggerire che non servono viaggi esotici e costosi per provare il brivido del perdersi. Basta prendere un treno regionale e scendere in un posto qualsiasi, senza soldi, senza documenti, soprattutto senza telefonino.

(rubrica di domenica 8 novembre 2009, l'Unità)

11/01/2009

Il Giorno dei Santi e dei Morti

 Idroscalo di Ostia, 1/11/2009, foto di Maria Andreozzi
   Un giorno come domani, il 2 novembre 1975, fu assassinato Pier Paolo Pasolini - l’ultima coscienza critica e poetica del nostro Paese - in circostanze ancora ignote, salvo che non corrispondono alla versione ufficiale. Il suo ultimo film , Salò o lo 120 giornate di Sodoma, fu un pugno allo stomaco e un’invettiva disperata contro i fascismi, quello storico e quello fantasma, cioè che ritorna (solo i fantasmi ritornano). Non bado molto alle ricorrenze, ma mi trovo quasi per caso nel piccolo spiazzo erboso che ospita, come un cimitero laico, simbolico, il percorso di lapidi e poesie che circonda la stele in sua memoria all’Idroscalo di Ostia, dove appunto Pasolini fu ucciso. Alla mia destra, in un terrain vague cespuglioso, l’ottagonale torre di avvistamento michelangiolesca, cieca e abbandonata da anni a non essere vista né ad avvistare più nulla.
Sono qui per fare un reportage da un mondo sopravvissuto, testimonianza del suo stesso precario sopravvivere, un mondo di estremamente poveri che abitano baracche e casette fatte con materiali di risulta, che si allagano ad ogni pioggia. Il mondo di Pasolini, anche se nel XXI secolo ricorda i film di David Lynch: uomini e donne tatuati che ricordo in alcune festose sere d’agosto nella luce rubata ai pali elettrici, animate dal karaoke e dall’elezione di Miss Idroscalo. O, come ogni anno, dalla devozione quasi pagana, e per questo tanto più religiosa, della festa dell’Assunta il 15 agosto, quando la barca con la statua della Madonna esce in mare dal Tevere e prende il largo, e i sottoproletari precari (chiamiamoli così) sono in compagnia di preti, carabinieri e guardie di finanza. Una solennità iperreale e un po’ sballata, come i fuochi d’artificio fuori sincrono. E penso ora che non è male questa coincidenza: essere qui il quasi giorno dei Morti e dei Santi, che altri chiamano Halloween (e cosa ne direbbe Pasolini, mi chiedo).

(uscito su l'Unità di domenica 1 novembre 2009, rubrica "acchiappafantasmi"