9/27/2009

Il nudo, il velo, il burka

A Pieve di Soligo (Treviso) una donna ha denunciato un’altra donna perché, tra gli espositori del supermercato, girava col carrello indossando un burka, spaventandola. Posso capire (faccio parte della generazione che ha visto in tv Belfagor, “il fantasma del Louvre”). Ma lo stesso direttore del supermercato ha detto giustamente che la sua cliente in burka ha tutto il diritto di fare la spesa vestita come le pare. Ora, il tema “supermercato” è molto ghiotto: da Lost in a supermarket dei Clash agli zombi di Romero, sono metafore delle nostre vite svilite come merci tra le merci. Mi interessa però lo scandalo dell’abito. Andrea Inglese, sul sito nazioneindiana, commentando analoghe notizie – nudiste bandite da una spiaggia qui, donne completamente vestite bandite da una piscina là - ha scritto che Luis Bunuel, se rifacesse oggi il film Il fantasma della libertà, lo chiamerebbe Il fantasma della nudità. Ogni deviazione dalla norma (quale?) è suscettibile di persecuzione e divieti. Mentre scrivo questa nota sono ospite della rassegna “Torino Spiritualità”, quest’anno dedicata al tema del “dis-inganno”, della menzogna, dell’apparenza. Dunque, della nudità (e del velo che ne fa indissolubilmente parte). Il tema è in effetti filosoficamente interessante: si è più nudi (nude) e veri col burka o in topless? E perché poi sono sempre le donne a essere illegali?
"The time is out of joint", fece esclamare Shakespeare ad Amleto. Formula attuale, insegna il filosofo Jacques Derrida. “Il tempo è fuori asse”, si traduce di solito, o “fuori squadra”, o “sconnesso”. Philip K. Dick, il grande autore di fantascienza, scrisse nel 1959 un romanzo dal titolo Time out of joint, ottimamente tradotto da Sellerio Tempo fuori luogo. Narra l’oscuro, crescente disagio del percepire qualcosa fuori posto nell’ordine delle cose (il “perturbante” di Freud), in una città di provincia universale. Il metodo (letterario) di Dick era: “se la realtà è un gigantesco complotto, la paranoia è il modo migliore per raggiungere la verità”. Che sia diventata oggi, disperatamente, un’indicazione politica?

(uscito su l'Unità di domenica 27 settembre, rubrica "acchiappafantasmi")

9/25/2009

Ogni cosa è sempre qualcos'altro

Roma, ore 10 del mattino, c'è l'arrotino nei paraggi di cui mi arriva la voce un po' straziante - "Arrotinooo!" - nella luce trattenuta dell'autunno. Il cielo è azzurro, il sole c'è, ma c'è qualcosa. D'altro. Anche la tenerezza è sempre anche qualcos'altro.
C'è che gli ultimi giorni d'estate forse li ho vissuti la settimana scorsa a Lucera, provincia di Foggia che non c'entra nulla però con Foggia - Lucera è un paese bellissimo, antico e spazioso, luminoso. Ero lì al Festival della letteratura mediterranea, e ho parlato con l'amica Lidia Ravera in una piazza affettuosamente gremita. Tra parentesi, a Lucera era di casa Massimo Troisi ("Le vie del cielo sono finite", titolo che in questo momento mi intriga e intimidisce, è stato girato lì). In cuor mio saluto e ringrazio le bellissime persone di Lucera che mi hanno, ci hanno, ospitato. Ero andato dubbioso, e si è rivelato qualcos'altro da quello che accidiosamente mi aspettavo. E poi, il cielo di Puglia, la campagna assolata.
C'è da ieri su nazioneindiana questo bellissimo testo (dire recensione è sminuirlo) di Chiara Valerio, di cui rubo il titolo per questo post: "Ogni cosa è sempre qualcos'altro". E' dedicato al mio ultimo libro, Oggetti smarriti e altre apparizioni. E' scritto con uno sguardo acuto e partecipe che mi commuove. Come anche alcuni dei commenti.
C'è che tra un po' dovrò decidermi a uscire di casa e andare a prendere un aereo per Torino, dove sono ospite del festival "Torino Spiritualità" - si chiama così - e parlerò stasera con il reverendo e maestro Zen Fausto Taiten Guareschi e il filosofo laico, anzi forse laicista, Giulio Giorello. Titolo: "Vivere senza menzogna". Manco a dirlo, non ho preparato nulla. Si parlera comunque di religione, meglio, di religiosità. Del sacro. Che magari è qualcos'altro.
Forse questo post lo continuerò a Torino, magari nel pomeriggio, nella notte, e ci sarà così un décalage temporale, uno scarto orario; ma si sa, ogni cosa è sempre qualcos'altro. E io questa volta ho voglia di un post intimo, non lo faccio da secoli.
Ore 18, sono a Torino già da qualche ora, in un delizioso albergo che dà su un giardino silenzioso. Il cielo è chiaro, quasi bianco. le sere di inizio autunno hanno per me come una patina sottile di ansia, e io la sento tutta...
Notte, Torino. Mi sono divertito molto, nella sala grande del Circolo dei lettori. "Spiritualità" variamente declinata, fino a "spettralità". Dal Geist al Ghost, passando per il guest (il fantasma è sempre l'ospite; o il profugo, o l'altro, o "Dio" o l'immacolata concezione). Ogni cosa è sempe qualcos'altro. Piacere di avere incontrato Valentina, dopo anni, che vive qui. Resto a Torino a lavorare, a scrivere, in questo bellissimo albergo di una gran bella città.

9/20/2009

Il re è nudo (elogio della diffamazione)

Anche se il tema mi sembrava ormai agli sgoccioli, se non addirittura demodé, la grottesca querela a l’Unità e Repubblica da parte del nostro Premier mi fa tornare in mente quello che scrissi l’estate di un anno fa sul lodo Alfano, che rende Silvio Berlusconi come un sovrano assoluto (ab-soluto, cioè assolto dall’obbligo di sottomettersi alle Leggi), godendo di un’immunità e impunità pressocché totali. Per alleviare un po’ l’enorme disparità giuridica nei confronti dei comuni cittadini, proponevo di conferire anche a noi sudditi una piccola porzione di immunità, un’impunità reciproca. Se il Premier è per definizione immune e sottratto al giudizio della Legge, non più oggetto di azioni civili e penali, che Egli non sia nemmeno più soggetto di azioni civili e penali. Che non sia più, durante l’effetto del lodo Alfano, soggetto giuridico: che non possa cioè denunciare, diffidare, criminalizzare, né intraprendere alcuna azione legale nei confronti dei suoi sudditi. Che ognuno di noi, milioni di Italiani, possa dire quello che vuole al Suo indirizzo impunemente, senza timore di infrangere la legge sotto il profilo dell’ingiuria o della “diffamazione” - definizione giuridica che comprende il giudizio anche sommario o l’epiteto colorito - per esempio l'ormai storico “buffone” o "puffone", “imbroglione”, oltre naturalmente a "puttaniere", cosa che avviene comunque in ogni bar e taxi). Che il Re, come un vero sovrano, possa essere deriso dal Buffone senza che incomba su quest’ultimo la minaccia dell’impiccagione. Che sia possibile diventare anche noi sudditi, per un pizzico, irresponsabili. (Naturalmente, scrivevo, i cittadini-sudditi non si limiteranno allo sberleffo, ma estenderanno la loro facoltà all’inchiesta, all’intercettazione, al giudizio etico e morale - questo sì, imperscrittibile - e, naturalmente, politico – poiché tutto è politica per un sovrano, anche la vita privata).

9/16/2009

Il 1989, le creature del buio e l'happy hour (o la fine del comunismo)


Uno dice 1989, e pensa alla caduta del Muro di Berlino, fisica e simbolica, e alla propagazione di quell’onda nell’Europa dell’Est, fino alla clamorosa insurrezione in Romania a fine anno, con l’uccisione da parte del popolo del dittatore Ceausescu. E, due anni dopo, la fine dell’Urss. Pensa alla svolta detta della Bolognina, con Achille Occhetto segretario del Pci che annuncia la soppressione della parola “comunista”, col travaglio psicopolitico che l’accompagna (il film Palombella rossa di Nanni Moretti è di quell’anno). Del 1989 ricordo soprattutto, perché fu soffocato con eccidi il giorno del mio compleanno (e il 30° non lo si dimentica) la rivolta degli studenti in piazza Tiananmen a Pechino, immensa e perturbante come un quadro di De Chirico, dove militari venuti come alieni da lontane regioni della Cina, scelti perché non condividessero neanche una parola con gli insorti, massacrarono gli studenti che chiedevano democrazia. E’ anche l’anno del Nobel per la pace al Dalai Lama Tenzin Gyatso.
Meno scontato è che il crollo del muro di Berlino, e quindi, via via, del “socialismo reale”, radicalizzò la tendenza detta yuppie a valorizzare il lusso, a valorizzare il valore e il mero presente, sancendo un’epoca di conformismo consumistico senza alterità né alternative; un post-moderno nichilista senza speranza, anticipazione di ciò che sarà detto “globalizzazione”: un mondo piatto, orizzontale, monologico, un po’ come un nastro scorrevole di merci e consumi a portata di tutti e ovunque, o come una televisione che non viene mai spenta. Non che io me ne sottrassi, anzi. Disteso sui lettini della lussuosa spiaggia dell’ex villa Agnelli, tra il mare e le cime bianche e rosa delle Apuane, alternavo romanzi e fumetti agli scritti di Benjamin Constant che stavo allora studiando. Ora che ci penso, si discuteva come di una competizione sportiva, ignari di futuri conflitti di interessi, dello scontro tra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti per l’acquisto di Mondadori, a cui nel frattempo fu venduto il gruppo Espresso.
Quell’anno uscì Batman, con Jack Nicholson nel ruolo del cattivissimo Joker, che in una scena memorabile imbratta e distrugge le opere del museo risparmiando soltanto un quadro di Francis Bacon, considerato horror e quindi complice. E in letteratura dominò le classifiche l’ultimo romanzo tradotto di Stephen King, oggi tra i meno noti: Le creature del buio (il titolo originale, derivato da un filastrocca, è Tommyknocker). Su King avevo ogni possibile pregiudizio: americano, di successo, di genere, da spiaggia, presuntuoso anche nel nome. Come fu che cominciai a leggerlo, a partire da Le streghe di Salem per passare subito, rapito, al capolavoro It e quindi a Tommiknocker. Le creature del buio? Quell’anno feci effettivamente molta vita da spiaggia, visto che mi accingevo ad abitare in Versilia in un’allegra combriccola. Ma c’è un motivo più sottile, uno “spirito del tempo” che mi fece forse inconsciamente cercare, nei romanzi detti horror, una chiave di lettura dello scollamento ideologico e non solo che si stava vivendo. Scollamento che di lì a poco avrebbe travolto l’assetto politico italiano e promosso l’anti-politica nella forma di un “regime” - sia detto in senso tecnico - mediatico-pubblicitario: l’immaginazione al potere (ma in senso opposto allo slogan del ’68).
Creature del buio non è il miglior libro di King. Qui e là è perfino noioso, ma è un ottimo romanzo, con echi di Lovecraft, di Robert Heinlein, de L’invasione degli ultracorpi e di Guerre Stellari (c’è un’astronave millenaria seppellita in un bosco!), e perfino di William Bourroughs. Vi ricorre con ironica insistenza l’aggettivo “postmoderno”, e contiene dotte invettive contro le centrali nucleari e le menzogne di tecnocrati e politici americani, evocando l’incalcolabile disastro di Chernobyl del 1986 (King lo pubblicò nell’87). Scritto durante la disintossicazione dell’autore, certe pagine sul piacere della mutazione degli umani in alieni alludono con evidenza alla deriva e all’astinenza da droghe. Mantiene però l’inconfondibile magia di Stephen King nel racconto corale di un’intera città, in un proliferare iperreale di storie parallele. Descrive il disgregarsi di una comunità, per contagio, e quindi del concetto stesso di comunità. Come non vedere nessi con la fine del “comunismo”, cioè di ogni alterità politica, di un pensiero comunitario, che dal 1989 resterà impensato e inespresso, ovvero un “fantasma”? Se in tutti i romanzi di King la salvezza contro il Male poggia su eroi che, quando non sono bambini o donne maltrattate, sono portatori di handicap, in tutti i casi anni luce dal modello di maschio adulto vincente, qui è un poeta ubriacone che cita John Berryman, soggetto a perdite di coscienza. Solo i pazzi, scrisse William Blake, sanno vedere i contorni.
Oggi mi appare chiarissimo che le categorie dell’horror, nel cinema e nella letteratura, sono le più idonee a raccontare la realtà, e quelle dove più si sperimenta una ricerca estetica e narrativa, ma vent’anni fa no. Forse è così da sempre, dall’Odissea al Macbeth, da Dante a Orwell. Ma nell’89 facevo solo parte, con tanti altri, delle creature del “buio”, che di li a poco si sarebbe euforicamente chiamato happy hour. Ecco, Stephen King insegna che l’horror è nella realtà quotidiana e ordinaria: basta aprire gli occhi, dare senso a dettagli come un volo di palloncini contro vento, o un pezzo di liscia superficie metallica che spunta dal sottobosco.

(uscito su La Stampa del 16 settembre 2009, serie "il libro dell'estate")

9/13/2009

Come salvare la vita (e la politica)


“La mia vita fu salvata dal rock’n roll”, disse una volta il regista Wim Wenders (e lo scrittore austriaco Peter Handke ripeté una cosa simile). Ma cosa vuol dire "salvata"? E il rock è solo una musica? Un bel film inglese uscito da poco, I love Radiorock, risponde a entrambe le domande.
E’ la storia vera di una radio pirata che nel 1966 trasmetteva 24 ore al giorno musica rock da una nave, anch’essa pirata, al largo della Gran Bretagna. Racconta l’ossessione del governo inglese conservatore di allora di sopprimere a ogni costo quella radio pirata, ascoltata ogni giorno da 25 milioni di persone, più di metà della popolazione britannica, influenzate dalla sua musica entusiasmante: la pura gioia di Sunny Afternoon e All Day dei Kinks, Hang on Sloopy dei Mccoys, di Beach Boys, Who, Jimi Hendrix ecc. (E le immagini della vita quotidiana degli ascoltatori della radio sono belle e compassionevoli come foto di Luigi Ghirri). Un film di sesso droga e rock’n roll che è soprattutto storia di una battaglia culturale, cioè politica, vincente. Il film termina coll’affondamento notturno della nave (mentre suona, ultima canzone, la romantica A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum). E se il primo ministro aveva deciso di lasciare affogare tutta l’equipe di Radio Rock, decine di barche di giovani e fan vennero all’alba a salvarli. Il rock’n roll, canterà più tardi Neil Young, “will never die”. Tutto qui?
Quando sono uscito dal cinema (Roma, Campo de’ Fiori), la fiumana notturna di giovani e meno giovani consumatori senza scopo, la stessa che in altre città, sembrava fatta di morti. Il contrasto tra l’opacità di oggi e la vividezza del film mi è sembrata insopportabile. Pensate: milioni di persone fecero politica per mezzo di una musica condivisa, lottarono per cambiare la propria vita e affermare dei valori. Oggi, mentre si confronta il prossimo “autunno caldo” a quello di quarant’anni fa, quando (1969) gli operai divennero soggetto politico e saldarono le loro lotte a quelle degli studenti, la realtà offre il desolante spettacolo di una frammentazione di proteste individuali e disperate, che implorano dai tetti lo sguardo della tv, ignorando che è proprio quell’occhio di Grande Fratello ad aver estirpato la capacità di essere soggetti, e quindi di lottare. La verità è questa, soprattutto: che nessuna politica è possibile senza una battaglia culturale.

(una versione appena più ridotta su l'Unità, 13 settembre 2009, rubrica acchiappafantasmi), col titolo "Suoniamo la politica")

9/11/2009

quattuor (passi) fare (2 notturni)

per la belle serie apparsa su nazioneindiana delle poesie-balli a due ideata e curata da Francesco Forlani, detto il Furlàn, scritto effeffe, ultima danza i due notturni, di Monica Mazzitelli e il sottoscritto:

Monica Mazzitelli, Notte fango a Addis Abeba

Scendono strade dalla collina, portano all’occidentale albergo come bolo spinto nel digerente.
Buio e freddo, la macchina inciampa lenta su dossi e fratture. Piogge inondano svergognate.

Luci poche da qualche baracca, fari fendono, fischiano il buio.
Sbattono in faccia bambine e bambini soli per strada come branchi di cani; intenti nel buio su qualcosa: mangiare?
Laceri e stinti come cani nel buio bagnato; soli di notte, lune di notte, il faro dell’ingiusto li abbaglia. Solo bolo da spingere, nel digerente.

Beppe Sebaste, Notte Roma impromptu

“Niente è più intatto di una rovina”, dici attraversando, coi pini marittimi disposti come funghi,
il parco archeologico del tardo capitalismo industriale impiegatizio,
hai fame e caldo, puoi mangiare all’ombra e a Ferragosto pulirti con lo stuzzicadenti e
sdraiato guardare la festa dell’Assunta che dal Tevere prende il mare,
uomini & donne tatuati, guardie di finanza, carabinieri, parroci & Santi, insieme barcollano nelle
barche ubriache e i fuochi non solo d’artificio esplodono fuori tempo
come rutti.
La sera i neon e i karaoke, i fili delle baracche attaccati ai pali della luce. Ci divertiamo molto.
Poi torni a casa e guardi le puttane in viale Marconi. La notte ci si dà da fare
la notte,
eiaculare stanca.

9/06/2009

Lo chiamavamo regime

Torna alla domenica su l'Unità la rubrica acchiappafantasmi:

“Alla politica si è sostituito il potere. La gestione delle cose, gli affari privati. C’è una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità dell’agire collettivo. Non serve, si dice. Non produce effetti. Solo la pubblicità produce effetti... E’ stata una trasformazione molecolare... Vista dall’estero l’Italia resta solo un esempio da studiare sul declino della democrazia”. Sono alcune delle frasi di Nadia Urbinati (l’Unità, 12/8/2009) che hanno avviato un bel dibattito al femminile. Ma non riguardano, è chiaro, solo le donne. Mi riportano alla memoria un piccolo libro collettivo che uscì in marzo 2002 col titolo Non siamo in vendita. Voci contro il regime (fu anche distribuito con l’Unità). Il mio intervento si chiamava: “Dove comincia il fascismo?”. Faceva seguito un forum che organizzai a Parigi all'Ecole Normale col titolo "Italia: la resistibile caduta della democrazia". Alla sinistra (segretario Fassino) non piacque il libro né l’uso della parola “regime”. Eppure c’era già tutto. Nel libro c’era anche un breve testo di Giorgio Agamben (scritto nel 1994!) che avvertiva della soffocante dittatura mediatica che si sarebbe potuta istaurare sotto l‘egida di Berlusconi, “in cui la sistematica falsificazione della verità, della lingua, e dell’opinione, che ha già largamente corso, diverrebbe assoluta e senza spiragli, e in cui, abolita ogni critica, letteralmente tutto tornerebbe a essere possibile, perfino nuovi campi di concentramento...”.
Circolava già la sensazione di essere tutti, se non clandestini (non era ancora un reato), dei rifugiati politici. Lo so, i politici raramente vedono i germi delle cose e degli eventi. E il criterio pubblicitario-spettacolare, quello del successo, è stato ampiamente introiettato, soppiantando ogni giudizio (il successo si constata, non si giudica, e le idee si sottopongono prima ai sondaggi). Ma ora, pur avendo altri pensieri, e mentre l’Italia mi sembra raccontabile solo da un film horror, riprendo l’invito di Nadia Urbinati: massì, ribelliamoci come in Iran o in Birmania. E smettiamo di parlarne (del regime) come di un soggetto di conversazione da bar.

(uscito su l'Unità di domenica 6 settembre 2009)

9/04/2009

Francesco Lotoro, il pianista che salva e riporta all'aria la musica sommersa dai lager

(Su Venerdì di Repubblica oggi in edicola la mia intervista a Francesco Lotoro)

Come sarebbe la musica contemporanea senza la scomparsa di gran parte dell’intelligentsia musicale ebraica d'Europa nei lager nazisti? Prima di morire di stenti o nelle camere a gas, molti continuarono a comporre musica, addirittura a suonarla. Sono perdute per sempre le opere composte lì, nell’inferno? Ma soprattutto: davvero è stato possibile fare musica nei campi di concentramento?
La risposta all’ultima domanda è sì. Qualcuno, da vent’anni, dedica la propria vita a salvare quelle musiche sommerse, al limite dell’indecifrabile, come la carta igienica scritta a pentagramma con la carbonella su cui Rudolf Karel, già allievo di Dvorak, scrisse un “Nonet”, partitura per nove strumenti, poco prima di morire di dissenteria. A scovare musica con passione da archeologo, farla evadere dalla damnatio memoriae, interpretarla come filologo e registrarla su disco, cioè “restituirla all’aria, così come deve vivere la musica”, è un pianista e ricercatore di Puglia, Francesco Lotoro.
Ha studiato a Budapest con Kornel Zempleni, si è perfezionato con maestri come Aldo Ciccolini, insegna al Conservatorio di Rodi Garganico, dirige l’Orchestra Musica Judaica ed è responsabile culturale dell’antica sinagoga Scolanova di Trani, da poco ripristinata nello splendido centro sull'Adriatico famoso per la bianca cattedrale. Se il 6 settembre la Giornata Europea della Cultura Ebraica, dedicata alle feste e tradizioni ebraiche, musiche comprese, avrà come città capofila proprio Trani, e nello stesso periodo si svolgerà un Festival della cultura ebraica in tutta la Puglia, forse tra le ragioni della scelta c’è anche l’attività di Francesco Lotoro. Il quale, oltre alla passione musicale, ha contribuito al risveglio dell’identità ebraica in Puglia, che ebbe a Trani una florida e colta comunità dal X secolo alla cacciata degli Ebrei nel 1541. Far rivivere l’ebraismo dimenticato, e salvare ciò che è sepolto o nascosto come ricercatore musicale, hanno per Lotoro molte analogie. Si chiama Enciclopedia della Musica Concentrazionaria (la musica composta nei campi di concentramento tra il 1933 e il 1945), il lavoro di incisione e pubblicazione che sta portando avanti da anni senza sovvenzioni con l’etichetta KZ Musik, e il cui piano dell’opera prevedere 48 volumi-CD. Tutto questo avviene in Puglia, non a New York. Un lavoro paziente e quasi in solitudine.
Come ha avuto inizio la sua ricerca?
Ero a Praga nel 1990/91, e mi colpì la coincidenza della data di morte di tanti compositori, 17 ottobre 1944: Pavel Haas, Viktor Ullmann (entrambi della scuola di Schoenberg) e tanti altri finiti nelle camere a gas. Ma anche morti per altri motivi, come Gideon Klein, Rudolf Karel, Zikmund Schul, Emile Goué... Pensavo di trovare una decina di opere musicali, e oggi la mia ricerca ha inventariato 4000 partiture nate nei campi. Raccolgo e registro opere musicali composte in ogni tipo di lager, anche quelle dei non ebrei, dai politici ai Sinti e ai Rom, dai preti cattolici ai quaccheri, Messe, opere di cabaret e canti di lotta, come la Sinfonia n. 8 di Erwin Schulhoff ispirato al Manifesto del Partito Comunista, vero e proprio Oratorio laico. La fenomenologia musicale concentrazionaria è molto complessa, scritta nelle condizioni più tragiche e sopravvissuta fino a noi in modi desueti da luoghi in cui è tuttora impensabile che sia stato possibile fare musica.
E' infatti sorprendente...
Nei campi di concentramento come Theresienstadt, preambolo a quelli di sterminio, la musica era usata come elemento di distensione e ricreazione, controllata ma assecondata, perfino con la fornitura di strumenti musicali e di carta da musica. Il campo di sterminio è diverso, si arriva per essere eliminati fisicamente dopo una rapida selezione (il cantante Karel Berman si salvò dicendosi operaio). Noi conserviamo traccia di questa musica grazie a un elemento inconsueto, la memoria: melodie nascevano sui treni da Salonicco, perfino nei tragitti che portavano alle camere a gas, e in un modo o nell’altro ci sono pervenute, immagazzinate nella mente dei sopravvissuti o testimoni”.
E' la magia, il potere della testimonianza...
“Sì, e della memoria. A volte le si dà un significato labile, ma nelle persone che ho incontrato ho trovato quasi sempre una memoria limpida. Questo patrimonio fa parte del vissuto musicale, anche senza carta. C’erano musicisti preposti all’intrattenimento musicale degli ufficiali che hanno arrangiato pezzi di Mozart o di Wagner, e ci sono pervenuti. Da Auschwitz e Birkenau ci sono arrivate partiture, altre si sono perse. Anche nei campi di sterminio si compose musica. Zimon Laks, polacco emigrato a Parigi, poi deportato, fece musica in un blocco a Birkenau vedendo la fila di chi andava nelle camere a gas. Perse là tutte le carte, e ricostruì a memoria solo tre “Polonaises” che arrangiò per quartetto d’archi. La cosa drammatica è che anche i sopravvissuti stanno scomparendo, e che quando ho avviato questa ricerca molti non ho potuto incontrarli.
Come si svolge il suo lavoro di ricerca?
“La musica vive nell’aria, se io trovo la carta, non ho trovato tutta la musica. Se trovo un dipinto, una scultura, ho trovato l’opera d’arte. La musica deve passare dalla carta all’aria, e poi ancora alla carta. Occorre decifrare la grafia, spesso al limite della scarabocchio, vedere in uno sgorbio un diesis, leggere i segni grafici della cattività. Ho passato notti a studiarla. Oppure devo andare a trovare il sopravvissuto che vive per esempio a Gerusalemme, dopo averlo faticosamente cercato, perché mi canti al registratore tutto quello che ricorda, poi a casa lo riporto al computer, o alla carta. Io sono un ricercatore, un musicista, ma occorre ora qualcuno che curi un archivio di tutto questo materiale, troppo per le mie risorse”.
“Grazie a Dio funziona il passaparola, la solidarietà, e passa il messaggio che questa musica deve emergere, essere salvata. Penso sempre che, se questa musica non la suoniamo, rimane nel campo di concentramento. Se non possiamo suonarla in un concerto, almeno la registriamo. Faccio un lavoro gigantesco per restituire alla musica la sua normalità”.