5/10/2009

Agenda (e appunti sulla "testimonianza")

Sono stato benissimo a Udine - città piena di osterie e bar all'aperto festosi - all'ottima rassegna vicino/lontano, abbinata al premio Tiziano Terzani. Ho parlato di "testimionianza" con la storica Marta Verginella e il giudice Pier Paolo Rivello, coordinati dalla direttrice dell'Archivio di Stato Roberta Corbellini.
Breve ritorno a Roma, e già in partenza per il Festival del Blues a Piacenza ("Dal Mississippi al Po"), organizzato dall'ottimo Seba Pezzani. Dialogo domani e dopodomani coi colleghi Joe Cottonwood, Serge Quadruppani, Olen Steinhauer. Il 13 sarò di nuovo a Roma al convegno "La rosa e il cavolfiore. L'immaginazione al bivio", insomma dedicato alla "terra": al Museo d'Arte Moderna, salone dell'Ercole, viale Belle Arti, Roma. Ditemi "buoni viaggi"...

(qui di seguito, alcuni miei scarni appunti sulla "testimonianza" sviluppati all'incontro a Udine dal titolo "Passaggi di testimone", usciti su l'Unità dell'8 maggio):

Il Novecento è stato L’era del testimone, titolava un suo libro la storica Annette Wievorka: epoca dell’irruzione dei “sopravvissuti” nella Storia (quelli della Shoah, e prima ancora della prima guerra mondiale), cioè i testimoni. Memoria e parola vive hanno introdotto una storia al presente e del presente, spesso in conflitto con gl storici di professione, con la loro versione dei fatti meno arida e più soggettiva. La testimonianza ha influenzato anche la filosofia e le arti, promuovendo una contaminazione feconda col genere detto “documentario” e una nuova nozione di “archivio”. Ma la testimonianza è anche luogo di problematicità intensa, come mostra lo stupendo film di Claude Lanzmann, Shoah, quasi nove ore di interrogazioni a testimoni oggi dello sterminio degli Ebrei di ieri, che non esita a tenere conto anche del cielo azzurro e il sole sopra Auschwitz quando venivano bruciate duemila persone al giorno. Emancipata dallo stretto ambito sacro-giuridico, che ne faceva un sinonimo di “prova”, la testimonianza si caratterizza non solo per la soggettività empatica e l’attenzione alle singolarità, in opposizione alle astrazioni universali; il suo essere sostanzialmente linguaggio ci ricorda che la nostra vita, il nostro essere soggetti e persone, si radicano nel linguaggio.
L’etimologia della parola (testis, superstes, cioè superstite) insegna che testimoniare è facoltà della superstitio (superstizione), sorta di “dono della presenza”, quasi una divinazione, ossia la possibilità di assistere ad eventi lontani come se avvenissero davanti ai nostri occhi. La possibilità di testimoniare non riguarda quindi solo i testimoni oculari, quelli che sono (stati) presenti lì, in quel momento; ma anche chi da un evento è coinvolto a distanza, nello spazio o nel tempo. E’ il senso etico e narrativo del tramandare, della trasmissione, del “passaggio” del testimone.
Resta almeno un’altra domanda vertiginosa: che cosa è importante testimoniare, cioè affermare e far vedere. Cosa è giusto prelevare dal flusso ininterrotto di eventi che accade di continuo. Nell’era della saturazione mediatica la responsabilità diviene cruciale, se è vero che testimoniare non è (più) informare sugli eventi, ma crearli, un dire che fa gli eventi di cui pretende riferire. La testimonianza è un enunciato performativo alla base della democrazia: dire è fare.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Beppe, nell'incontro di vicino/lontano abbiamo ascoltato tre punti di vista e tre modi di accostarsi alla testimonianza.E , certo, per storici e giuristi ( Marta Verginella , Pier Paolo Rivello) la testimonianza è la base di lavoro su cui esercitare l'azione critica dei fatti. I testimoni - selezionati, ascoltati, trascritti- ricevono una patente di utilità e quindi di legittimazione. Ma è diverso l'approccio dello scrittore. Lo dici anche tu nell' articolo apparso sull'Unità ma soprattutto in "H.P. l'ultimo autista di Lady Diana" dove il testimoniare diventa prima di tutto un rapporto fisico con l'altro, entrato non solo come immagine nella fantasia. Insomma è una questione di rapporto diretto con la vita. Qui sta la grande differenza. E a pensarci bene se ci chiamiamo ad essere testimoni di qualcosa finiamo per esserlo per qualcuno.Ci sono eventi che non ci colpiscono così a fondo da impegnarci nel racconto dell'accaduto, ma altri eventi scuotono la nostra "umanità " e allora memoriazziamo, raccontiamo, manipoliamo fino alla bugia, se necessaria.Ritornando a casa l'altro giorno ho provato a cercare l'epicentro della mia empatia con la vita e mi sono accorta che mi sdegno troppo poco per diventare testimone e gioisco altrettanto poco. Almeno mi pare. Insomma,temo la vicinanza della morte e della violenza, riconosco la bellezza della vita ma non sufficientemente da voler- o saper- raccontarle in un mio contesto di testimonianza. Questo forse sta succedendo a molti , e questa distrazione dal nostro epicentro può aver ingrigito la nostra energia comunicativa e nel complesso la nostra area della testimonianza. Roberta

Anonimo ha detto...

cara roberta, fammi meditare su questa tua "testimonianza". mi sembra vera e lucida, e profonda. grazie intanto. a presto, beppe

Anonimo ha detto...

Qualcuno di voi ha seguito il caso di Jennifer Millia? l'infermiera inquisita per aver pubblicato su Facebook fotografie dei colleghi ripresi al lavoro nel reparto di cardiochirurgia dell'ospedale di Udine? Lo chiedo, a proposito del testimoniare, perchè non capisco l'accusa :" interferenze illecite nella vita privata". Potremmo fare una lunga disquisizione sul confine tra pubblico e privato , ma ci sono due elementi che mi incuriosiscono di più. Innanzi tutto Facebook. Una volta ( e non è passato molto tempo, lo ricordo per il mio paese ) gli occhi degli altri erano continuamente appoggiati sul nostro corpo. Ricordo il passaggio dai calzettoni alle calze " fine". Mi sono presentata in piazza, sapevo che tutti si sarebbero accorti che avevo due gambe e che le mostravo da donna. E sentivo- senza sentirli- i commenti delle altre ragazze. Era un atto di coraggio annunciare in questo modo che era finita l'era delle bambole. Un atto dovuto. Quella data ( maggio 1963) mi è stata ricordata. Al funerale di mia madre, celebrato in paese, mi si è avvicinata una donna che non vedevo da un'infinità di anni. Mi ha ricordato questo e altri episodi, abbiamo ripescato nomi e volti e ci siamo ritrovate a parlare come un tempo di tutti, morti, disgrazie e malattie. Il paese era in fondo facebooK . Ma anche facebook è in fondo un paese, un quartiere che si va costruendo attorno a chiacchiere , nomi e visi. Secondo punto. Allora che cosa rimproveriamo a questa infermiera? di aver descritto la sua comunità di lavoro sfiorando con le immagini corpi ammalati? di non aver chiesto il permesso di pubblicarli sulla grande piazza mediatica o piuttosto abbiamo paura di far vedere il nostro corpo ammalato,debole, bisognoso di cure tra le macchine e le persone che tentano di rimetterci in piedi e di ridarci un corpo, se non intatto, almeno guarito e presentabile. C'è una grande confusione. Si sopportano i corpi della propaganda salutista, l'esibizionismo di finti corpi intatti, poi ci scateniamo se vediamo corpi veri. Forse perchè siamo troppo vicini all'area della testimonianza?

Anonimo ha detto...

interessantissima testimonianza, cara/o anonima/o, grazie.
io penso che lo slittamento e le ipocrisie della e sulla frontiera tra "privato" e "pubblico" sia assolutamente cruciale, e assolutamente politico. bella l'idea del paese divenuto facebook...
beppe s.