12/31/2008

"Io e mio padre". Incontro con Christian De Sica

(In attesa di metterlo nell'apposita sezione del mio sito, ecco l'incontro- intervista con Christian De Sica che appare oggi su l'Unità. E con questo, buon anno, buon passaggio 2008-2009 - soprattutto non cascateci dentro, nella fessura tra i due anni).

“Mio padre era comunista, e andava a dirigere Umberto D. col panama bianco come Puccini, le ghette e il principe di Galles. Aveva un enorme carisma, come quando a Napoli girando un film con la Loren e Mastroianni chiese silenzio col megafono alla folla vociante. Alla fine disse “Grazie”, e centinaia di voci risposero “Prego”. Un altro lo avrebbero preso a pernacchie, lui no. La gente sentiva che era uno in buona fede, una persona seria. La verità vince sempre. Ora siamo un popolo di rincoglioniti”.
“Cesare Zavattini è stato il mio padrino. Quando da ragazzo gli chiesi che libri leggere, mi disse: Il Capitale. Era il più grande sceneggiatore di cinema, e viveva in due camerette vicino alla Nomentana. Il 50% del denaro che guadagnava lo dava al Pci. Mi portò una volta a Luzzara a casa di Ligabue, i bambini uscivano dalla sua casa gridando: “Ha mangiato il topo!”, dentro c’era lui, aveva appena dipinto una delle sue famose motociclette rosse. A Parigi andavamo di notte con una lampadina a illuminare le vetrine delle librerie. Ma Zavattini si vergognava delle commesse, e mandò mia madre a comprargli una cravatta che gli piaceva. Era un uomo eccezionale, ogni volta che uscivo da casa sua pieno di entusiasmo”.
Sono seduto con Christian De Sica nella casa che fu già del padre Vittorio. Parla in modo così affettivo che viene il dubbio stia recitando. Ma importa? “L’attore è una puttana”, dirà lui stesso, soprattutto il comico. Resta che far stare in un articolo un’intervista a De Sica, e la lettura del suo libro di ricordi e aneddoti Figlio di papà, così ricco che ubriaca, è come per un cavallo pisciare in un bicchierino da liquore (questa è una citazione da Gadda, non da De Sica).
Christian parla di quando “la sinistra era meravigliosa: gli uomini di quell’epoca sono in estinzione. Gli italiani sono cambiati anche fisicamente, il nostro è ormai un paese cafone. Ricordo mio padre con la carrozzella comprare la treccia in via del Corso la domenica, e i fiori per mia madre, perché a quei tempi si offrivano i fiori alle donne. Ricordo Aldo Fabrizi esclamare: “Aho, è domenica, oggi c’è il pollo!” Pensa che ottimismo c’era nel nostro paese!”.
“Sono un uomo di sinistra. In un articolo su l’Espresso scrissero che la pubblicità era in genere di sinistra, tranne quella del vigile Persichetti interpretato da me, quella è di destra. Perché si tratta di un vigile urbano? Quanto ai soldi che fanno i “cinepanettoni”, sono quelli che permettono poi di fare film bellissimi come Gomorra. In Italia la sinistra ha il complesso del padreterno, è incapace di prendersi per il culo, e dimostra solo che siamo fragili. E’ un’Italia disastrata, infantile”.
Se i personaggi dei suoi film “di Natale” sono misogini, mascalzoni, puttanieri, un teatro di burattini che ricorda la galleria di italiani interpretati da Alberto Sordi (e su cui manca una vera analisi), confesso di essere stato spettatore ammirato del musical di Christian De Sica Parlami di me, omaggio al padre e agli autori del varietà italiano, come Garinei e Giovannini. Guardandolo pensavo al provincialismo italiano che ci porta ad applaudire i musical americani e a snobbare i nostri. “Quello spettacolo”, mi dice Christian, “aveva il santo protettore di papà che mi guardava dall’alto. Il momento più bello è quando mi siedo e parlo con lui. E’ lui mi ha insegnato il mestiere, e soprattutto ad amare le persone umili, la dignità della gente per bene”. Il figlio Brando, 25 anni, laurea in regia a Los Angeles, ne ha tratto un film, più fresco e stringato, e Rod Marshall, l’erede di Bob Fosse, autore di Chicago e ora di Nine, musical ispirato a Fellini, dopo averne visto uno spezzone voleva Christian nel cast con Nicole Kidman e Daniel Day Lewis. “Non ho potuto accettare perché le riprese coincidevano con Natale a Rio. Mi è rimasta la soddisfazione di essere chiamato da quel grande coreografo”.
Anche il libro Figlio di papà (Mondadori) è montato come un varietà. “Non è una sòla, il solito libro del comicone, non dice solo cose spiritose, ma alcune verità sul ‘come eravamo’. Gli amici che ascoltavano le mie storie a tavola dicevano: non ti rendi conto, sei una miniera, queste cose non le sa nessuno, devi scriverle. L’ho fatto. Sono stato figlio di un vecchio, nato nel 1901, perso a 23 anni, pensa quante cose potevo chiedergli e non ho fatto in tempo. Ma ho avuto la fortuna di avere un padre speciale che mi ha raccontato quello che un nonno avrebbe raccontato al nipote”.
Certi racconti sul padre hanno un valore esemplare. “La realtà è sempre più affascinante della menzogna. Fare film di fantascienza, parlare del passato o del futuro è più facile che raccontare il presente, la verità. Mio padre e i suoi amici erano bravi perché hanno sentito il bisogno di dire la verità. Nel libro - quando racconto del whisky con ghiaccio che mio padre beve mentre sta per morire, mi dice le bugie, ma fa capire la tristezza di lasciare i figli così giovani, poi aggiunge: “soprattutto guarda il culo di quell’infermiera” - io dico la verità, è andata proprio così. Era un attore comico, ha voluto darmi l’ultimo sorriso morendo. E’ una delle pagine più toccanti perché racconto la verità”. Il libro restituisce una memoria non solo individuale ma del Paese, estirpata da una certa tv. Christian dice con sua moglie Silvia che “il disastro in Italia è cominciato con una trasmissione che si chiamava Non è la Rai, dove le ragazze per la prima volta sbattevano le chiappe davanti alle telecamere per fare carriera. Oggi in Italia o diventi un calciatore, un cantante, un attore o un ballerino. Se non sei una di queste cose sei una merda, come diceva Andy Warhol. Nessuno vuol fare più il giornalista, il tabaccaio, l’avvocato, l’operaio. Ma dove vanno a ballare tutti questi ballerini, se in Italia si fa un musical ogni dieci anni?”
Dopo l’esordio a 18 anni con Rossellini in Blaise Pascal, il successo con Sapore di mare dei Vanzina, e 90 film (prima ancora del primo film natalizio), Christian De Sica è il numero 1 del cinema comico nazional-popolare, genere che nel libro analizza con disincanto. “Ho continuato a prendere la metropolitana, andare per strada, non rinchiudermi in questa casa scintillante che era di mio padre. Ricordo che Visconti disse a mio padre: ‘siamo vecchi, due grandi registi, ma tu Ladri di biciclette non lo puoi più fare, né io La terra trema, meglio fare film tratti da libri”. Lui fece Morte a Venezia, papà Il giardino dei Finzi Contini. Il presente, dicevano, non lo conosciamo più, perché non prendiamo più il tram”.

12/28/2008

Non chiamatele favelas. Storia di uomini e topi

Oggi su la Repubblica (ediz. romana) è uscito questo mio breve reportage, dal luogo in cui una mamma e il suo bambino sono bruciati vivi in una miserabile baracca)

Calpesto terra scura e umida e nere braci. I miei occhi toccano stoffe, utensili, pentole con dentro resti di cibo, pezzi di legno e di ferro non identificabili, e il vuoto carbonizzato dove prima c’era una baracca di legno, plastica, cartone. Vi abitavano una madre e il suo bambino di tre anni, Dorina e Kristinel, bruciati vivi mentre cercavano di scaldarsi accendendo il fuoco in un recipiente di metallo, come fanno tutti. I poveri sono pericolosi, sì. ma solo a se stessi. Nel labirinto di sentieri del sottobosco ci hanno guidato qui, Flaminia Savelli e io, tre gentili carabinieri. Solo pochi chilometri di questo stesso intrico di pini e lecci ci separa dalla tenuta del Presidente della Repubblica. Ho il permesso di varcare il nastro che transenna la tragedia. Guardo, in un luogo dove si dovrebbe ormai solo pregare, le baracche attigue superstiti.
Un luogo che non è in un altro mondo, ma negli interstizi del nostro. Arrivati alla rotonda di Ostia, di fronte al mare e alla luce, si gira a sinistra sulla litoranea che porta alle spiagge tra le dune, costeggiando a sinistra la pineta di Castelfusano. Dopo appena un chilometro, di fronte allo stabilimento Mariposa, con parcheggio e campo da tennis che arriva alla strada, un buco nella rete che cinge la pineta segnala il passaggio che conduce a uno degli insediamenti nascosti dei più poveri tra i poveri. “Extracomunitari”: la formula è giusta se non si riferisce a coordinate geografiche, ma economiche ed esistenziali: la comunità è dei ricchi, i consumatori; gli “extra”, gli esclusi sono i poveri, rom o rumeni che siano.
C’è freddo nel bosco, alle due del pomeriggio. Il sentiero scosceso si ferma in un anfratto piatto protetto dagli alberi, perennemente in ombra. Una batteria Bosch, un pentolino senza manici, alcuni piatti di plastica sparsi, vasetti di fiori rovesciati, uno specchio semicoperto di terra, tappetini di auto. Man mano che mi avvicino ai resti carbonizzati: una padella con rimasugli di cibo color zucca, un tavolino e una sedia di plastica bianchi, pezzi di motore di scooter. Tra i resti freddi del fuoco, neri e grigi, l’incongrua nota di colore di un lembo dell’inconfondibile tela verdazzurra per trasportare i morti, impigliato a un rovo. Ho i piedi gelati, è naturale volersi scaldare, qui. Ma sono gelato dentro. Cammino tra vetri rotti, carcasse di ferro, sedie di vimini rovesciate sugli aghi di pino.
A pochi metri la “casa” della vicina, Veronica, 35 anni, che aveva cercato di soccorrere Dorina. Mi affaccio: un materasso annerito, coperte, poco spazio per altro. Altro che consiste in un mobiletto bianco con su una pentola ancora piena di carne e sugo rappreso, un tavolinetto basso con sopra un tubetto di crema Nivea, un pacchetto di tè, fazzolettini di carta. Per terra una bottiglia d’aranciata e un bicchiere di plastica.
Proseguo il sentiero verso l’alto, una a una scorgo altre baracche, come quella di Lorenzo. Di fianco all’entrata, una stanza da bagno all’aperto, a suo modo molto ordinata: uno specchio tondo appeso a un ramo, un altro rettangolare incollato alla fragile parete, un pettine. Per terra, scarpe allineate e una collezione di saponi. In ogni baracca c’è una batteria da automobile per alimentare corrente. Salgo ancora, tra i pini una baracca che prima non vedevo. Anche qui lo spazio è occupato dal materasso, un tavolino di plastica è la cucina, accanto alla pentola un vecchio minuscolo televisore. All’ingresso un calendario cinese 2007 con disegni di animali, tappeti scoloriti. Nella rudimentale veranda, pattumiere di plastica e una scatola da scarpe che contiene bucce di patate, su un ripiano mezzo peperone e gambi di sedano in una vaschetta. Una bicicletta appoggiata a un albero, protetta da un telo verde. Sulle pareti esterne, rivestite di cartone da trasloco ancora con lo scotch, un foglio con un elenco di otto nomi, Tabel Benzina, un mini-censimento interno. Torno indietro, riconosco lo scheletro di una baracca in costruzione. L’appuntato Muzi mi riaccompagna. Emergo dal bosco e respiro guardando il cielo albicocca sul mare.
Ci sono tanti insediamenti di baracche come queste nella pineta. A uno di essi si arriva dall’ingresso della riserva naturale sulla Colombo, di fronte alla via della Villa di Plinio. Dall’elicottero si vedono bene, nell’intrico di alberi è quasi impossibile. Ma non chiamateli baraccopoli, tanto meno favelas: quelle sono luoghi con una dignità alla luce del sole, qui sono nascoste. Tra la litoranea e gli stabilimenti, Flaminia mi mostra la sua scoperta: una sorta di luogo d’appoggio logistico degli invisibili: oggetti, materassi, nascosti dalla macchia e dai pini. Senza vederle, dai fruscii tra i rami ci accorgiamo di presenze, come se invece che uomini si trattasse di topi. Vivono tra gli interstizi delle nostre case, dei nostri luoghi di svago. Come forse in nessun altro luogo in Europa, qui ci sono uomini che vivono come topi. Poveri. Cioè extracomunitari.

12/27/2008

per Harold Pinter

(Per una volta la dò in anticipo, la mia rubrica domenicale acchiappa-fantasmi)

Mentre non uscivano i giornali, in questi giorni di feste natalizie, moriva discretamente a settantotto anni il grande scrittore, drammaturgo e poeta inglese Harold Pinter, insignito dal Nobel nel 2005. Mi è venuto spontaneo sfogliare il volumetto di poesie (1950-2006) che Einaudi due anni fa ha fatto uscire a cura di Edy Quaggio: Poesie d'amore, di silenzio, di guerra. Una delle prime si intitola: Natale.
"Scegli un cocktail per il bambino, / da bere in un cornetto acustico. / La privazione fa arrabbiare; che almeno / gioisca nella sua cattività. [...] Siamo una famiglia felice. / Vieni, cantiamo del porto, / delle notti a rimpinzarci di bouillabaisse. / Poi andiamo a bucarci dai vicini, / facciamo un’altra festa."
C’è qualcosa di spietato nelle sue poesie. Tra le motivazioni al Nobel, l’Accademia Svedese scrisse che “nelle sue opere svela il baratro sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringe a entrare nelle chiuse stanze dell'oppressione”. Harold Pinter, se conta (io credo di sì), era un scrittore implacabilmente di sinistra, molto critico su temi politici e sociali. Ancora comunista, pare. Sulla prima e sulla seconda guerra in Iraq, sulle bombe e l’esportazione anglo-americana della democrazia, ha scritto cose vere e tremende. Ecco un frammento di American Football. Riflessioni sulla Guerra del Golfo , una poesia del 1991:
"Alleluia! / Funziona. / Gli abbiamo fatto scoppiare anche la merda. / Gli abbiamo fatto scoppiare la merda su per il culo / finché, cazzo, gli è uscita fuori dalle orecchie. / [...] Alleluia. / Sia lode al Signore per tutte le cose buone / Gli abbiamo ridotto in polvere i coglioni, / in polvere, porca troia. / Eccome se l’abbiamo fatto. / Ora voglio che tu venga qui e mi baci sulla bocca."
Le poesie non si dovrebbe mai commentare, però una cosa si può dire sui poeti (e gli scrittori) veri; che essi per definizione non mentono mai, di qualunque cosa parlino. Quando muoiono fanno sentire più soli, ma anche più responsabili.

12/22/2008

Un eroe invisibile (acchiappafantasmi n. 8)

Ieri, su l'Unità, la mia consueta rubrica domenicale:

C’è una bella canzone di Caparezza, musica da finto western, che racconta la storia di un “eroe contemporaneo”. “Sono un eroe”, dice il ritornello, “perché lotto tutte le ore”, “perché combatto per la pensione”, “perché sopravvivo al mestiere...” La canzone è un campionario dei drammi quotidiani di salariati e precari, della vita ordinaria della gente – che, scriveva già il filosofo Emmanuel Levinas, è più eroica di quella dei samurai. Ci sono poi eroi che danno agli invisibili la dignità di eroi. Uno di questi si chiamava Claudio Schiaretti, e viveva a Parma dove dal 2000 era segretario provinciale della CGIL scuola.
Ho fatto parte del mondo di chi faceva la fila per parlare con lui, di cui divenni presto amico. Seduto ad aspettare il mio turno mi giungevano le voci esitanti o malinconiche o disperate di quanti, spesso donne, spesso madri, avevano problemi di orari, concorsi, destinazioni lontane, malattie, trasferimenti, Legge 104. Insegnanti che sperimentano ogni giorno il divario tra studi, vocazione, lavoro. Fannulloni, direbbe un umorista, specie se sindacalisti. Erano e sono problemi anche miei. Io ero il più imbranato e problematico. Anche se insieme si parlava di massimi sistemi, riforme della scuola e del sapere, Claudio doveva insegnarmi ogni volta l’a b c, mettermi la crocetta sulla caselle più ovvie dei questionari ministeriali. Lo faceva con allegra pazienza, una gentilezza mai ostentata né imbarazzante.
Laureato in matematica, docente stimato e benvoluto, la sua vocazione ad aiutare gli altri lo rese indispensabile, ricercatissimo. Lui si dava instancabile. “Claudio c’era sempre”, dicono tutti. Il 18 dicembre di un anno fa lo ha spento un male improvviso a 47 anni. No, non spento, mi scuso: forse un Liceo Scientifico porterà il suo nome, se l’augurano in tanti, specie quelli che non si stupirebbero della canzone di Caparezza.

12/20/2008

La Chiesa, Fini, il fascismo e le leggi razziali

Forse esagero, se oltre gli appunti (come l'amico Wu Ming 1) io dò in lettura anche le lettere, e perfino le lettere di altri. Ma si tratta di due cari amici e cani sciolti (storici di professione, fra l'altro, anche se uno dei due è anche poeta) su un argomento di attualità. Fanno riflettere, e dicono cose non scontate.

Caro Luigi,
non si potrebbe fare una risposta a Fini come storici e farla circolare più possibile? Fini omette non a caso la cosa essenziale: che la mancata protesta o opposizione degli italiani alle leggi razziali (ammesso che sia vero) dipende dal fatto che c'era una dittatura in atto, che non era possibile esprimere la propria opinione, che il fascismo aveva stroncato tutti gli strumenti per poter intervenire liberamente nel dibattito politico.
Nel momento in cui le lotte in corso e la rabbia crescente non hanno un referente politico, gli intellettuali dovrebbero muoversi. Noi come poeti abbiamo fatto delle piccole cose: uno striscione allo sciopero del 12, il rifiuto di partecipare a manifestazioni patrocinate dalla destra. Piccole cose. Gli storici non potrebbero fare qualcosa? Ribattere colpo su colpo certe affermazioni governative, farle circolare, fare agenzie, ecc? Un intervento sul manifesto?
Ti abbraccio e ti auguro buon anno,
Carlo [Bordini]

Caro Carlo,
hai ragione, ma in questo paese anche gli storici, come tanti intellettuali, sembrano sulla via del disarmo. O dell’Aventino. Io non mi sento in grado di preparare una risposta, non sono abbastanza esperto e la faccenda è intricata. Ci vorrebbe un contemporaneista del settore. Conosco un po’ solo la questione della Chiesa cattolica, sulla quale Fini ha parzialmente torto (a parte il fatto che la sua chiamata di correo ha chiaramente lo scopo di giustificare il fascismo). Il fatto è che quando uscirono le leggi razziali era papa Pio XI, che aveva un atteggiamento sostanzialmente antinazista e antirazzista, e in un'enciclica del 1928 aveva condannato l'antisemitismo. Pio XI incaricò alcuni gesuiti di preparare una bozza di enciclica in cui condannava il razzismo (soprattutto nazista), ma poi morì e Pio XII la riprese in mano ma la modificò profondamente, condannando in genere tutti i totalitarismi. Si può dunque parlare di un diverso atteggiamento dei due papi. Il che rende un po' problematico il giudizio sulla chiesa cattolica nel suo complesso. Certo, nessun vescovo o cardinale si pronunciò: ma è anche vero che a quei tempi la struttura gerarchica era ancora più forte di oggi.
La tua argomentazione comunque è giusta: sotto una dittatura non ti puoi aspettare forme di protesta aperta, ma al più forme di sabotaggio occulto, come infatti avvenne, visto che la stragrande maggioranza degli ebrei italiani, anche a Roma, scampò alla deportazione grazie alla protezione che ebbero da parte di privati e di ecclesiastici. Pensa che a Roma su 10.000 ebrei circa 8.000 riuscirono a nascondersi. Ho scoperto che anche la famiglia dell'allora fidanzato di mia madre, che aveva una casa grande, nascose una famiglia di ebrei.
Riusciremo a vederci durante le feste?
Luigi [Cajani]

12/14/2008

La realtà della letteratura

Sabato 6 dicembre sono stato invitato a Bologna, insieme allo scrittore Eraldo Affinati (che ho avuto il piacere di incontrare lì per la prima volta), a parlare sul tema "Libri di realtà. La funzione mimetica della letteratura e i suoi paradossi". L'incontro, organizzato dalla Bottega dell'Elefante, dal dipartimento di Italianistica dell'Università di Bologna, e in particolare da Magda Indiveri e Mimmo Cangiano, prevedeva una lettura e discussione iniziale sul saggio "Fortunata" di Erich Auerbach (da Mimesis). Gli organizzatori hanno anche prodotto un bel librino che raccoglie, oltre ad alcuni interventi del sottoscritto e di Affinati, insieme a estratti dei nostri ultimi romanzi, altri testi e interventi di scrittori classici e altri assolutamente contemporanei, compresi Girolamo De Michele, Giampiero Rigosi e Wu Ming 1. Lo stesso giorno su l'Unità uscivano alcuni miei appunti in forma di articolo, che qui di seguito ripropongo. Anche se, va da sé, quello che ho detto nell'aula absidale di Santa Lucia a Bologna era diverso e più variegato rispetto a quello che ho scritto, come sempre accade, ma così è la vita, e questo ho.

Nel 1967 Roland Barthes già decostruiva le certezze strutturaliste, come la distinzione tra “storia e “discorso”, in un breve saggio dal titolo “Il discorso della storia”. Quei testi, quelle enunciazioni che non mostrano traccia dell’enunciatore (l’io di chi scrive, o altri più discreti riferimenti spazio-temporali al tempo dello scrivere, o alla fisicità storica dell’autore), che si pretendono quindi “oggettivi” o “obiettivi”, non sono che il prodotto di una forma particolare di immaginazione e di strategia retorica, che Barthes chiama l’“illusione referenziale”. Essa è evidente negli scritti di chi vuole “limitarsi a “raccontare i fatti”, lasciare che il referente parli da solo - come se il significante (il linguaggio, l’enunciazione narrativa) fosse invisibile o inconsistente. E’ un atto linguistico performativo truccato, spiegava Barthes, un atto d’autorità. Ma non sarebbe (stato) possibile se, sotto l’egida della formula “è successo”, non avesse incontrato in effetti un gusto che segna la svolta dell’Occidente: il fascino a volte morboso per il “reale” e i suoi dettagli, ciò che, per esempio, costituì l’enorme successo del genere epistolare e del diario intimo, e che fu poi suggellato dallo sviluppo massiccio della fotografia, il cui tratto specifico rispetto al disegno è quello di attestare che ciò che vi si rappresenta “è realmente successo”. La figura retorica dell’oggettività dei fatti venne chiamata da Barthes “effetto di reale” (o “di realtà”), con cui un anno dopo titolò un altro suo scritto.
Ho letto in questi giorni un libro bellissimo, Approdo, dell'australiano di origine malese Shaun Tan (elliot 2008): l'immagine che si vede sopra viene da lì. L’ho letto anche se non compare neanche una parola, solo disegni, con zoomate e piani sequenze narrativi. Parla di migranti (proprio come un libro di quell’altro outsider e innovatore, lui sì assolutamente verbale, che è stato W. G. Sebald), e racconta una storia archetipale e al tempo stesso attuale, reale e immaginifica, in cui tutti i migranti della Terra possono ritrovarsi. Si basa anche su un archivio a portata di tutti: aneddoti tramandati da migranti di varie nazionalità (la trasmissione epica orale), alcuni dei quali raccolti nel libro Tales from a Suitcase; vecchie fotografie, comprese quelle dell'Ellis Island Immigration Museum; cartoline illustrate; film (Ladri di biciclette); incisioni (“Sopra Londra, in treno” di Gustave Doré), ecc. L’epica di questo libro è (anche) quella della testimonianza.
Siamo da tempo nell’Era del testimone, come titolava un libro di Annette Wievorka, l’epoca in cui (dopo la Shoah) l’avvento dei “sopravvissuti” (cioè i testimoni) e il dilatarsi della nozione di “archivio”, hanno cambiato non solo la storia e la storiografia, ma anche le arti e la letteratura. A volte la memoria si pone in conflitto con la storia, nell’ambizione di sostituire la sua oggettività arida e livellatrice con una versione più soggettiva ed empatica dei fatti. Ne tratta lo storico Enzo Traverso nel suo Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica (ombre corte 2006), dove si riflette sulla differenza tra storico, testimone e scrittore in modo molto illuminante per chi si occupa di forme narrative.

E’ un fatto che da anni la letteratura trovi i suoi effetti più romanzeschi proprio lasciando da parte i modi e le strutture narrative della fiction, sempre più cristallizzata in cliché (ultimo, il noir stile “sceneggiatura”) a favore di una sorta di libero “documentario”. Non solo cioè con un “effetto di realtà”, ma con l’uso strutturale di documenti e reperti: lettere, fotografie, ritagli di giornali ecc. inseriti nel tessuto della narrazione. Trame che si confondono con la nozione stessa di archivio e/o di inchiesta, storie costruite stilisticamente col montaggio di documenti. Ma che ricordano anche la giocosa libertà dei bellissimi “musei immaginari” che Bruno Munari insegnava ai bambini (ricordate? prendere un sasso, un rametto storto, una foglia o un pezzo di muschio, e riporli in bacheche: scoprire e/o inventare il mondo, col gesto di repertoriarlo).
Ha cominciato, se non sbaglio, il grande narratore tedesco W. G. Sebald, mostrando che la soggettività non solo non si perde né si nega nel perseguire un romanzo che assume i tratti dell’indagine più oggettiva e referenziale, ma si potenzia fino all’ossessione. Contemporaneamente l’oggettività, l’effetto di reale più estremo e vincolante, non impedisce il completo dispiegarsi della libertà espressiva dell’autore. Un po’ come lo espresse Jean-Luc Godard quando rispose così al giovane aspirante cineasta che lo aveva avvicinato: “Intanto fammi un film su questa scatola di cerini” (e gliela porse).
La narrativa che oggi mi interessa (e in cui credo di rientrare: mi riferisco soprattutto al mio HP. L’ultimo autista di Lady Diana) è fatta di libri che nascono come reportages ma sfociano nel romanzo, come il bellissimo e tremendo Ossa nel deserto di Sergio Gonzalez Rodriguez (Adelphi), dedicato ai massacri irrisolti di donne a Ciudad Juarez, tra Usa e Messico (tema ripreso da molti altri libri), o il “gonzo journalism” di Hunter Thompson, fusione di cronaca e narrativa, rigorosamente in prima persona, il cui motore è dato dalla consapevolezza che la vita è quello che ti succede mentre stai facendo qualcosa d’altro. Oppure che sono e restano romanzi pur sfociando in una specie di reportage, o addirittura di esplicita denuncia (è il caso di Gomorra di Roberto Saviano, di cui non si sottolineano mai abbastanza le incursioni all’io di chi scrive, la presenza strutturale di “tracce dell’enunciatore” nel racconto); o, lontanissimo, di Due vite dell'indiano Vikram Seth, che scopre a quarant’anni l'Olocausto e la Storia grazie alla microstoria, grazie alle lettere nella soffitta dello zio a Londra, e della zia ebrea).
Non occorre che siano storie straordinarie a nutrire questi testi, ma vicende private, ordinarie. Come i racconti orali di Ascanio Celestini, sulla scia delle testimonianze raccolte dal suo maestro, Alessandro Portelli. Come il breve film (e libro) della milanese Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, che racconta la storia della madre, morta suicida quando l’autrice era bambina, attraverso fotografie, lettere, reperti medici, diari, filmini di famiglia, in un archivio femminile in cui ogni donna ritrova qualcosa della propria identità e genealogia. Raccontare vite usando i mezzi espressivi e il punto di vista, i documenti e la memoria di chi quella vita ha vissuto. A monte di tutto questo vi è una scoperta estetica che l’arte contemporanea ha per prima fatto propria: la qualità elegiaca e universale di frammenti e oggetti della vita ordinaria degli individui, che siano volti, come quelli anonimi e ingranditi che popolano le mostre di Christian Boltanski, o oggetti, reperti di ogni genere e sostanza. Se nell’arte opera da tempo una nozione attiva di “archivio” che ne ha deterritorializzato e riterritorializzato gli orizzonti, la letteratura è appena agli inizi.
Il distacco dello storico e l’empatia del testimone compongono “documentari” che trattano la realtà come un fantasma, mostrando la scaturigine e la formazione del proprio presente, del proprio “dire” presente. Realizzano cioè il vero senso della parola testimonianza, (dal latino superstitio): si è testimoni anche se non si è oculari, anche di eventi lontani nello spazio e nel tempo.Superstitio significava il "dono della presenza"; e il dono della presenza è dato dal racconto, dal tramandare.

Michel Foucault dedicò un saggio importante sul "genere" da lui chiamato “fantastico da biblioteca”, in cui rientrano di sicuro Le tentazioni di Sant’Antonio di Flaubert come parecchi dei romanzi di Philip K. Dick, ma anche uno dei libri secondo me più importanti e innovativi degli ultimi anni, scritto di recente da un appartato scrittore sperimentale, cioè sperimentatore di linguaggi: Giuseppe D’Agata, I passi sulla testa (Bompiani 2007). Vi si racconta “semplicemente” l’inventario della sua biblioteca di romanzi, su cui grava l’incombenza di un trasloco, quindi di una perdita. Penso infine, naturalmente, a Cervantes, che cita biblioteche di libri reali (anche propri!) in Don Chisciotte, e nel secondo tomo dell'opera il Cavaliere e il suo scudiero sono invitati dal Duca a corte, perché le loro avventure li hanno resi famosi (!). Cervantes è del resto modello di una libertà narrativa e affabulatoria che insegna come dalla realtà della letteratura (e della Storia) si possa entrare e uscire, in un’oscillazione continua. Ma anche – come una sorta di Spinoza della letteratura, anzi del romanzo – Cervantes è maestro nella consapevolezza dei diversi significati di ciò che si intende con la parola “realtà”, un po’ come ricordava Gianni Celati qualche mese fa in un’intervista: “La narrativa d’oggi è ormai un’appendice dell’informazione. E’ difficile trovare un romanzo d’oggi che non si appelli all’attualità. [...] Sono libri che il lettore legge come se fossero commenti a una realtà di fatto. Qui però la ‘realtà’ indica solo modi di vedere giornalistici – i modi dell’attualità -, il tutto categorizzato secondo il criterio del ‘nuovo’. Il nuovo è un dogma ma anche una continua intimidazione, perché tutti dobbiamo avere paura di essere visti come dei sorpassati dal nuovo. A questo proposito c’è qualcosa di illuminante nel Don Chisciotte, dove si affaccia per la prima volta la questione della ‘realtà’, posta in un contrasto con l’immaginazione e le tendenze fantasticanti. E si affaccia anche l’idea che il nuovo sia qualcosa che spazza via le inutili anticaglie: i romanzi cavallereschi. Ma, posto questo schema, dove Don Chisciotte ha sempre torto, in quanto invasato dalle fantasie cavalleresche, poi succede che sono proprio le sue tendenze fantasticanti ad arricchire di senso il mondo. Sono le sue fantasie e riflessioni a farci intravedere l’aperto mondo sotto l’aperto cielo come la nostra vera casa”.
Forse, più che di realtà, si dovrebbe parlare di verità della letteratura. Ma è una questione talmente elettiva, e così necessariamente partigiana, che non mi aspetto di vederla dibattuta in modo soddisfacente sui media, e nemmeno su Internet...

P.S. Ai più interessati, consiglierei di incrociare la lettura di questi miei appunti con alcuni "articoli" e "incontri" che si trovano qui, nel mio sito: in particolare Siamo tutti testimoni e la conversazione con Christian Boltanski e Annette Messager... Altri post-scriptum li posterò nei commenti. B.S.

Contro il virtuale (acchiappafantasmi n. 7)

Su l'Unità, la mia consueta rubrica domenicale (finché dura, finché resisto) oggi è questa:
“Il personale è politico” è uno slogan degli anni Settanta. Meglio del sessantottino “l’immaginazione al potere” (che potrebbe ormai designare l’impero Mediaset e il suo padrone, che con l’intrattenimento e l’immaginazione ha instaurato un regime pubblicitario), era un modo di esprimere e praticare la fine di una frattura artificiosa: dove comincia la politica, dove finisce? Dove inizia la realtà? Come insegnano i filosofi (lo mostrava Wittgenstein), non esiste linguaggio privato: esso è per definizione dialogico, e attesta che l’uomo è relazionale. E’ invece la capacità di fare esperienze che si sta dissolvendo. Personali e/o politiche, comunque reali. Qualche giorno fa a Bologna, a un convegno su letteratura e realtà, ho applaudito uno studente che alla fine di un suo intervento ha invitato a lottare “contro la virtualità”. La formula “realtà virtuale” ha saturato il linguaggio: non si dice più immagine, storia, pensiero, desiderio, idea, rapporto, racconto, programma politico ecc., ma solo “realtà virtuale”. Ogni parola (ed esperienza) è sostituibile col suo avatar (virtuale). Compresa la parola “comunita” (e i suoi derivati). Internet ne è solo il pretesto: all’articolo “Posta” del suo Dizionario filosofico Voltaire (che a sua volta cita trattati antichi sullo stile epistolare) scriveva frasi che anticipano parola per parola la retorica del web di questi anni (ubiquità, metafisica della presenza, “rendere presenti gli assenti”, ecc.), e senza mai usare la parola “virtuale”. Se la robotica e il mito dell’intelligenza artificiale accompagnano la rimozione del corpo, oggi la realtà virtuale è l’alibi per creare, dopo la finanza virtuale e l’economia virtuale, dei partiti virtuali che fanno una politica virtuale e un’opposizione virtuale. Ben venga la crisi (reale) se modifica realmente il nostro stile di vita, e ci fa accorgere che abbiamo un corpo, un corpo che ha fame. E che sono l’immaginazione e gli slogan del potere l’unica realtà virtuale.
P.S. Dell’inizio di tutto questo, credo, e di altro, ci parlano le bellissime poesie della trentenne Lidia Riviello, Neon 80 (editore Zona). “Fatti fummo per essere al neon assuefatti / occhio per occhio, digitale celeste, anno del Dragone / fatti fummo per essere consumati. / Eravamo i cigni del decennio Ottanta e fatti fummo di fumo per vivere di pillole e gas...” (cito dall’Intro). Alla fine del libro c’è anche un riepilogo (in prosa) degli anni ’80: “Negli anni dell’intrattenimento franano interi paesi, si esplode in volo, s’invadono le terre, gli uomini di governo mordono tutte le metà della mela rimaste, le ragioni dei disastri non vengono più chiarite...” Tra la fine dei film western e il successo dei mobili Ikea, Lidia ricorda anche la morte di John Lennon, che non vide gli anni Ottanta: “Nessuno riconobbe nell’assassino di John Lennon un ‘nipotino’ di Ronald Reagan...”. Neon è un gas che emette luce virtuale, metafora di falso sole. Gli anni Ottanta, quelli di Berlusconi & Craxi, beh, è quando “Fummo spenti con il neon appunto.”

12/07/2008

Qualcosa succede sempre (acchiappafantasmi n. 6)

Anni fa sui muri delle case di Parigi si videro targhe celebrative che dicevano così (per esempio): Il 17 ottobre del 1977 / qui / non è successo / nulla. La prima reazione, oltre al sorriso, era dedurre che siano false, perché celebravano eventi inesistenti. Ma perché “false”, o allora perché “inesistenti”? Sono false secondo la deontologia celebrativa ufficiale, e sono forse false perché ovunque, in ogni palazzo, in ogni luogo, qualche evento è successo, ma non viene celebrato. Per darne notizia occorre raccontarlo, farne una “novella” (ossia “storia rimessa a nuovo”), ciò di cui erano maestri gli anonimi narratori medievali, o più recentemente il giocoso Georges Perec, geniale autore di Specie di spazi e di La vita: istruzioni per l’uso.
La rivista L’accalappiacani, animata dallo scrittore Paolo Nori & suoi amici, ha anche un sito. In esso c’è una rubrica che si chiama Radiogiornali liberi . E’ fatta di brevi storie, “novelle” che chiunque può inviare indicando luogo e data. Sono la giusta risposta a quelle (false) targhe. Per esempio: “A Bologna, in località Santaviola, alle ore 20,39 di martedì 29 luglio 2008, un uomo dall’età apparente di 45, o 46, o 47 anni, si è alzato dal tavolo del soggiorno, dov’era seduto, si è avvicinato alla radio, l’ha spenta e ha pensato: Non la riaccendo mai più”. “Alla biblioteca Sormani, intorno alle ore tredici (ora locale), una ragazza che voleva salire al secondo piano, ha preso l’ascensore e ha sentito dentro odor di cloro”. Oppure: “A Lucca hanno rubato dei salami”.
Sono tante, e gustose. In tempi di dibattito sul presunto ritorno alla realtà della letteratura narrativa, dove ci si scorda o si confonde che la realtà è un’invenzione del linguaggio, e che il linguaggio è parte integrante della cosiddetta realtà, occorrerebbe meditarci su.

12/01/2008

Fatti di terra (Acchiappafantasmi n. 5)

Ci sono frasi che ci restano dentro a condensare un destino, un autore o la sua opera. In questi grumi di parole la memoria si sedimenta grazie all'’oblio (salvare in memoria significa dimenticare). Per esempio, del complesso romanzo (centinaia di pagine) che David Forster Wallace ha scritto a 24 anni, ora riproposto da Einaudi Stile Libero, La scopa del sistema, mi ricordo solo queste parole: «Mi manca chiunque», e lo shining del loro nudo coraggio mi riconduce a quello del loro autore, morto due mesi fa a 46 anni. Dell'’ultimo scrittore insignito dal Nobel, Jean-Marie Le Clézio, non mi è mai uscita dalla testa questa frase di non so più quale suo romanzo: «Diciamo per terra, ma non è più la terra».
Penso queste cose sfogliando il libro di testi (trascritti, poiché i maestri non scrivono) di Fausto Taiten Guareschi, monaco e maestro Zen, Fatti di terra (Edizioni Casadei). Con un maestro (ossia la vertiginosa coincidenza dell'’insegnamento e dell'’insegnante), è in fondo usuale che una sola frase, a volte una singola parola, riassuma un mondo di senso e di esperienze lungo come un trattato (o come un romanzo). Nella sua lingua, come nella poesia, tutto è volto e ugualmente significante.
Leggo dall’'inizio: «Fatti di terra, non si può perdere né acquistare terreno. Questa è la mia terra d'’origine, la mia origine di terra, la vera proprietà, che con il suo infinito senso non ti abbandona mai». Non si ha mai terra da perdere, dice, perché si è della terra. I capitoli hanno titoli come «Non fumare è permesso nell’area aeroportuale», «Dio non fa miracoli, per fortuna neanche quello della pace», fino ai paradossi leopardiani: «E questo muro che da tanta parte il guardo esclude». Poesia e politica come sinonimi. Scienza dell'’abitare.
Non è quindi solo il fascino della brevitas, il brivido del frammento. Di questo vorrei parlare la prossima volta.
(uscito su l'Unità, rubrica, 30 novembre)
P.S. Vorrei segnalare questo appello: uno sciopero degli autori.