9/23/2008

Sulle parole (pensieri disordinati in margine al "Dizionario affettivo della lingua italiana")

Dunque, per le edizioni Fandango è uscito in questi giorni un Dizionario affettivo della lingua italiana, a cura di Matteo B. Bianchi con Giorgio Vasta. Tra i quasi trecento narratori e/o poeti figuro anch'io, e mi è capitato di leggere la mia breve voce a Pordenonelegge, poco prima che dialogassi al ridotto del Teatro Verdi con lo scrittore olandese Arnon Grunberg. Quello di cui però mi rendo conto oggi, sfogliando questo libro (che mi suscita impressioni contrastanti, ma non è importante) è che ho completamente mancato il bersaglio, perché da quando mi avevano chiesto di aderire, al giorno in cui Matteo B. Bianchi mi ha chiamato per dirmi che si andava in stampa, e non avevo ancora mandato la mia "parola", mi ero completamente dimenticato dell'aggettivo "affettivo" che connotava il dizionario. E così, mezz'ora prima di partire in vacanza, ho mandato la parola "Realtà", a cui sono tutt'altro che affezionato. Credo che avessi in mente piuttosto il Sottisier di Flaubert, il suo "dizionario dei luoghi comuni". Si legge infatti nel Dizionario, a mia firma:
Realtà: Parola vaga e dal senso ondivago, spesso confuso (la si traduce infatti più spesso con un gesto, il cui senso sarebbe, ostensivamente appunto, “tutto questo”, o anche: “le cose”, oppure: “quello che accade”, o anche: “i fatti”. Beninteso, “anche le allucinazioni sono fatti” (Louis Althusser, 1991). Vale anche come sinonimo convesso della parola concava "immaginazione" (gr. "phantasia", da cui "fantasma"). Al singolare il significato odierno di realtà vale come: “un sogno senza sognatori” (v. "sogno"). Al plurale (da preferirsi), il suo impiego e significato valgono come sinonimo di storie (v. "storie").
La parola "realtà" non è quella che mi piace di più. Nel mio Niente di tutto questo mi appartiene (1994) c'è un racconto, "Il mondo delle parole precise", che dice il mio disagio e la mia ignoranza delle parole (non sapere e non trovare le parole delle cose, che è forse una delle ragioni per cui ho cominciato e continuato a scrivere delle frasi, cioè per bypassare e compensare le mie lacune). E in quello precedente, Café Suisse... (1992), trovo ora questa frase che avebbe dovuto e potuto orientarmi (il racconto è "L'infinito di Dante", storia di uno strano fotografo): "... Quando vedo qualcosa che mi piace, un prato o una casa o degli alberi, allora scrivo: Gli alberi. Il prato. Poi dico: quale sarà il nome di questo albero? A me piace la parola gelso: 'I rami dei gelsi sono scossi dal vento'. Ma potrei anche dire: 'E' una giornata limpida e cammino sulle strade dei gelsi con le scarpe da ginnastica che mi fanno sentire agile'..." ecc. ecc. Forse avrei dovuto scegliere la parola "gelso", allora. Ma mi piace ancora? Sicuramente mi piace la parola "erba" (e mi viene in mente Corrado Costa: "se si scrive / lepre / non è detto se si scrive lepre che sarà una lepre / che correrà sull’erba / non è detto che ci sarà dell’erba se si scrive / erba erba erba erba erba erba erba"). Mi piace "cielo", mi piace "celeste", mi piace "nuvola", mi piace un nome come "Sara", e forse sono quelle le parole che ho usato di più. Ma quelle che userò? Mi piace molto anche "tette" e "culo", se è per questo (devo controllare: sarebbe strano che nel Dizionario affettivo nessuno le avesse scelte, ma è verosimile). Adesso mi viene anche in mente che in un ironico libro di David Lodge sugli scrittori, c'è un romanziere che rimane assai frustrato nell'apprendere, grazie all'informatico inventore di un apposito programma, che la parola da lui più usata nei suoi romanzi è l'aggettivo "gonfio"...
In realtà a me piacciono le frasi, l'unità linguistica minima per me è la frase, non la singola parola. Le singole parole sono sempre manchevoli e mancanti ai miei occhi. Mi danno quasi ansia. Anche perché, confesso, spesso non le trovo, e mi trascino in un giro di parole. Amo le perifrasi, e infatti amo Robert Walser, amo le parole concave e a-referenziali, vuote di contenuto, almeno apparentemente. Le preposizioni. Oppure, ecco, la mia parola affettiva avrebbe dovuto e potuto essere "forse", la parola più inutile, che pure è per me un utensile insostituibile, oltre che fonte di vertigine come il dubbio cartesiano o la preferenza negativa di Bartleby, capace di corrodere ogni presunzione affermativa o assertiva, ogni "c'è", ogni das Gibt... Forse.
Invece, lo scorso luglio, mezz'ora prima di partire in vacanza, ho scritto "Realtà", e va bene così. Infatti l'altra sera al teatro di Pordenone ho citato e letto, dialogando con Arnon Grunberg, alcune frasi del suo Il rifugiato che mi piacevano molto. Hanno a che fare con le parole: il personaggio è un ex scrittore a disagio con se stesso, con l'amore, con tutto, che non scrive più ma fa il traduttore di libretti d'istruzione. E' inabile e stupito di fronte ai giochi (o atti) linguistici più semplici, i rituali quotidiani e ordinari, forse per eccesso di consapevolezza. A un certo punto pensa: "Le parole non rappresentano la realtà, sono il lubrificante con cui la realtà ti viene infilata nel sedere come una supposta". Alla fine, è vero, tutto torna.

9/14/2008

"Mi manca chiunque"

E' morto lo scrittore David Foster Wallace, più o meno mio coetaneo. Copio e incollo la notizia da0 un giornale qualsiasi di oggi (on line):
"Lo scrittore americano David Foster Wallace (46 anni, nella foto) è stato trovato morto nella sua abitazione di Clermont, nel sud della California. L’autore di Infinite Jest - romanzo colossale, monumento del postmodernismo - e di altre importanti opere letterarie e reportage è stato trovato impiccato dalla moglie; la polizia sembra propendere per l’ipotesi del suicidio. Wallace aveva conquistato la notorietà col suo primo romanzo nel 1987, La Scopa del sistema, per poi pubblicare la sua opera principale nove anni dopo, con le oltre mille pagine di Infinite Jest. Attualmente insegnava scrittura creativa e letteratura inglese al Pomona College, sempre in California. Raggiunto dalla notizia della morte, il preside del college, Gary Kates, ha sottolineato come lo scrittore si curasse «con estrema attenzione» dei suoi studenti; col suo lavoro «ha trasformato la vita di molti giovani, è una grande perdita per la nostra facoltà», ha detto il preside. Molto apprezzato dalla critica, il suo esordio venne salutato con estremo favore dal quotidiano New York Times che, a proposito della Scopa del sistema, parlò di un interessante tentativo «di raccontarci la follia dell’America contemporanea con una combinazione di stili che va dai giochi di parole alla Joyce alla parodia letteraria e al picaresco». La sua grande opera Infinite Jest venne inserita dalla rivista Time tra le 100 migliori opere in lingua inglese tra il 1923 e il 2005. Oltre che come romanziere, Wallace era attivo come giornalista e reporter e collaborava regolarmente con riviste come Esquire, GQ, Harper’s, il New Yorker e anche Paris Review..."
Il sito dell'amico Giuseppe Genna dice cose molto più interessanti, e raccoglie alcuni articoli su Foster Wallace. Aggiungo che a Capri, quando fu invitato, fece una lezione, tra l'altro, sul tema del "fallimento".
Se ne dò anch'io notizia (non basta essere lettori o amare qualcuno per farlo) è perché ancora mi emoziona nella sua semplicità la piccola frase, quasi un esergo, che lessi ne La scopa del sistema: "Mi manca chiunque".

9/12/2008

Essere al verde

C'è Enrico il Verde di Keller, Il raggio verde di Rohmer, La camera verde di Truffaut, Il miglio verde di St. King, il Verde matematico di Andra Pazienza, e un'altra miriade di riferimenti (anche il Corsaro Verde di Salgari e il Cappuccetto Verde di Munari...). Annotava Mario Schifano: "Il verde non ha un sentimento (come non lo hanno i miei colori), ma ha un riferimento. E una forma metaforica".
Comunque sia, a Bari, nella Sala Murat, col sostegno di Comune e Provincia, il 4 settembre si è inaugurata un'ampia mostra multimediale, a cura del fotografo Gianni Leone, sul tema del VERDE (aperta fino al 28). Arte, scritture, fotografia, installazioni, tutto dedicato al "verde". Sull'evento si può leggere, fra l'altro, qui e qui.
Il 26 settembre andrò lì a fare una lettura e salutare gli amici, possibilmente sulle "panchine" (verdi a onda). Ci sarà anche Paola Ghirri (vedova di Luigi). Sul libro catalogo, a cura dei Presidi del Libro, di Marina Losappio e Anna D'Elia, c' anche un mio testo sul "verde", che (chissà perché) mi è venuto così:


Essere al verde

Alla fine e all’inizio di tutto, il verde.
Una panchina di legno a onda.
Quello che resta, quello che resiste.
L’ultima luce – il raggio verde
Essere al verde: il pasto nudo.

(Nelle Note al Malmantile riacquistato (1688) di Paolo Minucci si legge che nelle aste pubbliche del Magistrato del Sale di Firenze si adoperavano, come segnatempo, lunghe candele di sego tinte di verde nell’estremità inferiore: quando la candela arrivava “al verde”, l’asta si chiudeva. Da qui l’espressione “la candela è al verde” per indicare che il tempo era finito, ma anche “essere al verde di denari” - contratta nell’attuale “essere al verde”. Secondo un’altra teoria l’espressione viene da un’usanza medievale, l’accensione di una lanterna verde quando era pronto il cibo per una speciale categoria di poveri, i “vergognosi”, coloro cioè che non erano nati poveri ma lo erano diventati, e per questo non si adattavano alla questua. L’usanza permetteva loro di accedere all’ente caritatevole in silenzio, senza bussare, con minori probabilità di essere visti. Soltanto i poveri non avevano i soldi per comperare una candela nuova quando essa era finita, cosi la utilizzavano fino alla base, un tempo di colore verde. Altri studi ricordano l’usanza, anch’essa medievale, di far portare un berretto verde ai falliti in segno di pubblico scherno. A Padova, nella sala verde dell’antico Caffè Pedrocchi, per tradizione chiunque poteva accomodarsi senza consumare).
Per altri però l’espressione “restare al verde” è nata nelle case da gioco: quando il giocatore ha perso tutte le sue fiches, allo sguardo resta solo il tavolo vuoto, che è verde.

9/11/2008

My country, right or wrong? No, grazie! (A proposito di patria e fascismo)

Sono atti linguistici, ma sappiamo bene che in politica “dire è fare”. Il sindaco di Roma Alemanno ha dichiarato che le leggi razziali del 1938 (volute dal fascismo) sono “male”, il fascismo no. Poco dopo, il ministro della Difesa La Russa, a Porta San Paolo per ricordare il 65° anniversario della difesa di Roma dalle truppe di occupazione naziste, che fu anche l’avvio della Resistenza militare e partigiana, ha celebrato chi combatté dalla parte dei fascisti della Repubblica di Salò. «Farei un torto alla mia coscienza – ha detto - se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Rsi, soggettivamente dal loro punto di vista combatterono credendo nella difesa della patria [il corsivo è mio] opponendosi allo sbarco degli angloamericani”. Seguono farneticazioni sul guardare “con obiettività alla storia d’Italia». Sono frasi sconvolgenti, e molti giornali hanno commentato come si deve queste dichiarazioni: con preoccupazione e sgomento. Aggiungo solo qualche osservazione a uso e consumo della mia parte politica (o forse dovrei dire “civile”).
Si noti l’uso giustificatorio della parola “patria” nelle frasi di Ignazio La Russa. Come se chi combatte per la “patria” sia comunque legittimato, compreso, perdonato (come i mercenari italiani in Irak?). Il Presidente Napolitano ha ricordato che solo chi combatté contro la Repubblica Sociale di Salò e contro i nazisti furono eroi della patria: l’Italia nata dalla Resistenza. Eppure, ci sono certe parole che è meglio tralasciare –per esempio Patria - malgrado l’insistenza con cui il segretario del Pd fece usò in campagna elettorale dell’inno italiano, che sostituì ogni altra appartenenza ideale. Nell’era della globalizzazione, le idee politiche sono sovra-nazionali o non sono.
Per questo vorrei ricordare le parole di un diplomatico italiano con lunga esperienza all’Onu, specialista di «diplomazia preventiva» e di soluzione dei conflitti. Si chiama Roberto Toscano, e oltre che essere il nostro attuale ambasciatore a Teheran è autore di vari libri di etica e politica internazionale. La sua analisi della violenza di gruppo, fino alla legittimazione della guerra negli Stati che si esonerano dal giudizio etico e politico, mostra il legame con la logica narcisista e infausta dell’identità, come nello slogan patriottico americano My country, right or wrong (il mio Paese, giusto o sbagliato). Per misurarne gli effetti devastanti, scriveva Toscano, basta applicare la stessa pretesa di non applicabilità del giudizio ad altri codici e contesti: Il Mein Kampf di Hitler potrebbe avere come sottotitolo «la mia razza, a torto o a ragione»; la mafia da potrebbe fregiarsi dell’iscrizione «la mia famiglia, a torto o a ragione», e il comunismo totalitario di Stalin potrebbe sottoscrivere il proclama «il mio partito, a torto o a ragione». Il giudizio politico, come il giudizio morale, occorre rivolgerlo anche alla propria parte, o patria.
Come già per una certa politica securitaria (ricordate le espulsioni dei Rumeni lo scorso novembre?) prolungata dalla destra italiana con ossessiva demagogia, xenofoba e razziale, certi temi, certe forme, certe intemperanze, bisogna lasciarle alla destra e non legittimarle. Mai. E’ una politica culturale e civile, prioritaria rispetto a ogni “riformismo”. Forse potrebbe essere proprio questo evidente neo-neofascismo della destra italiana - ormai composta di un unico partito, ironicamente definito “della liberta” – a far sì che il centrosinistra possa segnalarsi per una diversa visione del mondo, dei valori, della democrazia. Per un’opposizione, non per una concorrenza.
(uscito su l'Unità, oggi 11 sett., col titolo "Le insostenibili parole della destra")

9/07/2008

Una fotografia (e Rossella Or)


Per chi sta a Roma, oggi su la Repubblica, per la serie "Donne di Roma", c'è il mio racconto, e una bella immagine di Elisabetta Benassi. Ma quello che mi ha emozionato poco fa è l'avere scoperto per caso questa fotografia di Salvatore Piermarini, che riproduco. Non sapevo minimamente ricordarmi dove diavolo fosse stata scattata, poi il fotografo, contattato, mi ha detto: Bomarzo, 1997, durante una rassegna di arte e poesia dal titolo "Contaminazioni". La didascalia nel suo album dice: "actress and writer". Lui sono io, e sono sostanzialmente uguale ad allora (tranne i capelli, ora chiazzati di grigio), lei è Rossella Or, celebre attrice delle avanguardie teatrali romane (su di lei ho scritto qui). Siamo stati molto vicini, per un certo periodo. Quello che mi commuove, quasi mi turba, è la sostanza senza tempo dell'immagine, e delle persone fotografate. Lo so, è banale dirlo. So che sono io, so che io, o meglio lui - e lei - mentre lo guardiamo potrebbe essere morto, potrebbero essere morti, anzi sono già morti, e qualcun altro, forse, continua al loro posto.

9/05/2008

La rabbia di Pasolini (e lo humour di Echenoz a Mantova)

Sono a Mantova, al Festivaletteratura, dove alle 18 dialogherò con lo scrittore Jean Echenoz. Lo considero lo scrittore più interessante e godibile da leggere che vi sia in circolazione in lingua francese. Un impasto (per dare un'idea approssimativa) di stile conciso alla Hammett, di responsabilità dell stile alla Beckett, poi ancora della moderna classicità e lucidità di un Flaubert, e della libertà e attenzione alle cose (alla geografia e alla deambulazione urbana) di Georges Perec. Naturalmente trasferito in un oltre molto attuale, oltre anche il nostro tempo presente. Chi vuole, può leggere qui nel sito questa conversazione che ebbi con lui l'anno scorso.
Contemporaneamente, nella vita parallela dei giornali, oggi su l'Unità è uscito un mio pezzo che incollo qui su La Rabbia di Pier Paolo Pasolini (1963) - da oggi nelle sale - col titolo:
Quando l’Italia sapeva arrabbiarsi
di Beppe Sebaste
COLLOQUIO con il regista Giuseppe Bertolucci a proposito della Rabbia, film-documentario pasoliniano che ha suscitato un vespaio dopo la proiezione a Venezia e che da oggi è nelle sale: «Ho restituito a Pasolini ciò che era suo»
In Italia c’è una piccola borghesia, e per questo c’è solo una piccola rabbia. Ma avendo avuto la Resistenza, che è stata una grande rabbia organizzata, ogni rabbia assume oggi le vesti dell’ideologia o della rivoluzione. Non esiste un’altra rabbia, non ci sono gli arrabbiati puri, i beatnik. L’arrabbiato ideale, sublime per me era Socrate. Così Pier Paolo Pasolini in un’intervista del 1963, lo stesso anno in cui uscì il film La rabbia, che accettò di girare pur se in condominio (quasi una par condicio ideologica) col viscerale anticomunista (e antiamericano) Giovannino Guareschi. Andò così: Gastone Ferranti, editore di Mondo libero, nell’autunno del 1962 propose a Pasolini, che aveva già girato Accattone e Mamma Roma, di estrarre un film dal magma di materiali di attualità, 90.000 metri di pellicola, del rotocalco cinematografico. A materiale già girato (senza filo cronologico, avvertiva Pasolini, né forse logico, ma «seguendo le mie convinzioni politiche e il mio sentimento poetico»), il produttore decise però di affidare a Giovannino Guareschi una metà del film. Pasolini non ne fu certo contento. Veniamo all’oggi. Da un’idea di Tatti Sanguineti, il regista Giuseppe Bertolucci, presidente della Cineteca di Bologna, che aveva già restaurato e presentato alla Festa del Cinema di Roma il film in condominio - La Rabbia del 1963 - ha restaurato, o meglio realizzato, una «ipotesi di ricostruzione della parte iniziale inedita», basandosi rigorosamente sugli appunti e materiali lasciati da Pasolini. Ecco finalmente integrale La Rabbia di Pasolini, uno degli eventi del Festival di Venezia visibile da oggi nelle sale italiane.È un film bellissimo e sorprendente, quasi insopportabilmente attuale, che ci costringe a retrodatare l’acutezza e la capacità profetica di cogliere i segni del tempo presente già anni prima dei suoi Scritti corsari.
Ne ho parlato con Giuseppe Bertolucci, che mi cita il capitolo su De Gasperi, definito come «colui che ci salvò dal ritorno del fascismo e insieme uccise tutte le nostre speranze», o le tesi precoci sulla televisione, ancora all’inizio e in fase sperimentale, quasi una prova tecnica di trasmissione, ma già identificata come organo della menzogna. Guardiamo insieme un film sull’Italia e il mondo di ieri, commentando l’Italia di oggi. La posizione politica e morale di Pasolini si può riassumere nell’appello poetico che commenta le manifestazioni in Europa sull’invasione sovietica dell’Ungheria, molte delle quali palesemente fasciste: non si grida «viva la libertà» con disprezzo o con odio... se non si grida viva la libertà con amore, non si grida viva la libertà. «Pasolini risalta come un pensatore che si schiera, che non si nasconde mai dietro un dito. Mai burocratico, o cieco, disattento, e all’opposto dell’ambiguità. Anche per questo credo sia importante portare questo film integro e completo nelle sale. È un gesto politico», mi dice Bertolucci.
I figli dello scrittore emiliano gli hanno chiesto di dimettersi dal comitato per le celebrazioni del centenario, dopo alcune sue dichiarazioni al Festival del Cinema. Ha acconsentito civilmente. Ma è stato oggetto di polemiche, aspre quanto pretestuose, da parte di molti giornali. Eppure non solo ha restaurato la copia originale (Guareschi compreso) del film, ma allestito alla Cineteca di Bologna una mostra, tuttora in corso, dedicata all’opera di Guareschi, e tempo addietro una retrospettiva di tutti i film tratti dalle sue opere. «Non ho mai avuto nessun partito preso o pregiudizio ideologico nei suoi confronti», spiega. «Nello stesso tempo, come Cineteca di Bologna e io personalmente abbiamo lavorato filologicamente, e non per la prima volta, su Pier Paolo Pasolini. Gli fu imposto di togliere quei venti minuti per dare spazio a Guareschi. Quella parte firmata da Guareschi, ho detto a Venezia, è impresentabile e razzista. Mio giudizio. I figli di Guareschi hanno civilmente protestato, altrettanto civilmente mi sono dimesso dal comitato per Guareschi. Ma nonostante questo è stata montata e inventata una polemica campata per aria, un brutto segno dei tempi. Oggi ha rilevanza mediatica solo la rissa, e ogni esternazione di pensiero deve essere trasformato in rissa per fare notizia, trasformare in notizia una non notizia per poter schiamazzare. C’è perfino chi ha richiamato censure ideologiche. Confesso che un momento così brutto in Italia non l’ho mai vissuto: c’è una totale assenza di reazioni, politiche e culturali, di pensiero. È come una specie di virus, una malattia che si sta diffondendo, una totale mancanza di reazioni, come se nessuna reazione avesse senso...» Quanto al razzismo di Guareschi, aggiungo io, nella parte del film da lui commentata basterebbe la lunga scena della danza di africani con la colonna sonora del can can del Moulin Rouge, che rende goffi e ridicoli i loro gesti allo stesso modo crudele dell’Albatro della poesia di Baudelaire, imprigionato e schernito dai marinai.
«Pasolini e Guareschi, è vero, erano inconciliabili - dice Bertolucci -. L’unico elemento comune, se vogliamo, è che entrambi hanno pagato di persona la coerenza con le loro idee. Guareschi fece alcuni mesi di prigione per delle affermazioni su De Gasperi, Pier Paolo Pasolini, come è noto, fu per anni al centro di un linciaggio mediatico senza precedenti. Se c’è qualcuno che ha subìto censure è senz’altro Pasolini. La nostra idea è stata di restituire l’integrità del progetto iniziale, togliere la parte aggiunta di Guareschi e ripristinare i diciotto minuti mancanti del film. L’ho chiamata una “simulazione”, anche se seguo alla lettera il progetto e gli appunti di Pasolini».
Se la parte «edita» nel ’63, con le voci off di Giorgio Bassani e di Renato Guttuso, ha il tono intimo, salmodiante e quasi predicativo del Vangelo secondo Matteo, con cui ha in comune alcune musiche algerine, la parte «inedita» colpisce per la forza e il nitore, e suona se è possibile anche più dura. Mentre sfilano le manifestazioni popolari, le forze armate, le cerimonie civili all’indomani della Liberazione, e con esse gli anni Quaranta e Cinquanta, la voce scandisce più volte: Il tempo fu una lenta vittoria, che vinse vinti e vincitori. Profetico anche nel giudicare l’attuale revisionismo della Storia, Pasolini commenta i giorni in cui le autorità non si distinsero dalle folle mediocri degli elettori, i giorni in cui gli eroi vestirono il grigio. I grandi d’Europa si siedono a Ginevra per la pace futura con la guerra in cuore. Ora, dice sempre più severamente il poeta, il male della vita è libero. Le immagini euforiche dei cinegiornali che esaltano la ripresa del treno del carbone e della produzione dell’acciaio europeo, raccontano, prima del mercato comune, la comune aridità e il comune ballo. I nuovi conflitti, i nuovi profughi, le sodome di stracci, le gomorre della miseria, la furia che fa del mondo il contrario di sé, una rovina, un’oscurità senza fondo, si alterna con le miserabili consolazioni. La televisione (voce del benessere del padrone) è analizzata alla radice: nella sua utopia di far vedere lontano, fa vedere dell’altro, della vita degli altri, solo la guerra e la sofferenza, perché la vita da sola non basta; ma è come se non ci riguardasse, quasi che la lontananza ne coprisse i mali.
«La cosa secondo me più interessante del film - dice Bertolucci - è la capacità di Pier Paolo, negli anni ’60, di prendere un genere cinico e qualunquista come il cinegiornale, di cui peraltro era stato spesso bersaglio, e rovesciarlo facendolo proprio. Riuscire a mischiare la propria poesie alle voci degli speaker del cinegiornale, giocando a rimpiattino con quel genere, è cosa di una modernità e coraggio straordinari. Forse gli anni Sessanta erano più coraggiosi di questo presente. Mi viene in mente che Pasolini aveva già compiuto operazioni così, fare uso di un genere anche standoci fuori e ribaltandolo. Penso alla sua Orestiade africana, un trasferimento straordinario, al metalinguaggio all’opera in Petrolio».
Nella seconda parte del film, dove si vede Cuba, l’Algeria, l’Africa, colpisce la chiarezza della diagnosi del nuovo problema nel mondo, che si chiama «colore», mentre l’omologazione planetaria che oggi chiamiamo globalizzazione è annunciata così da Pasolini: tutto dovrà diventare familiare e ingrandire la Terra. Giuseppe Bertolucci mi richiama le immagini della chiusa del film, che alterna l’omaggio a Marilyn Monroe, bella e sciocca come l’antichità, e quella all’astronauta sovietico. È forse il cuore del film, ciò di cui siamo legatari. Dice Pasolini, mentre scorrono primi piani della Monroe: In molte parti dell’anima, cioè del mondo, la guerra non è cessata. Restava solo la bellezza, che sparì come un pulviscolo d’oro. È possibile che la piccola Marilyn ci abbia indicato la strada? Seguono immagini dell’astronauta russo di ritorno, al cospetto di Krusciov, che nei versi del poeta insegna che le vie del cielo devono essere di fraternità, e la rivoluzione deve essere dentro gli spiriti (quasi le stesse parole con cui Luciano Bianciardi, negli stessi anni, concluse la sua Vita agra). Le immagini falsamente neutrali in bianco e nero del cinegiornale risultano magicamente intrise di pietà, una pietà che potrebbe essere del resto l’altro titolo del film. Anche questo insegna Pasolini, che non c’è pietà senza rabbia, né vera rabbia senza pietà.