3/29/2007
per Giorgio Messori
Giorgio Messori è stato, rimarrà sempre, il migliore dei miei amici, dei miei compagni di vita. Ho tanto condiviso con lui, per anni siamo stati così vicini, in una comunicazione così immediata e fluida, che non riesco a parlarne. E del resto potevamo restare a lungo in silenzio, insieme. E' morto l'anno scorso, per un tumore al cervello. Aveva quattro anni più di me. Negli ultimi anni ci siamo visti meno, molto meno. Aveva realizzato molto: aveva appena avuto un bambino dalla donna amata, pubblicato un romanzo, un bellissimo reportage dalla coscienza, e dall'Uzbekistan (Tashkent): Il paese del pane e dei postini (ediz. Diabasis 2005), che ha avuto successo e premi. Poi la malattia. La sua scomparsa mi ha ammutolito. Non posso parlarne. Non ancora. E' troppo di me che è coinvolto, dalla fine degli anni Settanta in poi. Siamo stati insieme studenti a Bologna, insieme abbiamo cominciato a scrivere testi in prosa, abbiamo fatto una piccola casa editrice (Aelia Laelia), siamo andati a vivere in Svizzera (lui Zurigo e Basilea, io Ginevra e Losanna) dopo la laurea a Bologna (lo stesso giorno), insieme ci siamo ubriacati, abbiamo sognato, abbiamo amato film e libri, e luoghi, e persone, e incanti di ogni tipo. Abbiamo letto e condiviso Benjamin e Walser, V. Holan e Th. Bernhard, Emmanuel Bove e naturalmente Kafka. Abbiamo riso molto. Ci siamo detti più volte la nostra paura della morte. Ieri ho visto con degli studenti, dopo vent'anni, Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders: ecco, mi sono detto, condividevamo un mondo così, una poetica e una meraviglia per l'umano, per tutto l'umano, come le persone vive osservati dagli angeli mentre soffrono e provano piacere - e gli angeli ne sono invidiosi... Insieme abbiamo scritto un libro, L'ultimo buco nell'acqua (il nostro primo) uscito nel 1983, e lo stesso anno un film, Questo periodo non finisce mai. Basta, ho detto anche troppo. I ricordi sono per forza egoisti, e io non faccio eccezione. Domani sera, venerdì, andrò a questa commemorazione festosa vicino a Reggio Emilia, ci saranno i tanti che lo hanno amato dopo averlo conosciuto. Ho molta apprensione ad andarci, non so cosa dire, o meglio, ho paura che non mi va di parlare. La nostra intimità la ricordo con questa fotografia che ci fece Luigi Ghirri in mezzo agli anni '80, Giorgio e io a quattro mani.
3/27/2007
Elogio del sole e dello sparire (e di Jean Echenoz)
E chi ha voglia di postare qualcosa col sole che è tornato a scaldare e brillare qui a Roma dopo la settimana di gelo? Sarà anche la fine del mondo (non lo è sempre stato?), ma in questi giorni me la godo e non ho voglia di far niente. Anzi, ieri ho piantato delle rose in un microscopico giardino dove abito, rose da seminare di vari colori arrivate dalla Romania in un pacco postale (come Voltaire? confesso che mi è venuto in mente).
Per il resto scrivo (per me) e cazzeggio, ho bevuto un po' in questi giorni perché c'erano varie occasioni con amici - e ancora ieri sera (e oggi a pranzo) con Jean Echenoz, che considero il più grande scrittore francese di questa epoca (leggete il suo recente Ravel edito da Adelphi, ma anche tutti gli altri), e Olivier Rolin, un altro amico scrittore di cui ho grande stima (non perdete se siete a Roma la lettura a Villa Medici stasera, Echenoz legge Flaubert).
Ma a proposito di sole: da qualche giorno ho finito un testo sugli anni Settanta per un libro collettivo che dovrà uscire a fine aprile da Avagliano. Il mio testo si chiama "Storia con fantasmi", e quello che racconto è aderente al titolo. Finisce con un haiku sullo sparire (tutto il testo è sullo sparire), che scrissi una volta in una giornata di sole: "Sole sul computer / parole cancellate - / questo rimane". Il senso è ovviamente che i raggi del sole avevano imbrogliato tutto lo schermo, non si leggeva più niente, e restano solo questi versi qui (e il mondo delle cose, certo). Ora, un vero haiku deve essere di tre versi rispettivamente di 5-7-5 sillabe. Il mio primo verso ne ha 6. Come devo fare per adattarlo, renderlo di 5 sillabe? Qualcuno ha un suggerimento? Grazie.
Post scriptum, ovvero un post ex post - giovedì 29 marzo: oggi su l'Unità si può leggere una pagina su Jean Echenoz, resoconto di una nostra chiacchierata. Aggiungo, perché mi piace e dà l'idea, l'elenco delle parole chiave che secondo Olivier Rolin racchiudono la maniera narrativa di Jean Echenoz: rapidità, libertà, fantasia, ironia, disinvoltura, leggerezza, litote, precisione, malinconia senza teatralità e senza psicologismi. Buona lettura.
Per il resto scrivo (per me) e cazzeggio, ho bevuto un po' in questi giorni perché c'erano varie occasioni con amici - e ancora ieri sera (e oggi a pranzo) con Jean Echenoz, che considero il più grande scrittore francese di questa epoca (leggete il suo recente Ravel edito da Adelphi, ma anche tutti gli altri), e Olivier Rolin, un altro amico scrittore di cui ho grande stima (non perdete se siete a Roma la lettura a Villa Medici stasera, Echenoz legge Flaubert).
Ma a proposito di sole: da qualche giorno ho finito un testo sugli anni Settanta per un libro collettivo che dovrà uscire a fine aprile da Avagliano. Il mio testo si chiama "Storia con fantasmi", e quello che racconto è aderente al titolo. Finisce con un haiku sullo sparire (tutto il testo è sullo sparire), che scrissi una volta in una giornata di sole: "Sole sul computer / parole cancellate - / questo rimane". Il senso è ovviamente che i raggi del sole avevano imbrogliato tutto lo schermo, non si leggeva più niente, e restano solo questi versi qui (e il mondo delle cose, certo). Ora, un vero haiku deve essere di tre versi rispettivamente di 5-7-5 sillabe. Il mio primo verso ne ha 6. Come devo fare per adattarlo, renderlo di 5 sillabe? Qualcuno ha un suggerimento? Grazie.
Post scriptum, ovvero un post ex post - giovedì 29 marzo: oggi su l'Unità si può leggere una pagina su Jean Echenoz, resoconto di una nostra chiacchierata. Aggiungo, perché mi piace e dà l'idea, l'elenco delle parole chiave che secondo Olivier Rolin racchiudono la maniera narrativa di Jean Echenoz: rapidità, libertà, fantasia, ironia, disinvoltura, leggerezza, litote, precisione, malinconia senza teatralità e senza psicologismi. Buona lettura.
3/23/2007
Cose più o meno notturne
Segnalo che (domani) sabato 24, nell'ambito della manifestazione L'Università della notte. Europa dei Saperi - una specie di notte bianca delle università - alle ore 24.00, nell'aula 20 di Roma Tre, via Ostiense, è coinvolto anche il sottoscritto in una lezione collettiva. Copio e incollo dal programma: Mezzanotte: l’ora del crimine. Come il giallo rappresenta il crimine nelle diverse realtà sociali e culturali europee. Intervengono gli scrittori: Serge Quadruppani, Giancarlo De Cataldo, Francesco de Filippo e Beppe Sebaste. A seguire, proiezione del film “Europa”, regia di Lars von Trier. Serge Quadruppani, romanziere francese, è tra l'altro autore del bel romanzo (uscito nei Gialli Mondadori tre anni fa) La notte di Babbo Natale. Giancarlo De Cataldo è ovviamente l'autore del conosciutissimo Romanzo criminale, ma non solo. Qui infatti potete leggere un mio pezzo che recensisce un'antologia da lui curata un paio d'anni fa, e che contiene alcuni spunti di quello che credo dirò domani sera, anzi notte.
Oggi l'ultima mia puntata di Damasco (vedi sotto), dedicata questa volta a Dante. Ieri ho fatto le ore piccole sulla terrazza e nei saloni di Palazzo Farnese, ospite dell'ambasciata francese. Lo champagne era ovviamente buono, e si inaugurava la mostra Luce di pietra, con Christian Boltanski, Elisabetta Benassi, Yann Toma, Jannis Kounellis e altri (mio resoconto su l'Unità di domani, sabato 24 - ma si capisce dall'elenco chi siano i miei preferiti ).
P.S. Sabato 24 marzo: oggi su l'Unità, pagine della cultura ("Orizzonti", a cura come sempre di Stefania Scateni) parte anche un gioco narrativo a cura dei Wu Ming, con la pubblicazione di un inedito messo da parte insieme a molti altri dalla revisione finale del romanzo Manituana, appena uscito da Einaudi. Non perdete oggi l'Unità, anche per divertirvi a rintracciare il punto del libro in cui originariamente era posto il brano. Si gioca su www.manituana.com
Oggi l'ultima mia puntata di Damasco (vedi sotto), dedicata questa volta a Dante. Ieri ho fatto le ore piccole sulla terrazza e nei saloni di Palazzo Farnese, ospite dell'ambasciata francese. Lo champagne era ovviamente buono, e si inaugurava la mostra Luce di pietra, con Christian Boltanski, Elisabetta Benassi, Yann Toma, Jannis Kounellis e altri (mio resoconto su l'Unità di domani, sabato 24 - ma si capisce dall'elenco chi siano i miei preferiti ).
P.S. Sabato 24 marzo: oggi su l'Unità, pagine della cultura ("Orizzonti", a cura come sempre di Stefania Scateni) parte anche un gioco narrativo a cura dei Wu Ming, con la pubblicazione di un inedito messo da parte insieme a molti altri dalla revisione finale del romanzo Manituana, appena uscito da Einaudi. Non perdete oggi l'Unità, anche per divertirvi a rintracciare il punto del libro in cui originariamente era posto il brano. Si gioca su www.manituana.com
3/19/2007
Parlare da soli
Ieri l'altro, sabato, ho avuto una sorpresa nello sfogliare alias (il manifesto) e trovare la vecchia intervista (la prima in Italia) che feci, diciottenne, a Jean Baudrillard, febbraio 1978. Già la copertina del settimanale del manifesto mi aveva stranito: quelle quattro fotografie in bianco e nero del primo piano di Baudrillard mentre, ricordo, mi parlava. A proposito: le foto non sono di Giancarlo Bocchi, come è scritto su alias, ma di Luigi Mansani, l'amico che mi aveva accompagnato a Parigi, mio coetaneo. Errata corrige.
Sono stato in giro in questi giorni, ma da oggi fino a venerdì sembrerà che stia sempre fermo, perché ogni pomeriggio alle ore 18 si sentiranno i miei sproloqui a Radio Tre, nella trasmissione Damasco, dove l'ospite di turno racconta i libri importanti della sua vita, le sue letture folgoranti. E' una bella trasmissione, nonostante me. Il fatto è che uno lì parla da solo, senza rivolgersi a nessuno, e già questo ricorda la solitudine dello scrittore, e gli viene il sospetto di essere un po' matto. Insomma, è stata un'esperienza curiosa. Va da sé che dovendo scegliere cinque libri - tante sono le puntate - mi sono sentito perduto. Cinque autori, allora, ma anche lì ho debordato. A essere onesti, mi ci vorrebbero due mesi. Poi ho comunque scelto, con scrupolo cronologico: Allen Ginsberg (che quando volevo scrivere, a sedici-diciassette anni, e non sapevo né cosa né come, mi ha sbloccato, suggerendomi che cosa e come - cioè qualsiasi cosa, a partire dal proprio corpo); poi l'esempio (inarrivabile) del rigore ascetico di Samuel Beckett, la sua parola nuda; poi alcuni svizzeri meravigliosamente strani e intensi, che ho intensamente amato, come Robert Walser, Max Frisch, Nicolas Bouvier. Per finire con la Vita Nuova di Dante che, come tanti, tantissimi, da tempo finisco per tornare sempre a leggere (dico, Dante). Alla fine di ogni monologo resterà sempre l'impressione di non avere detto l'essenziale, di avere parlato a vuoto, che le cose che volevo dire non sono venute fuori, ecc. Comunque sia, grazie e buon ascolto su Radio Tre.
Sono stato in giro in questi giorni, ma da oggi fino a venerdì sembrerà che stia sempre fermo, perché ogni pomeriggio alle ore 18 si sentiranno i miei sproloqui a Radio Tre, nella trasmissione Damasco, dove l'ospite di turno racconta i libri importanti della sua vita, le sue letture folgoranti. E' una bella trasmissione, nonostante me. Il fatto è che uno lì parla da solo, senza rivolgersi a nessuno, e già questo ricorda la solitudine dello scrittore, e gli viene il sospetto di essere un po' matto. Insomma, è stata un'esperienza curiosa. Va da sé che dovendo scegliere cinque libri - tante sono le puntate - mi sono sentito perduto. Cinque autori, allora, ma anche lì ho debordato. A essere onesti, mi ci vorrebbero due mesi. Poi ho comunque scelto, con scrupolo cronologico: Allen Ginsberg (che quando volevo scrivere, a sedici-diciassette anni, e non sapevo né cosa né come, mi ha sbloccato, suggerendomi che cosa e come - cioè qualsiasi cosa, a partire dal proprio corpo); poi l'esempio (inarrivabile) del rigore ascetico di Samuel Beckett, la sua parola nuda; poi alcuni svizzeri meravigliosamente strani e intensi, che ho intensamente amato, come Robert Walser, Max Frisch, Nicolas Bouvier. Per finire con la Vita Nuova di Dante che, come tanti, tantissimi, da tempo finisco per tornare sempre a leggere (dico, Dante). Alla fine di ogni monologo resterà sempre l'impressione di non avere detto l'essenziale, di avere parlato a vuoto, che le cose che volevo dire non sono venute fuori, ecc. Comunque sia, grazie e buon ascolto su Radio Tre.
3/12/2007
Nobel delle pianure (per Gianni Celati)
Sul sito Nazioneindiana c'è una proposta non paradossale dell'amico Franco Arminio (collega "narratore delle riserve") sul dare il premio Nobel a Gianni Celati. Lasciando cadere ogni eventuale ironia e ogni distanza nei confronti dei premi letterari in generale, e del Nobel in particolare, facendo finta di niente, rispettando anzi il valore delle apparenze e dei cerimoniali, da quelli più bassi a quelli più alti, io sono assolutamente, felicemente d'accordo. Se non conoscete l'opera, vasta e sparpagliata, di Gianni Celati (le librerie non aiutano, di questi tempi, con la loro selezione del venduto e del vendibile) beh, affrettevi a scoprirla, poi dimenticate ogni fretta perché la lettura di Gianni impone una sana lentezza. Vorrei dire tante cose su Gianni, a parte l'occasione del ritorno in libreria delle lezioni collettive tenute al Dams nel '77 su Alice disambientata, ripubblicate da Le Lettere, e mi riprometto di rifarlo presto. Ora voglio solo ricordare, oltre la sua grazia narrativa, la sua capacità di restare sempre al di fuori, altrove, rispetto alle opinioni dominanti, soprattutto quelle più colte, alla moda, valorizzate. Avete presente quelli che sgomitano per dire in pubblico la loro "opinione" su quasi qualsiasi argomento? Ecco, Gianni si offendeva se un giornalista (ora hanno smesso perché si è reso quasi introvabile e irriducibile ai media) lo cercava per avere una sua "opinione". E quasi mi sembra di dovermi scusare per avere espresso questa mia opinione su di lui.
Postilla scritta martedì 13 marzo, ore 10,53: il webmaster ha inserito in questo sito (sez. Articoli), un pezzo che avevo scritto quattro anni fa su e per Gianni Celati, quando aveva presentato un suo film documentario dedicato alla "vecchiaia del paesaggio", dal titolo Visioni di case che crollano, prolungamento per immagini della sua scrittura di osservazione. Vi invito a leggerlo, anche per ritrovare una sua frase (e una dichiarazione d'intenti) per me di grande bellezza, e che fornisce il senso migliore di quello che vorrei anch'io si intendesse ogni volta che qualcuno che scrive si misura con il mondo là fuori, coi luoghi, col cosiddetto paesaggio. Come è il caso, per es., del libro collettivo Periferie (Laterza) a cura di Stefania Scateni, che si presenta a Bologna il prossimo venerdì 16 marzo (ma di questo posterò l'invito domani).
Postilla scritta martedì 13 marzo, ore 10,53: il webmaster ha inserito in questo sito (sez. Articoli), un pezzo che avevo scritto quattro anni fa su e per Gianni Celati, quando aveva presentato un suo film documentario dedicato alla "vecchiaia del paesaggio", dal titolo Visioni di case che crollano, prolungamento per immagini della sua scrittura di osservazione. Vi invito a leggerlo, anche per ritrovare una sua frase (e una dichiarazione d'intenti) per me di grande bellezza, e che fornisce il senso migliore di quello che vorrei anch'io si intendesse ogni volta che qualcuno che scrive si misura con il mondo là fuori, coi luoghi, col cosiddetto paesaggio. Come è il caso, per es., del libro collettivo Periferie (Laterza) a cura di Stefania Scateni, che si presenta a Bologna il prossimo venerdì 16 marzo (ma di questo posterò l'invito domani).
3/07/2007
Il delitto perfetto (in morte di Jean Baudrillard)
E' morto ieri Jean Baudrillard. Ho letto stamattina alcuni giornali che ne parlano, ma tranne Mario Perniola e Paolo Fabbri su il manifesto, mi sembrano tutti piuttosto inadeguati nel trattarlo. Era sociologo, era filosofo, era diventato uno scrittore (uno che scrive con un senso musicale delle parole), teneva ormai pubbliche letture dei suoi testi in giro, come un poeta, e da molti anni aveva soprattutto la passione della fotografia (e le esponeva in mostre). Più di vent'anni fa aveva argomentato sulla sparizione della realtà (ben prima della retorica sul "virtuale") e quindi, dialetticamente, dell'immaginario. Ora questo tema è esperienza quotidiana, ma ammutolita - tranne qualche comico televisivo passato al teatro per esigenze di parola viva... Leggete, se potete, almeno un suo libro, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? (edito in Italia da Cortina). Va ben oltre quello che promette il titolo... Su questo sito, nella sezione "incontri" dell'archivio, si può leggere un articolo, quasi una conversazione, che ho avuto con Baudrillard nel 2001, parzialmente riproposta sull'Unità di oggi. La ripropongo con più di un pensiero di cordoglio e di gratitudine per lui. Baudrillard per me significa anche, forse soprattutto, un aspetto degli (ultimi) anni Settanta, quelli che si prolungarono negli Ottanta....
3/06/2007
Il pasto nudo (sunday morning n. 23)
A volte mi ricordo che il mio mestiere non è di scrivere commenti, ma racconti e descrizioni. Non che mi penta, ma insomma vorrei tenere a bada questo impulso pedagogico, o semplicemente "comunicativo". Contro la comunicazione, si chiama un bel saggio breve uscito un paio d'anni fa di Mario Perniola (Einaudi), e io sono d'accordo con lui. Le bombe e i missili che continuano ad ammazzare gente in Afghanistan e altrove (leggi i giornali di ieri e di oggi), lanciati dalla potenza più forte e più armata del mondo, mi hano fatto venire in mente quello che avevo scritto nella rubrica (domenicale) Sunday morning (sì, sempre su l'Unità), prima de I lunedì al sole. (E se una volta o l'altra le riunissi in volume? Mah). Questo "Sunday morning" n. 23 è del 2002:
Mi è venuta in mente la definizione di Pasto nudo, quello di William Burroughs, quell’attimo gelato di pausa del senso, quando la mano che tiene la forchetta, dice, resta sospesa a mezz’aria; quando senti anche il gemito del boccone infilzato, quando il tempo si ferma, ogni secondo, ogni respiro.
Eravamo a tavola, il bambino si alzava per giocare coi suoi mostri di gomma, lei e io un ultimo sorso di vino, e pane di sesamo, e canzoni di David Bowie nel piccolo stereo in cucina. Ecco, questa tranquillità ordinaria, disarmata, lo scorrere del tempo e dei gesti, la casa, la musica, tutta questa vulnerabilità nella mia visione veniva infranta in un baleno. È il proprio del suspens richiamare le immagini della vita inerme (della vita «buona»), e per esempio Stephen King è maestro indiscusso di queste rappresentazioni dell’ovvio, quasi in tempo reale, che indugiano sulla vita quotidiana per farci meglio attendere, con spavento, l’insorgere del male. Ma l’orrore cui mi riferisco è un altro, e non ha niente di soprannaturale. Ashes to ashes, funk to funky, cantava David Bowie, «cenere alla cenere, paura alla paura». Quello che pensavo io, e credo anche Bowie, è semplicemente la guerra.
Alcuni anni fa, dalla finestra di un hotel, richiamato dal frastuono assordante, vidi nel cielo del Medio Oriente un volteggiare di aerei da guerra, triangoli neri e sottili, aggressivi e temibili già nella forma, pura potenza espressiva della grande tecnologia occidentale. Era un’esibizione «innocua», eppure non potei trattenermi dallo scoppiare a piangere, pensando a chi, oltre alle forme e al rumore, subisse gli effetti a cui quegli aerei sono finalizzati. Le bombe, gettate a velocità pazzesca. Si tratta solo di un ricordo, che non equivale ancora a una memoria. La memoria è quella delle nostre madri e dei nostri padri (o dei nostri nonni) che riferiscono di quel sibilo sottile che cinquant’anni fa anche sotto il nostro cielo preludeva allo scoppio e al rimbombo. Non sempre risuonava una sirena. Credo che la realtà sia cambiata, che non ci sia più quell’intervallo percettivo nelle moderne “armi di distruzione di massa”. Che, grazie alla tecnologia del Paese più potente del mondo, la sincronia sia ormai perfetta tra la paura, il rumore, la distruzione, l’estinzione di sé e degli altri. Che la realtà intera sia, per chi lo sa sentire, un «pasto nudo». Ashes to ashes, funk to funky, «Sappiamo che il Maggiore Tom / è un tossico / confinato nell’alto dei cieli / raggiunge una depressione senza fine (...) Un lampo di luce / ma nessuna pistola fumante... »
Le conversazioni hanno questo di rassicurante, che la loro catena di parole ricuce, come i racconti, le apparenze disperse, i pezzi di mente, le impressioni. Così, bevendo il caffè, ho parlato della mia visione (il bambino ora giocava al computer, imparava a scrivere, a lasciare tracce), ho ricordato quegli aerei di morte, e che quelle canzoni di Bowie hanno qualcosa di terribile e insieme consolante, come la sua musica in crescendo, che si apre e si espande. Poi io o lei abbiamo detto quella frase dei Velvet che ripeté Wim Wenders, "la mia vita fu salvata dal rock'n'roll". Forse perché il rock è già così spezzato, e le sue parole nascono già rotte, e per questo vere; ma oggi mi è difficile pensare a frasi più lunghe, come un articolo o una riflessione. «Mia madre mi diceva / di portare a termine le cose. / Meglio che non perdi tempo / con il Maggiore Tom» (o con il Generale Bush).
Mi è venuta in mente la definizione di Pasto nudo, quello di William Burroughs, quell’attimo gelato di pausa del senso, quando la mano che tiene la forchetta, dice, resta sospesa a mezz’aria; quando senti anche il gemito del boccone infilzato, quando il tempo si ferma, ogni secondo, ogni respiro.
Eravamo a tavola, il bambino si alzava per giocare coi suoi mostri di gomma, lei e io un ultimo sorso di vino, e pane di sesamo, e canzoni di David Bowie nel piccolo stereo in cucina. Ecco, questa tranquillità ordinaria, disarmata, lo scorrere del tempo e dei gesti, la casa, la musica, tutta questa vulnerabilità nella mia visione veniva infranta in un baleno. È il proprio del suspens richiamare le immagini della vita inerme (della vita «buona»), e per esempio Stephen King è maestro indiscusso di queste rappresentazioni dell’ovvio, quasi in tempo reale, che indugiano sulla vita quotidiana per farci meglio attendere, con spavento, l’insorgere del male. Ma l’orrore cui mi riferisco è un altro, e non ha niente di soprannaturale. Ashes to ashes, funk to funky, cantava David Bowie, «cenere alla cenere, paura alla paura». Quello che pensavo io, e credo anche Bowie, è semplicemente la guerra.
Alcuni anni fa, dalla finestra di un hotel, richiamato dal frastuono assordante, vidi nel cielo del Medio Oriente un volteggiare di aerei da guerra, triangoli neri e sottili, aggressivi e temibili già nella forma, pura potenza espressiva della grande tecnologia occidentale. Era un’esibizione «innocua», eppure non potei trattenermi dallo scoppiare a piangere, pensando a chi, oltre alle forme e al rumore, subisse gli effetti a cui quegli aerei sono finalizzati. Le bombe, gettate a velocità pazzesca. Si tratta solo di un ricordo, che non equivale ancora a una memoria. La memoria è quella delle nostre madri e dei nostri padri (o dei nostri nonni) che riferiscono di quel sibilo sottile che cinquant’anni fa anche sotto il nostro cielo preludeva allo scoppio e al rimbombo. Non sempre risuonava una sirena. Credo che la realtà sia cambiata, che non ci sia più quell’intervallo percettivo nelle moderne “armi di distruzione di massa”. Che, grazie alla tecnologia del Paese più potente del mondo, la sincronia sia ormai perfetta tra la paura, il rumore, la distruzione, l’estinzione di sé e degli altri. Che la realtà intera sia, per chi lo sa sentire, un «pasto nudo». Ashes to ashes, funk to funky, «Sappiamo che il Maggiore Tom / è un tossico / confinato nell’alto dei cieli / raggiunge una depressione senza fine (...) Un lampo di luce / ma nessuna pistola fumante... »
Le conversazioni hanno questo di rassicurante, che la loro catena di parole ricuce, come i racconti, le apparenze disperse, i pezzi di mente, le impressioni. Così, bevendo il caffè, ho parlato della mia visione (il bambino ora giocava al computer, imparava a scrivere, a lasciare tracce), ho ricordato quegli aerei di morte, e che quelle canzoni di Bowie hanno qualcosa di terribile e insieme consolante, come la sua musica in crescendo, che si apre e si espande. Poi io o lei abbiamo detto quella frase dei Velvet che ripeté Wim Wenders, "la mia vita fu salvata dal rock'n'roll". Forse perché il rock è già così spezzato, e le sue parole nascono già rotte, e per questo vere; ma oggi mi è difficile pensare a frasi più lunghe, come un articolo o una riflessione. «Mia madre mi diceva / di portare a termine le cose. / Meglio che non perdi tempo / con il Maggiore Tom» (o con il Generale Bush).
3/03/2007
Romanzi scritti da donne
Ho letto in questi giorni tre romanzi, tutti e tre scritti da donne. Ho voglia di segnalarli.
Il primo è La stanza di sopra di Rosella Postorino (nata nel 1978), da poco pubblicato da Neri Pozza. Una narrazione in prima persona - quasi il diario di una quindicenne - che mi ha fatto venire in mente l'aggettivo "scabroso", che per me è piuttosto bello. Dicesi "scabroso", secondo i Dizionari, "di situazioni e di argomenti che per la loro particolare delicatezza (...) impongono un'estrema cautela nell'essere trattati", ma anche di qualcosa che è "difficile a superarsi o risolversi" e, ancora (come l'aggettivo "scabro"), di qualcosa che è "caratterizzato da un'accentuata ruvidezza al tatto". Sarà perché io amo il tatto, in tutti i sensi (ciò che è delicato richiede tatto), ma tutti questi attributi, che potrebbero comporre, se non una poetica, almeno uno stile, si attagliano al romanzo d'esordio di Rosella Postorino. Vi si parla di tardoadolescenza, di padre, madre, di amicizia, di malattia, di sesso, forse anche di amore, del disagio della comunicazione e della non comunicazione. Si parla di infelicità. Soprattutto, non è un romanzo scritto "con" le parole, ma di parole. Così come ci sono quelli che suonano "con" la chitarra, poi ci sono i musicisti veri, che suonano magari la chitarra. Questo, se lo si capisce, è uno dei massimi riconoscimenti che si può dare a un'opera letteraria (il contrario, per esempio, di quello che direi di un romanzo di Faletti). Le frasi sono spesso perfette nella loro accurata semplicità, solo ogni tanto c'è quasi troppo compiacimento e consapevolezza da parte dell'autrice.
Poi ho letto, in traduzione italiana (di Lucia Quaquarelli), un breve romanzo folgorante di Marie NDiaye, francese di padre senegalese, classe 1967. In Francia è una scrittrice già molto nota e apprezzata, spiazzante. Come questa storia apparentemente lievissima, tra Kafka, The Others e un fumetto di Tardi. Si intitola Fuori stagione (è appena uscito da Morellini Editore) e anche l'idea di letteratura a cui rimanda sembra felicemente fuori tempo, fuori spazio, fuori moda, "out of joint" come il personaggio della storia. In realtà è nuovissima, pura prosa, anche se molto forte, o forse proprio per questo. La storia finisce con l'automobile con dentro il protagonista che si blocca lungo la strada, anzi si perde nel nulla... Fin lì lo si è letto d'un fiato. Poi viene voglia di continuarlo: a scrivere.
L'ultimo libro che ho letto è anche l'ultimo uscito, sia in Francia che in Italia (Nei boschi eterni, Einaudi ) di Fred Vargas, una che non scrive "con" le parole anche se scrive gialli, e anche se le trame siano in lei fondamentali, quasi fiabesche. E' come gli altri un romanzo delizioso. E per non stare a ripetere cosa penso dell'autrice, linko qui di seguito un articolo-intervista che le ho fatto tempo fa, e che gli amici di carmillaonline avevano ripreso. Buona lettura
Il primo è La stanza di sopra di Rosella Postorino (nata nel 1978), da poco pubblicato da Neri Pozza. Una narrazione in prima persona - quasi il diario di una quindicenne - che mi ha fatto venire in mente l'aggettivo "scabroso", che per me è piuttosto bello. Dicesi "scabroso", secondo i Dizionari, "di situazioni e di argomenti che per la loro particolare delicatezza (...) impongono un'estrema cautela nell'essere trattati", ma anche di qualcosa che è "difficile a superarsi o risolversi" e, ancora (come l'aggettivo "scabro"), di qualcosa che è "caratterizzato da un'accentuata ruvidezza al tatto". Sarà perché io amo il tatto, in tutti i sensi (ciò che è delicato richiede tatto), ma tutti questi attributi, che potrebbero comporre, se non una poetica, almeno uno stile, si attagliano al romanzo d'esordio di Rosella Postorino. Vi si parla di tardoadolescenza, di padre, madre, di amicizia, di malattia, di sesso, forse anche di amore, del disagio della comunicazione e della non comunicazione. Si parla di infelicità. Soprattutto, non è un romanzo scritto "con" le parole, ma di parole. Così come ci sono quelli che suonano "con" la chitarra, poi ci sono i musicisti veri, che suonano magari la chitarra. Questo, se lo si capisce, è uno dei massimi riconoscimenti che si può dare a un'opera letteraria (il contrario, per esempio, di quello che direi di un romanzo di Faletti). Le frasi sono spesso perfette nella loro accurata semplicità, solo ogni tanto c'è quasi troppo compiacimento e consapevolezza da parte dell'autrice.
Poi ho letto, in traduzione italiana (di Lucia Quaquarelli), un breve romanzo folgorante di Marie NDiaye, francese di padre senegalese, classe 1967. In Francia è una scrittrice già molto nota e apprezzata, spiazzante. Come questa storia apparentemente lievissima, tra Kafka, The Others e un fumetto di Tardi. Si intitola Fuori stagione (è appena uscito da Morellini Editore) e anche l'idea di letteratura a cui rimanda sembra felicemente fuori tempo, fuori spazio, fuori moda, "out of joint" come il personaggio della storia. In realtà è nuovissima, pura prosa, anche se molto forte, o forse proprio per questo. La storia finisce con l'automobile con dentro il protagonista che si blocca lungo la strada, anzi si perde nel nulla... Fin lì lo si è letto d'un fiato. Poi viene voglia di continuarlo: a scrivere.
L'ultimo libro che ho letto è anche l'ultimo uscito, sia in Francia che in Italia (Nei boschi eterni, Einaudi ) di Fred Vargas, una che non scrive "con" le parole anche se scrive gialli, e anche se le trame siano in lei fondamentali, quasi fiabesche. E' come gli altri un romanzo delizioso. E per non stare a ripetere cosa penso dell'autrice, linko qui di seguito un articolo-intervista che le ho fatto tempo fa, e che gli amici di carmillaonline avevano ripreso. Buona lettura
Philip K. Dick
In questi giorni si possono leggere sui giornali alcuni buoni pezzi su Philip K. Dick, il grande scrittore americano morto venticinque anni fa, il 2 marzo 1982: aveva 53 anni. Ho scritto grande scrittore, e non scrittore di fantascienza. Comunque, era uno scrittore di fantascienza. Alcuni suoi scritti autobiografici rievocano la sua tipica povertà di scrittore di fantascienza americano, eternamente ribelle, quando per esempio faceva la spesa, per sfamare sé e la sua donna, al negozio "Lucky dog" - che vendeva solo cibo per cani. Su l'Unità di oggi, anzi ormai ieri (2 marzo) viene anticipato il primo capitolo di un romanzo inedito di Dick, pubblicato da Fanucci (Il paradiso maoista, scritto nei primi anni '50 - un romanzo non di fantascienza, con una bella introduzione di Carlo Pagetti). Su Venerdì sempre di oggi (ieri), l'amico scrittore Valerio Evangelisti offre un ritratto di Philip Dick. A me è venuta voglia, anche perché il webmaster non lo aveva ancora inserito tra i "materiali" (articoli) di questo sito, di far leggere qui un mio scritto apparso nell'inverno 2001-2002 sulle pagine culturali de l'Unità. Abitavo per la maggior parte del tempo a Parigi, ed era uscita in italiano la biografia di Lawrence Sutine, Divina invasione (un titolo che sembra quello di un capitolo o di un corso di Emmanuel Lévinas). Non era una recensione, ma l'omaggio a uno degli autori che amo di più, e che nonostante ogni disperazione riesce sempre a darmi energia. Eccolo, si intitola Tutti i mondi possibili di Philip K. Dick.
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