8/10/2012

L'ultimo sogno di Theo Angelopoulos

(Fotodal set di Ardalan Nabavinejad)
"Storia del film interrotto sulla crisi girato su un set in piena crisi". Articolo scritto con Valerio Jalongo, uscito su Venerdì di Repubblica il 10 agosto 2012.

 Una volta il regista Theo Angelopoulos raccontò di essere andato al cinema la prima volta a 5 o 6 anni, e di avere visto Angeli con la faccia sporca di Michael Curtiz, in cui James Cagney interpreta il ruolo di un gangster condannato a morte. “Il cinema entrò nella mia vita con un grido, quello di un uomo che non vuole morire e che invece muore. Ho spesso pensato che fu questa forse l’origine della mia vocazione, del mio amore per il cinema”. La confessione aderisce come una didascalia estetica e politica all’ultimo progetto di Angelopoulos, perseguito con accanimento tra mille difficoltà, un film incompiuto e privo di finanziamenti sulla crisi economica. La sua morte sul set, tragedia nella più ampia tragedia della Grecia, è avvenuta mentre un intero popolo stava perdendo la possibilità di autodeterminarsi, figuriamoci quella di raccontarsi.
   Quando un film non è un documento, ha scritto Ingmar Bergman, allora è un sogno. Nel caso del film di Angelopoulos si tratta di entrambi: un sogno la cui fragilità è documento della crisi profonda che sgomenta l’Europa, e a cui anche gli eredi di Bertolt Brecht, pur riconoscendo il grande valore dell’opera di Angelopoulos, hanno inferto un duro colpo negandogli il consenso di usare brani de L’opera da tre soldi, a cui il film era ispirato. Anche se è noto che i diritti di Brecht non vengono dati quasi a nessuno, Theo era convinto che sarebbe riuscito a convincere gli eredi, e andò avanti nelle riprese.
   A raccontarci questa storia è Ardalan Nabavinejad, assistente alla regia di Angelopoulos in questo film, iraniano, laureato Dams e neo-diplomato all’istituto Cine-Tv Rossellini di Roma. Un buon luogo per evocare questa storia emblematica del presente, che riguarda il destino della cultura, del cinema e di altre cose inutili e necessarie. In questo ex studio di produzione Ponti-De Laurentis furono girati celebri film, da La Strada di Fellini a Il Caimano di Moretti, e non a caso da qui Mario Monicelli perorò due anni fa gli studenti a ribellarsi, a fare le barricate contro i tagli alla cultura.
   Poco prima del colpo di stato dei colonnelli, Theo Angelopoulos tornò in Grecia dalla Francia. Fu coinvolto nelle manifestazioni e nella violenta repressione poliziesca, ricevette perfino delle manganellate, e decise di restare perché qualcosa di importante stava accadendo nel suo Paese. Per il suo ultimo film sentì la stessa urgenza storica di testimoniare una situazione forse altrettanto grave, e provò analoghe difficoltà, come girare un film senza mezzi o senza il permesso (lo fece per La Recita, suo capolavoro), anche se stavolta la costrizione era dettata da condizioni economiche. Ma si possono separare le condizioni economiche da quelle politiche? La trama del film tocca l’immigrazione: la Grecia come terra d’arrivo di immigrati da Iran, Afghanistan e Pakistan. Il protagonista, interpretato da Toni Servillo, è un funzionario corrotto che specula  sull’immigrazione clandestina, la cui figlia è invece un’attrice che sta mettendo in scena L’opera da tre soldi di Brecht, va alle manifestazioni di estrema sinistra a favore dei diritti degli immigrati e si fidanza con uno di loro. Ma è difficile parlare di un film di cui è stato girato solo un terzo del totale, conoscendo inoltre le doti di improvvisatore di Angelopoulos.
   Fuori dal film, intanto, mentre la situazione greca precipita, i finanziamenti da parte del produttore greco e quello turco vengono meno, ma Theo decide di andare avanti lo stesso, con un’ostinazione struggente nonostante il moltiplicarsi di segnali negativi. Quasi nessuno nella troupe è pagato, ma tutti pensano che sia importante fare questo film, e comunque non c’è lavoro. La produzione poggia sempre di più sull’economia personale del regista, mettendone in pericolo il patrimonio. La tensione nella sua stessa famiglia è palpabile, ma Theo si sente vivo solo quando è sul set. Il set è una casetta ricostruita nel porto del Pireo. La moglie del proprietario di un piccolo chiosco del porto cucina per la troupe: un panino con la frittata. Orari massacranti, Theo pretende il massimo, come se fosse un film “normale”, pienamente finanziato. Entrare nel set è come entrare in casa sua: la moglie e la prima figlia lavorano nella produzione, un’altra figlia alla scenografia e la più piccola collabora alla regia. Abituato a produzioni ricche, all’inizio Angelopoulos non accetta la penuria di mezzi. Una notte mezza troupe è completamente fradicia e gelata per i tentativi di fare un effetto pioggia, ma Theo si rifiuta di girare perché il risultato non è soddisfacente, e pretende una troupe italiana specializzata nella pioggia artificiale. Il direttore della fotografia e i macchinisti lo conoscono bene, sanno che il regista può essere molto creativo ma anche duro ed esigente, e gli sono fedeli. Persino gli altri della troupe capiscono, lo amano e lo rispettano. D’altronde, ha il rispetto di tutti i Greci. Quando si doveva bloccare una strada provocando ingorghi, camionisti, autisti e automobilisti spegnevano il motore senza protestare e aspettavano in silenzio, sapendo che era per permettere la lavorazione di un film di Angelopoulos. Anche se molti non vedevano i suoi film, era sentito come l’alfiere di una dignità nazionale negata in quel momento di crisi, in cui la sovranità del Paese era ipotecata dalle banche. Ricordiamoci che in quel periodo Grecia, Portogallo, Spagna e Italia vengono definite dal mondo finanziario pigs: porci. La scomparsa di Angelopoulos, nel momento in cui un popolo sta perdendo la propria sovranità, in cui un paese, la sua civiltà, un’intera nazione sono valutate dalle agenzie di rating, assume un significato particolarmente forte, una simbolica perdita della propria voce.
   Tutti avevano sconsigliato al regista la scelta di quel set alla periferia del Pireo in cui avvenne l’incidente fatale. La polizia propose due volte di bloccare il traffico, visto che era all’uscita di un tunnel e prossimo a uno svincolo, e le auto arrivavano a grande velocità. Ogni volta Theo rifiutò, perché quello che lui voleva era il traffico vero.
   Accade dunque nella Periferia Drapetsonos, una specie di circonvallazione veloce a doppia corsia. |Ci sono tre Tir carichi di materiali parcheggiati, e una gru che sta riprendendo un piano sequenza all’inizio di un viadotto; all’improvviso sopravviene una moto di grossa cilindrata che investe il regista scaraventandolo nello spazio interstiziale, la fessura tra le due corsie. Sono le 18,30. Il corpo, nella posa innaturale di un manichino, resta lì in bilico a lungo. Per ovvie ragioni: quel giorno c’è lo sciopero anche delle ambulanze. Circa 40 minuti dopo l’incidente ne passa una per caso (è in riposo), e subito si fa carico di soccorrere il regista. Muore alle 23,30 circa.
   La morte, così come il lavoro o l’interruzione del lavoro, scandiscono e avvolgono tutto il film. La prima scena era già una tragedia greca: la morte di un operaio che si suicida gettandosi dal tetto di una fabbrica, seguita da una manifestazione con la salma del lavoratore nella bara. Il giorno del funerale di Angelopoulos coincide con quello in cui il piano di lavorazione del film prevede un funerale. La seconda figlia di Theo, che già non riesce ad accettare la morte del padre, chiede alla troupe di venire a filmarne il funerale come se fosse parte del film: carrello, macchina da presa, tutto. Il regista amava molto la pioggia: e nel cimitero avviene l’ultimo omaggio estetico, quello degli ombrelli aperti... 
   Guardiamo il video di una festa improvvisata con la troupe, in un alba livida e fredda al Pireo, tutti hanno cappelli o fazzoletti sulla testa, cantano e danzano al suono di un clarinetto struggente e una fisarmonica per commemorare Angelopoulos a una settimana della morte. La casa che ospitava il set ora accoglie dei rifugiati. Ecco, andare oltre il lutto, sarebbe bello fare un film su quel film necessario e impossibile da tre soldi.


[Il cinema di Theo Angelopoulos (1035-2012) ha un’ispirazione politica e marxista, e si rifà all'idea del teatro epico di Brecht, e colpisce che proprio gli eredi di Brecht dovessero tradirlo. Formatosi in Francia, studi di Lettere alla Sorbona, per quanto molto diverso da Godard condivise con lui l’idea di un cinema “difficile”, manifestazione anche di una coscienza politica coinvolgente. Nei suoi film (da Ricostruzione di un delitto, 1970 a La polvere del tempo, 2009) dominano i leggendari piani sequenza, lenti e lunghissimi, all’interno dei quali a volte può succedere che si passi da un periodo all'altro della storia dei protagonisti - come ne La Recita, che intreccia passato, presente e mitologia greca.]

8/05/2012

La finestra sul mare (reportage estivo da Ostia)

(versione corretta del pezzo apparso domenica 6 agosto su Repubblica-Roma, per la serie "Vacanze d'autore")


   Anche se è grande e popolata come una città, mi piace che Ostia sia solo un distretto di Roma col mare. Quella di Lido centro sembra una vera stazione, anche se ci arriva solo il trenino che parte dalla Piramide, e da lì è bello camminare in via della Pineta o nella strettissima via dei Fabbri Navali, nucleo originario di Ostia che ricorda l’atmosfera di Monteverdevecchio o del Gianicolo. In via degli Acilii c’era un’osteria in un giardino, sotto una tettoia di vigna, “da Oscar”, oggi solo rivendita di vino per gli intimi. Sembra di stare in un altro mondo. Suppongo però che devo parlare di spiagge.

   Le più eleganti sono quelle di levante (le più “esclusive” sono ancora più giù, verso Castelfusano, dove le cabine si tramandano in famiglia), ma io vado a ponente, nella cosiddetta “Ostia destra” – a destra del pontile. E’ più povera, il lungomare si restringe e le case sono condomini in puro stile geometrile anni ’60 e ’70, salvo le ex colonie fasciste in cui il sindaco Alemanno vorrebbe fare un casinò, e che per ora ospitano, perfetta nèmesi, una varietà di minoranze e di disagiati: la moschea, la mensa della Caritas, vari alloggi abitati da colorati extracomunitari, e la bellissima biblioteca Elsa Morante, rifugio di quegli speciali disadattati che siamo noi lettori di libri. Il tratto di lungomare chiamato Duca degli Abruzzi, poco più avanti, fino a qualche anno fa era addirittura malfamato, ma ha il privilegio di offrire il sollievo della vista di mare e spiagge libere a chi cammina - sul lungomare appunto, non “lungomuro” come quasi ovunque a Ostia. Alla fine del lungomare di ponente c’è il nuovo porto turistico, e in estate il sole tramonta così esattamente alla fine della strada da farle meritare l’appellativo di Sunset boulevard...

   Dopo il porto turistico c’è l’Idroscalo. Era una sorta di favela sulla foce del Tevere, cosi chiamata per gli idrovolanti che nel ventennio fascista partivano da qui (Fiumicino sarebbe nata più tardi). Ci si arriva lasciandosi alle spalle i palazzoni edificati per i senza casa dal sindaco Petroselli negli anni ’80, si costeggiano i cantieri navali coi lussuosi yachts, e l’oasi della Lipu con il monumento a Pier Paolo Pasolini (nel luogo preciso in cui fu ammazzato), dove volteggiano a volte fenicotteri bianchi e rosa. Sulla destra, in una polverosa distesa, l’ottagonale torre di avvistamento progettata da Michelangelo, detta anche “Torre di San Michele”, abbandonata da anni a non essere vista né ad avvistare più nulla. Finché la strada finisce, tra il mare e il nulla, un nulla non privo di dolcezza dai colori pastello, e una spiaggetta rocciosa dove giocano e nuotano soprattutto bambini. La finestrella di una casetta con le foto dei gelati attaccate al muro rivela l’esistenza di un bar che sembra sopravissuto agli anni ’60. Era, e in parte è ancora, un mondo di estremamente poveri e precari, in case e baracche di materiali di risulta, ma con statuine di Padre Pio, vasi di fiori, decorazioni sulle porte. Sembra uscito dal remake di un film di Pier Paolo Pasolini diretto da David Lynch, se penso agli uomini e donne coperti di tatuaggi che vidi anni fa in festose serate estive alla luce rubata dai pali elettrici, animate dal karaoke, da balli e dall’elezione di Miss Idroscalo. E soprattutto alla devozione quasi pagana, forse per questo ancora più religiosa, della festa dell’Assunta il 15 agosto, detta anche Festa del Mare: quando il barcone con la statua lignea della Madonna, i lunghi capelli sciolti come nella canzone di De André, prende il largo, e i poveri festeggiano a fianco delle autorità in una solennità iperreale e sballata, come i fuochi d’artificio fuori sincrono. Catarsi di una comunità disaggregata degna di essere raccontata in un film, oggi dispersa dalle ruspe e dai progetti immobiliari.
   Ho un amico poeta che abita a Ostia destra, con una terrazza sul lungomare e la spiaggia. Vado spesso da lui a pranzo o a cena (è un ottimo cuoco), poi finisce che resto lì per una breve vacanza. Eccomi dunque qui a guardare il mare e la spiaggia dall’alto nell’ora che preferisco, quella in cui si svuota, gli stabilimenti chiudono come gli ombrelloni e tutto acquista luce e spazio abitabile, una petroliera rossa all’orizzonte, e sarebbe bello scendere a nuotare. Ma ecco che alle 19,15 circa gli stessi stabilimenti balneari si cambiano d’abito per la loro second life, annunciata da prove  di colonne sonore, all’inizio appena accennate, poi continue, dilatate in una poltiglia sonora ad altissimo volume. Quando il sole è ormai atterrato da un pezzo all’Idroscalo, e un argento uniforme confonde cielo e mare, a un certo punto un pianoforte classico rivaleggia con l’immancabile Folle idea di Patty Pravo, e tra i due motivi prevale il basso della voce di Louis Armstrong in What a wonderful world: è il segnale. La concorrenza dei bar della spiaggia non risparmia niente e nessuno: percussioni africane versus tromba romantica, Besame mucho contro rock italiano anni ’60, disco music e perfino una soprano dal vivo tra i tavoli di un ristorante. Un brusio-remix che arriva come aromi di cucina portati dal vento in cui si mischiano tra loro pietanze diverse. In cielo resta un vago alone rosa, il resto è buio, il porto turistico con le sue torrette sembra il profilo di un’Istanbul in miniatura, e il popolo dell’happy hour comincia a fluire e invadere le spiagge come zombi teneri e sonnacchiosi. E’ la globalizzazione della sbronza, nel babelico jukebox della notte rutilante. C’è la spiaggia-balera e il piano-bar, il pub e la discoteca e così via, a ognuno la sua musica. A giudicare dal flusso di corpi che dal lungomare entrano negli stabilimenti, la spiaggia è più gremita che di giorno.
   Poi bisognerebbe descrivere l’incanto del mattino presto, il chiarore terso e pulito del mare. Le spiagge vuote e struccate, senza il belletto notturno, percorse dai trattori che le spianano come tosaerba, sorprendono per la loro freschezza nella luce silenziosa del giorno. Certo, di giorno ci si chiede perché quel bar con le capanne sulla sabbia debba chiamarsi Polynesian Cocktailbar, e cos’abbiano di polinesiano i condomini di fronte. Ma questa, del divario tra le parole e le cose, è un’altra e vecchissima storia.

7/15/2012

Il mare nascosto


Su la Repubblica di oggi, pagine di Roma, per la serie "Vacanze d'autore", è uscito questo mio pezzo dedicato a Capalbio. Mantengo il titolo redazionale perché mi piace: "Il mare nascosto". La foto con cui lo illustro l'ho fatta al folle Giardino dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle.

  
   Il bello di Capalbio è che, secondo i valori dominanti, ci si annoia: niente discoteche, niente struscio, niente ostentazione, solo spiagge selvatiche e (apparentemente) poco organizzate, qualche ristorante non dietetico sparso nella campagna un po’ western o nei diradati paesini, molto spazio vuoto e addirittura silenzio. Insomma, un luogo di vacanza controcorrente come i salmoni, o come leggere un libro, e a cui auguro con tutto il cuore di preservarsi. Com’è rilassante infatti stravaccarsi su queste spiagge silenziose, e ancora di più nell’entroterra, una campagna verde di pini e gialla di campi di grano, che si avvicina con filari di eucalipti alla linea del mare, cioè alle dune di macchia mediterranea...
   Il bello è anche che chi già non le conosce difficilmente le trova - le spiagge. La prima volta che capitai sulla costa maremmana tra Lazio e Toscana, a sud dell’Argentario, feci fatica non solo a raccapezzarmi (non trovavo l’accesso al mare), ma anche a capirne il valore d’uso, come cioè si facesse qui una vacanza. Vittima anch’io di uno sguardo turistico, non capivo che la sua bellezza fosse nascosta dalla sua evidenza: in questa campagna armoniosa con tutte le sfumature di verde e di giallo che si estendeva a perdita d’occhio sotto il cielo azzurro in morbide curve, e che ricorda certe copertine di dischi americani rock e blues anni ‘60 e ’70. Scarsa speculazione immobiliare (almeno fino a poco fa), pochi rurali e casali più o meno restaurati, e una serie di graziose e diradate case tutte uguali, presumibilmente di epoca fascista come la bonifica delle paludi, disposte lungo la stradina litoranea che costeggia la laguna, ora riserva del Wwf.
   Ma per una buffa nèmesi questo luogo della Maremma, forse la regione italiana meno spettacolare e consumistica, il cui paesaggio è rimasto intatto grazie, paradossalmente, al latifondo, è stato per anni mediatizzato e reso celebre dalle cronache e dai gossip più che dalla sua bellezza naturale. Se prima del 1988 quasi nessuno conosceva Capalbio, tranne vagamente la tradizione dei suoi butteri e dei suoi cavalli, quell’anno uscì su Venerdì di Repubblica un servizio fotografico (“Il bacio di Capalbio”) in cui il neo segretario del Partito comunista italiano, Achille Occhetto (colui che per scarsa spettacolarità perse contro il padrone delle televisioni), venne immortalato mentre tra gli alberi baciava con passione la sua compagna Aureliana Alberici. Da allora, il comune della Maremma (inopportunamente chiamato da Alberto Asor Rosa “piccola Atene”), venne identificato come covo vacanziero di quella sinistra romana detta “radical-chic”. Il caso (e la retorica) vuole che questa “sinistra” si concentri precisamente sotto gli ombrelloni dell’“Ultima spiaggia” (si chiama proprio così: nomen omen?), e in effetti sono tanti i volti noti e quelli da salutare se ci si attarda ai tavolini del suo bar. Per fortuna la politica, proprio come le news, è una meteora che si consuma in fretta. Oggi tutti quei riferimenti sembrano appartenere al passato. Perfino Berlusconi, figuriamoci i suoi concorrenti.
   L’oasi del Wwf si trova sulla Strada Provinciale del Chiarone, in direzione Capalbio Scalo (che è poi la stazione ferroviaria, il cui Bar Station è uno dei luoghi mondani della zona). E’ un paradiso di pesci e uccelli, sia rapaci che di palude, tra cui tre specie di falco, cormorani, fenicotteri, aironi, il Cavaliere d’Italia e l’avocetta - e di flora mediterranea (oltre 600 specie, più 60 specie di licheni). Punto d’incontro e di fusione biologica di terra e mare, questo tratto di costa e di orizzonte - le due strisce azzurre del mare e della laguna separate da quella verde delle dune - è di una bellezza incredibile e rasserenante. Dall’altra parte la campagna si alza dolcemente nelle colline rigate e punteggiate dagli ulivi e le vigne, come pagine scritte di un immenso libro aperto e ondulato. Come un segno di punteggiatura, il centro storico di Capalbio è arroccato là sopra: ci si va la sera, a mangiare o a prendere l’aperitivo al Frantoio - che è anche luogo di incontri e mostre d’arte. Ma la mondanità vera si svolge nelle case private.
   Ogni scusa è buona per percorrere, anche in bicicletta, quella campagna, sopra e sotto l’Aurelia che l’attraversa. E a metà strada tra le colline e il mare, e tra Capalbio e Pescia Fiorentina (un paese che non esiste, ma che dà il nome alla parte più bella della campagna, e dove in una corte rurale, una sorta di aia domestica, c’è uno dei ristoranti più amati, il mitico e semplice Tortello), in mezzo alla campagna è anche possibile un’immersione in una dolce e vera follia, annunciata da alcune misteriose chiazze rosse e blu che spuntano sopra il verde degli alberi. Parlo del Giardino dei Tarocchi, le imponenti coloratissime sculture di Niki de Saint Phalle, ispirate ai 22 Arcani Maggiori delle carte dei Tarocchi, che raggiungono anche i 15 metri di altezza.
   E’ un parco che si estende per circa due ettari, costituendo una specie di villaggio di sculture-case circondato da un muro di tufo. Alla realizzazione delle sculture, lavoro che si è protratto tra il 1979 e il 1996, parteciparono numerosi operai, artigiani e altri artisti contemporanei, tra cui il marito di Niki, Jean Tinguely. Dal 1998 è aperto al pubblico, e vale la pena andarci, e lasciarvisi andare come se si fosse sul set di un film di Tim Burton – basta vedere la gioia dei bambini che vi si trovano. Si sale tra le case sculture dalle forme elastiche e improbabili, ricoperte di ceramiche policrome, mosaici a specchio, vetri preziosi, si cammina portati da questa colorata meraviglia che ci riflette tutti, adulti e bambini, tra il cielo azzurro e il verde degli ulivi, finché vediamo il mare là in fondo. E verso Nord, sullo sfondo, incorniciata dal profilo della Luna dei tarocchi, scorgiamo per un attimo la torre cilindrica dell’ex centrale nucleare di Montalto di Castro, simile anch’essa a uno strano, inquietante minareto.








6/29/2012

Passeggiando a Ginevra con Rousseau


da Venerdì di Repubblica del 29 giugno 2012:

"Passeggiando con J.-J. Rousseau a Ginevra trecento anni dopo, tra utopia, spiritualità, banche e orologi"


   Ho vissuto anni sullo sponde del lago di Ginevra, e un lungo solitario inverno su quello di Bienne, cittadina bilingue a nord di Neuchâtel che ha la coincidenza di essere luogo natale di Robert Walser e teatro della Quinta Passeggiata di Rousseau, la più bella delle sue Rêveries, Le passeggiate del sognatore solitario. Al centro del lago di Bienne sorge un isolotto che porta il nome di Rousseau, perché vi soggiornò in esilio. Laghi e isole hanno costellato la vita del filosofo e scrittore ginevrino, costantemente in fuga e affamato di luoghi, tra nostalgia e utopia: isole, les îles, in francese suona come l’esilio, l’exil.
   Anche per questo il terzo centenario della nascita di Rousseau è un tripudio di luoghi di pellegrinaggio “bucolico e romantico”, come recita l’invito alla casa-museo delle Charmettes, nelle Alpi sopra Chambéry, dove Rousseau soggiornò spesso negli anni ’30 del Settecento. Per non parlare del lussureggiante parco di Ermenonville (detto Parco J.-J. Rousseau), non lontano da Parigi, creato dal marchese René de Girardin nel 1765 seguendo la filosofia della natura di Rousseau, e dove questi trascorse le ultime settimane di vita scrivendo le sue Passeggiate. Festeggiare Rousseau è un invito alla vacanza, ma ricordarlo significa passarne in rassegna le numerose, contraddittorie etichette. A Grenoble, una mostra sugli avatars di Jean-Jacques Rousseau ne confronta il ventaglio di presunte reincarnazioni: rivoluzionari del 1789, ecologisti, romantici a vario titolo, resistenti della seconda guerra mondiale, musicisti, scrittori, perfino psicanalisti. Ma Rousseau fu molto di più: il primo dei romantici e il pensatore politico che inventò la democrazia (per alcuni anche lo stato totalitario); l’inventore dei “diritti dell’uomo” (“e del cittadino”: precisazione che li limitò allo Stato-nazione, e quindi al fallimento nel mondo globalizzato) e il fanatico della sincerità, antesignano del mito della trasparenza di Assange e Wikileaks; pedagogista ed educatore civico, fondatore dell’etnologia e dell’antropologia con le sue Confessioni, scrittore ecologista che praticò l’equivalenza del vagabondare coi piedi e con la mente, anticipatore della Wanderung, l’erranza dei romantici tedeschi; infine il critico della civiltà che non anticipò solo la denuncia dell’alienazione di Marx, ma quella della “società dello spettacolo” di Guy Debord, il dominio del tempo libero nel capitalismo maturo. Ci si potrebbe fermare a questo, alla devastante critica di Rousseau all’ottimismo illuminista nel suo primo discorso (Discorso sulle scienze e sulle arti) e nella Lettera a d’Alembert sugli spettacoli, requisitoria sul potere di corruzione dello “spettacolo” come strumento perverso di coercizione. Come molta avanguardia del XX secolo, di Rousseau affascina anche la contraddizione di scrivere contro lo scrivere, denunciare con romanzi il potere di corruzione dei romanzi - così come Debord, ma in fondo anche Godard, hanno fatto cinema contro il cinema.
   Capii meglio Rousseau grazie all’incanto che provavo la sera, a Ginevra, vedendo i poetici riflessi di luce di tutti i colori sull’acqua del lago, seguito dal disincanto del guardare la fonte di quella fantasmagoria, i neon cubitali e aggressivi di banche e multinazionali di tutto il mondo, da Hong Kong a Chicago all’Arabia Saudita. Pensavo all’iperrealtà dei simulacri e alla donchisciottesca lotta di Rousseau contro l’alienazione e l’inautentico, che lo invischiava sempre di più in ciò contro cui si scagliava. Del magistrale studio di Jean Starobinski su Rousseau, La trasparenza e l’ostacolo, restano illuminanti quei due verbi giustapposti, “accusare e sedurre”, con cui spiegò la critica alla società condotta da Rousseau, paradigma di future critiche politiche, ma anche delle avanguardie artistiche. “Accusare e sedurre sembra essere il limite e la condanna di ogni movimento rivoluzionario”, mi ha ripetuto di recente Starobinski. Difficile una resistenza culturale nell’epoca della ragione pubblicitaria che assoggetta ogni linguaggio. “Ricchezza e potenza della società del benessere rendono l’uomo estremamente fragile, al punto di non avere più un’esistenza sensata”.
   Tra tutti i luoghi è quindi giusto ricordare Rousseau passeggiando a Ginevra. Non solo ci è nato il 28 giugno 1712, come ricorda la targa paradossale sul muro di un grande magazzino, sorto al posto della casa natale di Rousseau dopo la sua demolizione. Questa polis, città-Stato, si presta a immaginare utopie, e Rousseau se ne ispirò nel suo Contratto sociale. Ma c’è qualcosa di specifico in questa città, e nella Svizzera in generale (“una repubblica platonico-alberghiera”, la definì Guido Morselli) che riguarda Rousseau ma anche altri illustri svizzeri, da Amiel a Jean-Luc Godard: un misto di pulsioni centrifughe - il viaggio a oltranza, il nomadismo o l’auto-esilio; e centripete - l’autobiografia più estrema, la confessione, il viaggio intorno alla propria camera. Racchiusa da protettive montagne, cosmopolita e provinciale insieme, è una città di una comodità tossica, di una disciplina e ordine nevrotizzanti, ma che spinge a forti avventure interiori. Ci si potrebbe chiedere come mai proprio qui abbiano scelto di stare a un certo punto della loro vita avventurieri come Joseph Conrad, Jorge Luis Borges o Corto Maltese, alias Hugo Pratt. Se io stesso ho resistito anni in questa città è forse per questo, il fascino di essere sradicati-residenti, il gusto del “falso movimento” (come il film di Wim Wenders).
   Nei mesi estivi sembra la Costa azzurra, e le aiuole e i giardini pubblici sono ovunque sgargianti di fiori, dall’Orto Botanico al Jardin Anglais. Si può fare una nuotata nella pausa dal lavoro, prendere il sole e poi tornare in ufficio. E gli alberi secolari nella collina di Cologny tappezzata di ville  sono sontuosi. Nel resto dell’anno però il colore dominante è il grigio nebbioso che unifica lago e cielo in un silenzio freddo e compatto, e sembra che la Svizzera sia solo questo gelo, scandito da un’inflessibile cortesia. La città vecchia, che si arrampica intorno alle guglie della cattedrale, a parte qualche rifugio di avvinazzato diventa così triste che nemmeno la musichina straziante di un carosello per bimbi su una salita può peggiorarla. Soffia la bise, una specie di bora freddissima che raggiunge il culmine se attraversi a piedi la rada su uno di quei ponti silenziosi che attraversano il lago, che poi ridiventa fiume, il Rodano. Uno di questi ponti, di fronte all’Hotel des Bergues, si densifica nell’isola Jean-Jacques Rousseau, con la statua del filosofo seduto su una sedia, a sua volta posata su una pila di libri, e guarda davanti a sé. Ecco, tra le opere per il centenario c’è stato il riposizionamento della statua, che prima dava le spalle alla città guardando il lago e l’aperto, ora è girata. Ho attraversato il ponte e cammino nelle rues basses, il centro commerciale di banche e uffici che alle cinque del pomeriggio è deserto, periferia nel cuore della cité. “Oggi Ginevra è una città fantasma, avvolta da una nebbia bancaria. Le persone escono dalle gioiellerie cariche di diamanti, ma la ricchezza è invisibile, custodita da guardiani protestanti”, mi dice l’amico ginevrino, poeta bilingue, Vince Fasciani. E’ l’essenza del calvinismo: non ostentare, non mostrare il lusso, e nello stesso tempo non mascherarsi (per questo il carnevale qui è proibito). E mi accorgo che le scritte torreggianti dei neon sui palazzi intorno al lago sono cambiate, la globalizzazione è sparita o si è nascosta: tranne Toshiba, Hermès e Chanel, sono solo di banche svizzere e assicurazioni, gioielli e orologi “locali” – Pax Assurances, Piaget, Chopard, Rolex, Patek Philippe, LGT Banque (Suisse). Aspetto di vederne i colori tremolare sul Lemano.

6/26/2012

"Le passeggiate del sognatore solitario", ovvero le "Rêveries", di Jean-Jacques Rousseau. Brani dalla mia Introduzione

   [...]
 Le passeggiate del sognatore solitario, iniziate nell’autunno 1776, subito dopo la redazione dei Dialoghi (Dialogues ou Rousseau juge de Jean.Jacques) - la seconda passaggiata è redatta alla fine dell’anno, dopo l’incidente di Ménilmontant de 24 ottobre 1776 - , riprese nel 1777 (dalla terza alla settima), e poi nel 1778 (dalla fine dell’inverno al 2 maggio, “jour de Pâques fleuries”), è forse il manifesto di ciò che viene chiamato pre-romanticismo. Che cosa vuol dire? Nel suo senso profondo, come il romanticismo, si tratta della precoce scoperta di una dimensione della sensibilità e dell’intelletto - una nuova soggettività - inseparabile da una consapevolezza critica delle strutture sociali della nostra civiltà, e del conseguente rimpicciolirsi del concetto di realtà, che in compenso si veste di una solida armatura. In Rousseau la fondazione della soggettività si accompagna, è noto, alla passione della politica e all’invenzione della democrazia, quella “sovranità popolare” spesso abusata e manipolata dai posteri. In questo senso appartengono al romanticismo gli scritti di Rousseau come quelli di Marx (accomunati da una denuncia, pur se su piani diversi, dell’alienazione), la Ginestra di Leopardi e l’Albatros di Baudelaire, la veggenza di Rimbaud e i mondi possibili di Philip K. Dick (e la sua interrogazione sulla realtà della realtà), il Disagio della civiltà di Freud e Eros e civiltà di Marcuse, Allen Ginsberg, gli hippie e il recente movimento di protesta Occupy WS. La dimensione inaugurata dal romanticismo, a differenza di altri ismi, non ci abbandonerà più. Quello di Rousseau, scaturito nel pieno del secolo dell’Illuminismo, è la scoperta che, una volta lasciata la propria casa, è molto difficile ritornarvi, e l’alternativa è tra la deriva nomade (come la Wanderung dei romantici tedeschi) e la costruzione di una nuova , spesso utopica dimora.
   Le Passeggiate è un’opera in cui la natura è onnipresente, ma il cui centro è quello che l’autore chiama “il sentimento dell’esistenza”, ciò che lo rende il primo testo consapevolmente ecologico (nel senso anche di un’ecologia della mente) della letteratura moderna in Europa. E’ l’opera in cui con più fascino si dispiega l’incomparabile musicalità della lingua di Rousseau, e dove per la prima volta si fa uso della parola “romantico” (e a volte dell’adiacente “romanzesco”) in riferimento a un paesaggio, o meglio, a un modo di vedere il mondo esterno e dirsi consapevoli di essere nel mondo, e che tutto è connesso con tutto. E’ anche un documento straordinario della patologia psichica di un individuo che cerca e trova compensazione e sollievo alla propria sofferenza nell’attività di sognare a occhi aperti, nell’ozio e nella contemplazione (che significa: fare il proprio tempio), nel libero divagare con la mente – tutte azioni racchiuse nella parola rêverie, “trasognamento”; che trova compensazione e sollievo nel registrare, in una scrittura altrettanto libera, l’ebbrezza e l’incanto di questo abbandono. E’ la testimonianza poetico-psichica di un’operazione alchemica riuscita, una trasmutazione della sofferenza in musica attraverso una serie di altre trasformazioni esemplari: della passione in pazienza, del disagio in armonia, della lotta in resa, dell’esilio in estasi, dell’odio in conciliazione, della solitudine in grazia e autosufficienza. E dove immanente e trascendente, vita e sogno, come in ogni vera esperienza estatica (ed estetica) coincidono.
   E’ infine il primo testo non di finzione in cui l’autore, esiliato e auto-esiliatosi dal mondo, ormai fuori dal sistema di circolazione e valorizzazione degli oggetti letterari (dall’establishement, si diceva nel Novecento) e dall’orizzonte di un pubblico, è davvero convinto di rivolgersi solo a se stesso (pur non scrivendo un diario),  senz’altri testimoni (tranne Dio e il vago fantasma dei posteri), ciò che accomuna le Rêveries alla forma della preghiera. 
   
   [...]
   
 La mia responsabilità si segnala già dal titolo, che anagrammando l’ordine di quello originale, Les rêveries du promeneur solitaire, evita di incorrere nella falsa, oltre che fastidiosamente cacofonica, traduzione abituale (“Le fantasticherie del passeggiatore solitario”), di fronte alla quale provo da sempre un moto di rigetto. Sono molto contento di non adoperare mai né la parola “fantasticheria” né tantomeno “passeggiatore”. Il titolo adottato rispecchia d’altronde le scansioni del testo in capitoli, che Rousseau chiama “Passeggiate”, e come si vedrà tutto nella sua concezione porta a un’identificazione tra il camminare e il sognare (e un certo modo di scrivere) nella comune sintesi di vagare, divagare, vagabondare con la mente e col corpo (coi piedi). Quanto alla bellissima parola rêverie, sogno prolungato e spesso diurno, essa non designa in nessun caso uno sforzo cosciente, non ha la frivolezza di una “fantasticheria” - che presuppone già un giudizio, e un’idea di “realtà” da cui il fantasticare è supposto allontanarsi - e precede in ogni caso ogni eventuale codificazione letteraria in generi. Ho adottato la parola italiana trasognamento, che dice e mantiene esattamente l’idea di un sogno prolungato e in stato di veglia. Come ci ricorda Tommaseo nel suo Dizionario, “trasognare” significa “andar vagando nella mente, come fa colui che sogna” (ed è usato in questo senso ad esempio dal Boccaccio nel Ninfale Fiesolano). Occorre poi ricordare che all’epoca di Rousseau non c’era tanta distinzione tra la meditazione, la contemplazione e il sogno a occhi aperti.
   In un dotto excursus etimologico, Marcel Raymond, uno degli interpreti più appassionati di Rousseau, ha ricordato che il verbo rever – da cui il sostantivo rêverie – verrebbe probabilmente dal latino reexvagare, spiegando così come il primo significato di questa parola fosse quello di vagabondare, errare, vagare in giro. (I dizionari confermano: per il Petit Robert rêver, dal gallo-romano esver (da esvo, latino, exvagus) significa prima di tutto “vagabondare”, almeno dal XIII secolo. E’ solo molto più tardi (ne testimonia per primo il Dictionnaire di Furetière) che il verbo rêver acquista il senso di “delirare”, fare sogni e pensieri stravaganti. L’eccezionalità del testo di Rousseau consiste anche in questo, nel realizzare il programma di scrivere senza programma, passeggiare e sognare, divagare e testimoniare per iscritto tutto quanto viene alla mente, errore e erranza, mettendo l’accento sul corso del pensiero invece che sull’ ordine del pensiero, privilegiando il corso, il fluire del tempo, invece che l’ordine del tempo. Questo elogio pratico del divagare lo ritroveremo ad esempio nella Passeggiata di un altro svizzero, Robert Walzer; dove, forse con più pace e conciliazione, l’autore ci insegna analogamente ad allargare i confini di ciò che è considerato raccontabile e degno di nota, narrando eventi minimi come alzare il cappello per salutare un passante, guardare un raggio di sole nell’aria, assaporare un profumo. Scrivere come passare, come passeggiare, nella libera svagata andatura di chi sa che non c’è nessun posto in cui si deve andare o far finta di andare, nessun porto cui approdare, tranne forse la morte (e Rousseau morì praticamente con questi fogli in mano).
   [...]

5/21/2012

Un reportage da Vigevano per Lucio Mastronardi (e per Riccardo De Gennaro)


 (uscito su Venerdì di Repubblica del 18 maggio '12)

  “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre  prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a  battaglioni affiancati, di librerie neanche una”.
   Così iniziava un mitico pungente reportage da Vigevano che Giorgio Bocca firmò su Il Giorno, 14 gennaio 1962. Vi descrive la nascita del self made man italiano, i laboriosi industriali fai da te, i primi evasori fiscali. Descrive cioè il particolare miracolo dentro al miracolo economico italiano della produzione di scarpe di Vigevano. Ma a richiamarne l’attenzione fu l’uscita di un piccolo grande libro, Il maestro di Vigevano del trentenne Lucio Mastronardi, coscienza libera e inquieta della città. Il successo del romanzo (primo di una trilogia che comprende Il calzolaio di Vigevano e Il meridionale di Vigevano) fu alimentato dal film di Elio Petri con Alberto Sordi.
   Ora, se parliamo di Vigevano, di Mastronardi e del reportage di Bocca a cinquant’anni dalla loro pubblicazione, e dall’esplosione dei fuochi d’artificio del neocapitalismo italiano, è grazie all’uscita di una bellissima “vita di Lucio Mastronardi”. Titolo: La rivolta impossibile. Si legge come un romanzo, e l’ha scritta dopo un annoso lavoro il giornalista e scrittore Riccardo De Gennaro. Le cose arrivano quando devono arrivare, e la sincronia è perfetta: come già per la denuncia del consumismo di Pasolini, forse solo oggi capiamo integralmente la verità attuale della descrizione del mondo capovolto che Mastronardi ci ha dato, il fallimento umano del capitalismo, la vita alienata e il mito del denaro, e l’impossibile uscita dalla caverna. De Gennaro non racconta solo la storia di un magnifico perdente (Mastronardi si suicidò gettandosi nel Ticino nel 1979), ma una provincia universale che ci riguarda tutti.
   Stralunato maestro elementare, Mastronardi raccontò l’atroce e grottesco costo umano della corsa all’arricchirsi dei suoi concittadini, uomini e donne, e la conseguente messa al bando di ogni valore che non fosse il profitto o la “fabbrichetta”, e il disprezzo verso ogni altra attività, come l’educazione, la scuola o la cultura. “L’unico posto a Vigevano dove non si fabbricano scarpe è il carcere, lì si fabbricano penne a sfera”, disse (avendo conosciuto sia il carcere che il manicomio) a un critico letterario. Pubblicò nei prestigiosi “Coralli” di Einaudi grazie all’interessamento di Elio Vittorini prima, di Italo Calvino poi. Nel generale impazzimento il diverso divenne lui, e la sua marginalità, la sua umanissima rivolta – simile a quella che a Milano visse l’altro grande scrittore provinciale, Luciano Bianciardi, che di Mastronardi fu intimo amico – virò in quella follia poetica e walseriana che è il modo di dire la verità, sguardo e stile visionari, da “provincia matta”, che lega Pietro Ghizzardi a Gianni Celati, passando per Cesare Zavattini.
   Cinquant’anni dopo eccomi dunque a Vigevano per un molteplice omaggio, e la prima cosa che faccio per strada è guardare i piedi della gente. Lo disse Mastronardi a Sordi: a Vigevano alla fermata dell’autobus ognuno guarda i piedi dell’altro e lo giudica dalla pelle delle scarpe. Gli abitanti hanno superato i 60.000 grazie agli extracomunitari, ma gli operai sono vistosamente calati. Al mattino i treni da Vigevano si riempiono di pendolari, terziario e precariato diretto a Milano o dintorni. La città di Mastronardi era amministrata dalla sinistra, Pci compreso, fino agli anni ‘90. Ora è governata dalla Lega. E’ buffo, e in qualche modo mastronardiano: estrapolando frasi sulla città dai libri del suo figlio ribelle, di recente il Comune ha creato un percorso letterario visivo e sonoro, quasi una guida turistica. Ovviamente non manca la bellissima Piazza Ducale coi colonnati e i caffè, e la splendida facciata barocca del Duomo che, come una quinta teatrale, la chiude da un lato. Vi accedo dall’antico portone visconteo, dopo via Cairoli e via XX settembre, dove c’è il palazzo liberty, già albergo Canon d’Oro, in cui nacque Eleonora Duse, e dove la libreria “Nutrilamente” è sparita un anno fa, insieme alle uniche quattro panchine del centro.
   Ricordo le tante descrizioni della Piazza di Mastronardi, inadatte allo sguardo turistico: il fare la vasca degli arricchiti ingioiellati, il loro tempo vuoto e vano la sera “stravaccati sulle poltroncine”, l’operaio seduto con l’industriale, entrambi soddisfatti, “come se la ricchezza e la potenza dell’industriale si riflettessero su di lui”. Seduto qui, Mastronardi ripeteva ai giornalisti che lo intervistavano: “Sì, questa è una bella piazza, ma i vigevanesi la torre del Bramante neanche la guardano, pensano solo alle scarpe. Chi non fa scarpe è considerato un inetto, un uomo superfluo, che non è utile alla famiglia né alla città”.
   Sotto la guida colta e gentile di Mario Cantella, giornalista e uomo di lettere, vedo che il bar Sociale di Mastronardi è stato sostituito dalla Pizzeria Re di Napoli: i meridionali di Vigevano si sono presi una rivincita, mentre i cinesi volevano comprarsi (il proprietario non ha ceduto) lo storico bar Commercio. C’è il bar Bramante, ma più frequentato mi sembra il bar Colombo: molte signore benestanti ai tavolini. In piedi (il caffè al tavolo costa pur sempre 2 euro) i pensionati parlano di calcio e di politica. Sul lato opposto c’è il bar Haiti, dove si respira ancora a tratti un’umanità mastronardiana (qualche saputo chiacchierone locale, eco del giornalista Pallavicini, il paroliere di Mille bolle blu, parodiato nel Maestro di Vigevano). Ma la sera, dopo l’aperitivo, sono gli extracomunitari ad abitare i tavolini della piazza, mentre le donne col velo e la carrozzina passeggiano coi figli. Il sabato e la domenica sono i giorni dei turisti e dei milanesi.
   In piazza c’è una Feltrinelli, ma al posto della libreria Mondadori c’è ora un negozio di scarpe Geox, che beffardamente si producono in Veneto. Dal lato opposto al Duomo c’è la statua di San Giovanni Nepomuceno, dove un tempo ci si sedeva sugli scalini: un’ordinanza del vicesindaco lo ha severamente proibito. Salgo per via del Popolo, che porta alla chiesa quattrocentesca di San Pietro Martire. I negozi eleganti della prima metà della strada cedono il posto a laboratori di cinesi che lavorano senza orari e a negozi di kebab (un altro ha aperto proprio di fronte al Municipio governato dalla Lega). A proposito di cinesi: appartengono a loro molte fabbriche di componenti di calzature (tomaifici, suolifici, giunterie), anche se non ancora calzaturifici, come è successo a Prato con la manifattura. Ma l’intrattenimento culturale è quasi intenso nel Castello Sforzesco: incontri su “la città ideale” di Leonardo (uno dei numi culturali di Vigevano, che vi soggiornò), su una rivista di storia, e una mostra sullo stato indiano del Chhattisgarh. Leggo infine di una mostra d’arte contemporanea in un ex calzaturificio: le fabbriche di Vigevano sono ormai storia, anzi, archeologia industriale.

Su argomenti connessi puoi vedere anche: http://www.beppesebaste.com/articoli/luciano_bianciardi.html

5/11/2012

Tutti i mondi possibili - omaggio a Philip K. Dick al Salone del Libro di Torino

Alle ore 13 di domenica 13 maggio al Salone del libro di Torino è previsto un incontro-conversazione, con me e Gianluigi Ricuperati, per il trentennale della scomparsa del grande scrittore Philip K. Dick, organizzato dall'editore Fanucci (che ripubblica, merotoriamente, tutto Dick): vedi qui: http://torino.repubblica.it/dettaglio-news/14:14/4158360, e mie dichiarazioni all'Adnkronos qui e anche qui.  Tuttavia non potrò esserci, per cause davvero maggiori. Mi dispiace, ma sarò più che degnamente sostituito. Sarò infatti qui (è una metafora visiva: vedi foto a sinistra di Jean-Loup Sieff). Quello che direi, e che spero di dire per interposta persona, è quanto segue. Un abbraccio, b. s.

               °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

  Diceva il filosofo Emmanuel Levinas che l’assenza è la modalità della presenza degli altri in quanto “altri”. Fate dunque conto che io sia un altro, semplicemente. Il mio tempo è attualmente “fuori luogo”, come il traduttore Pannofino ha genialmente tradotto il romanzo dal titolo shakespeariano di Philip K. Dick, Time out of joint, Tempo fuori luogo (“the time is out of joint”, esclama Amleto). Come quasi tutte le sue storie parla di un dis-astro, di un deragliamento che comincia in modo impercettibile, di una vita che deve trasformarsi...
   La vita di Philip K. Dick fu un fitto percorso di dis-astri, sconnessioni, tempi fuori luogo e fuori asse. Voi stessi non potete essere sicuri che questi stand farciti di libri e illuminati a giorno siano davvero reali, e non un’allucinazione creata dal malin génie di Cartesio, cui basta un black-out e hop, tutto scomparso, svelando un inquietante, silenzioso, polveroso nulla. O un Tutt’Altro... Quella ragazza che accarezza gli scaffali, quella alla cassa, l’uomo appena entrato col berretto da baseball, l’educato barbone fuori nel piazzale, il cane bastardo zoppicante intorno ai taxi: sono forse emissari di Dio, e incontrarli sarebbe cruciale per la vostra vita, ne dipende forse la sorte del Mondo, questo o uno degli innumerevoli altri.. Forse anche Dio è in pericolo, forse Dio è schizofrenico, e tutto ciò che accade, i conflitti, le catastrofi, quelle strane slogature della realtà, quei dettagli vagamente fuori posto, quell’inquietante famigliarità (Unheimlich), che ogni tanto salta agli occhi, non sono che indizi di un’immane battaglia la cui posta è riunire le due metà della psiche di Dio, della vita stessa, la vita del tutto. Pochissimi lo sanno, un bambino, un animale che parla, un topo che suona il flauto, un profeta dall’aria stupida, un focomelico, un tossico, una Cassandra qualsiasi. O uno qualsiasi di voi...
   Ho cercato di evocare alcuni racconti di Philip Dick, che come ogni grande scrittore dice ciò che non si vede nascosto da ciò che si vede, e mette in discussione il concetto di realtà. La letteratura è romantica, e sovverte il mondo, perché la sua vocazione è spargere il dubbio, esaltare i “mondi possibili”, che non sono più soltanto gli enunciati controfattuali nella logica modale: sono gli universi della narrativa, ma anche le utopie e i progetti di vita.
   Leggere oggi Philip Dick è un’esperienza duplice. Da una parte sembra un documentario, perché molti suoi incubi sono diventati realtà, dalla dittatura dei pubblicitari alla manipolazione delle menti. Dall’altra, come la migliore letteratura, continua a prestarci uno sguardo lucido e fraterno non solo per vedere il mondo e leggere la Storia, ma per resistere e trovare consolazione. La sua influenza è immensa. La trilogia di Matrix non sarebbe esistita senza di lui. Non solo per la rappresentazione della vita finta, il simulacro iperreale alla Truman Show o l’allucinazione collettiva, ma per cose più sottili, come la figura dell’”Oracolo”, sorta di divinità del Bene, incarnata nel film da una gentile signora grassa di colore che offre biscotti appena sfornati all’eroe che ne deve ricevere l’iniziazione: puro Philip Dick.
   Ho provato molte volte a definire lo speciale pathos che si prova nel leggerlo: credo che stia nel mostrare che la più alta trascendenza si trova nel massimo dell’immanente, e che le rivelazioni mistiche proliferano nella “banalità” quotidiana; così come la disperazione descritta nei suoi romanzi e racconti sprigiona in realtà un’immensa speranza. E’ nei suoi personaggi emarginati e santi. Come Stephen King dopo di lui, gli eroi di Dick sono sempre in qualche modo dei disadattati, oppure dei bambini, gli unici capaci di sconfiggere il Male.
   Quanto alla sua umanità, prima che diventasse un maestro della controcultura in California, si legga la folgorante rievocazione della sua vita scritta, per introdurre una raccolta di racconti, due anni prima della morte a 50 anni. Mentre di giorno si serviva di carne di cavallo alla macelleria Lucky Dog, spiega, la notte scriveva romanzi di fantascienza per articolare meglio i propri dubbi e paure. Naturalmente il macellaio era ignaro che quella carne di cavallo, “ad esclusivo consumo animale”, la mangiassero Philip e la sua compagna, e mai lui l’avrebbe confessato, per paura di incorrere in una punizione. A parte l’estrema povertà, scrive, “ridotto all’osso il problema è questo: ho paura dell’autorità, ma allo stesso tempo sono pieno di risentimento, per l’autorità e per la mia paura... Così mi ribello. Scrivere fantascienza è un modo per ribellarsi (...), la fantascienza è una forma d’arte ribelle, e ha bisogno di scrittori con cattive inclinazioni, come quella di chiedere sempre Perché?, o Come mai?, o Chi l’ha detto? Questo atteggiamento è sublimato in alcuni temi tipici delle mie storie, come: L’universo è qualcosa di reale?, oppure: Siamo davvero uomini, o solo macchine?”
   Oppure prendete questo altro avvio di romanzo ai trecento all’ora, eppure così pervaso di calma: “L’esaurimento nervoso di Horselover Fat cominciò il giorno in cui ricevette la telefonata di Gloria, con cui gli chiedeva se avesse del Nembutal. Lui le domandò perché lo volesse, e lei rispose che aveva intenzione di uccidersi.” E’ Valis, romanzo teologico ma anche autobiografico. Mentre nel precedente La trasmigrazione di Thimoty Archer appare un commovente Alan Watts (colui che diffuse lo Zen negli anni ’60) elargire perle di saggezza nella sua barca ormeggiata al molo di San Francisco, augurando agli squattrinati discepoli di essere venuti non per ascoltarlo, ma per il panino che avrebbero ricevuto alla fine.
   Philip Dick era anche un divoratore di libri, un coltissimo e onnivoro autodidatta, e questo è un bello spunto per un Salone del Libro. La sua immaginazione aveva a che fare con quel “moderno” immaginario scaturito dal sapere che il filosofo Michel Foucault, in un saggio su La tentazione di Sant’Antonio di Gustave Flaubert, definisce “fantastico da biblioteca”. Così come il libro di Flaubert era una fantasmagoria di personaggi deliranti, ognuno portatore di teorie ed eresie cristiane, paleo-cristiane o precristiane, i romanzi di Philip Dick attingono a un repertorio vastissimo che va dai Vangeli Gnostici di Nag Hammadi ai manoscritti di Qumran, dai Sufi al Tao, da Eraclito allo Zen, da Basilide all’I Ching. Vale per Dick quello che Foucault scrisse per Flaubert: “Per sognare, non si devono chiudere gli occhi, si deve leggere. La vera immagine è conoscenza”.
   Sappiate che Philip Dick è perfino risorto: non so quante volte, ma una è documentata: per combattere e vincere l’ultima battaglia contro l’odiato Richard Nixon, simbolo del Male, nel romanzo di Michael Bishop, L’Alternativa, dove il “fantasma” di Dick sopravvive a forza di caffè bollente.
   Ok, buona conversazione. Vorrei tanto ordinare un caffè anch’io.