4/30/2011

Scrittori che hanno l'età, scrittori che non hanno l'età...

   Prima dell’adunata di massa di testimoni alla beatificazione di papa Woytila (quasi un replay dei suoi funerali), c’è stata a Roma un’adunata di nicchia, quella degli scrittori “Trenta-Quarantenni” (autodefinitisi “TQ”). Qui non si è trattato solo di testimoniare di esserci, ma di fare dell’attestazione di sé una rivendicazione. Di che cosa? A dar retta ai resumés giornalistici, di (più) potere e visibilità (anche se certi nomi di scrittori TQ sono così inflazionati dai media da sembrare novantenni). L’adunata dei TQ mi turba non perché ne sia anagraficamente escluso (ho 51 anni, 3 in più di D. Foster Wallace e 6 in meno di Roberto Bolano, autori citatissimi tra i TQ, ma che non sarebbero stati invitati); mi imbarazzerebbe ugualmente un’assemblea di QC (“Quaranta-Cinquantenni), di CS, e così via. L’anagrafe degli scrittori non definisce niente, e anche in quella dei precari sarei cauto: nulla di più tragico e commovente dei disoccupati cinquantenni descritti nel film I lunedì al sole. Ciò che mi turba è la sicumera nell’avanzare diritti economico-istituzionali, il concepire l’atto di scrivere non come anarchico e conflittuale, irriducibile al potere, ma organico ad esso. E’ infine un gesto che si aggiunge, mi pare, ad arroccamenti identitari di cui il Paese è pervaso, da quello generazionale dei politici rottamatori (che ricordano simbolicamente Pietro Maso, colui che massacrò i genitori non perché avesse valori diversi, ma per prendere il loro posto più in fretta, comprese le loro carte di credito); a quello dei leghisti che arrivano a proclamarsi Celti per non pagare le tasse allo Stato. Oltre l’intrinseca violenza, le spinte identitarie hanno in comune l’oscuramento delle differenze e dei valori reali, e la nebulosità dei propri criteri - l’età non è meno franosa del suolo o del sangue. Non è il qui e ora (geografico, storico) che abbiamo in comune?
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 1 maggio)

Siamo tutti testimoni (rewind)

Propongo una mia riflessione sui funerali di papa Woytila uscita su l'Unità dell'11 aprile 2005:  la volontà di essere testimoni alla sua beatificazione è un replay, sul piano mediatico e del pellegrinaggio, ovvero la volontà di "essere testimoni". Per questo ripropongo intergralmente quell'articolo senza toccare una virgola.
http://www.beppesebaste.com/articoli/tutti_testimoni.html

Siamo tutti testimoni


   La badante polacca di una mia amica è tornata due volte in piazza san Pietro, l’ultima per assistere ai funerali del papa. “Devo esserci”, ha detto, “devo essere presente, testimone” (e si noti che la sua risposta echeggia gran parte di quelle dei pellegrini intervistati). L’amica pensava invece che essere lì, dentro l’evento, facesse perdere di vista l’insieme, e ha preferito guardarlo alla televisione. Io, che non sono andato a San Pietro e non ho guardato la televisione, nondimeno mi sento testimone della storicità di quell’evento - e non solo perché era impossibile sfuggire alla saturazione mediatica e al potere di irradiamento della “morte del Papa”. Non so se esiste una graduatoria dei gradi di testimonianza, ma il fenomeno del pellegrinaggio a San Pietro, più sottile e complesso di quanto sia apparso, esprime qualcosa di nuovo non solo rispetto alla società dello spettacolo e alla televisizzazione della realtà, ma sulla nozione stessa di testimone.
   L’etimologia della parola (testis, superstes, cioè superstite), ci insegna che testimoniare è facoltà data dalla superstitio (superstizione, "essere superstiti"), sorta di “dono della presenza”, quasi una divinazione, ossia la possibilità di assistere ad eventi lontani come se avvenissero davanti ai nostri occhi. La possibilità di testimoniare non riguarda quindi solo i testimoni oculari, quelli che sono (stati) presenti lì, in quel momento; ma anche chi, da un evento, viene coinvolto a distanza, nello spazio o nel tempo. L’antica superstitio, senza il significato negativo assunto in seguito, sembra designare allora la logica e lo spazio della comunicazione nell’era della globalizzazione mediatica: essere tutti testimoni dello stesso evento; essere testimoni di tutti gli eventi, indistintamente. La prima modalità ricorda lo spot della comunicazione a distanza realizzato dalla Telecom (pubblicità della pubblicità), dove un Gandhi-Grande Fratello parla in ogni angolo della Terra – ciò che poi è accaduto a papa Wojtila col suo uso sapiente delle Tv. La seconda modalità corrisponde invece al corollario primo della mondializzazione: se non esiste più un centro del mondo, e ogni punto può fungere da centro, non esiste neppure una centralità dell’evento, né una gerarchia che ordini gli avvenimenti. Così, senza che io lo abbia mai visto, sono costretto a sapere chi sia “Taricone”, e nell’ultimo romanzo di Jonathan Coe (Circolo chiuso, Feltrinelli) si descrive l’imbarazzante scena di una frotta di fotografi che ignora un genetista in odore di Nobel, paladino dell’umanità, per riconcorrere una giovane coppia sospettava di avere avuto rapporti sessuali in un reality show televisivo.
   Ma c’è un altro corollario non meno importante. Nel testimoniare del mondo e ciò che accade, nessun criterio è decisivo su cosa sia opportuno testimoniare, né dove occorre arrestarsi. La definizione tecnica di testimonianza, riportata dal filosofo Paul Ricoeur nei suoi studi su La memoria, la storia, l’oblio, è: “un racconto autobiografico certificato di un avvenimento passato, sia che venga effettuato in circostanze informali che formali”. Testimoniare consiste nell’estrarre da un flusso di eventi una sequenza significante. Ma significante per chi? Tutto rientra virtualmente nella testimonianza, anche la storia del proprio sguardo. E’ quanto esemplifica il famoso giochino di società: “cosa stavate facendo quando sono crollate le Torri Gemelle?” (o “dove eravate quando hanno rapito Aldo Moro?”). La risposta rientra solitamente nelle testimonianze dell’evento come parte integrante. E sempre di più la testimonianza rischia di assomigliare alla mappa dell’impero del racconto di Borges, così particolareggiata da essere estesa quanto il territorio stesso. Nel suo libro Crolli, dedicato alle “ordinarie” catastrofi della nostra epoca, Marco Belpoliti racconta le difficoltà in cui è incorso Art Spiegelman nella raffigurazione a fumetti dell’11 settembre, e analoghe impasse in narratori come De Lillo e Jonathan Franzen.
   Dunque la testimonianza è al tempo stesso un’asserzione e un punto di vista soggettivo, ha una pretesa di obiettività ma esiste solo in quanto autobiografia o confessione. Ancora più paradossale è il rapporto tra il racconto dell’avvenimento e l’avvenimento stesso. Al di là della sottomissione alla prima persona e della sua pretesa di verità, è il testimone a creare l’evento di cui si dice testimone. Si pensi a San Paolo, archetipo del testimone. E’ per avere predicato la sua testimonianza a un evento cui non ha mai assistito, a differenza degli apostoli – la Resurrezione di Cristo – in cui portava a garante della propria veridicità soltanto se stesso e la propria convinzione, che San Paolo ha fondato l’universalismo del cattolicesimo (parole che sono in realtà sinonimi). Una testimonianza di fede non ha neppure bisogno, a rigore, del prodursi di un evento. A quale istanza obbedisce allora il pellegrinaggio di chi ha voluto essere presente al capezzale del Papa?
   Mi si permetta un’ultima considerazione. La questione della testimonianza sembrava definitivamente collocata in relazione alla memoria della Shoah, e all’istituzione degli archivi che temperassero le pretese totalizzanti e asettiche degli studi storici. In ambito filosofico, la riflessione sul concetto di testimonianza, a partire dagli scritti di Primo Levi, ha mostrato come in essa agisca un’incolmabile lacuna: chi testimonia di Auschwitz – i salvati - ha soprattutto testimoniato per coloro che non hanno potuto farlo – i sommersi, “testimoni integrali” ma ridotti al silenzio. Il filosofo Giorgio Agamben (Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri) ha indicato, a partire da questo scarto, un duplice processo insito nella testimonianza, ossia una soggettivazione e insieme una de-soggettivazione, che apparenta il dramma della testimonianza di Primo Levi e di altri sopravvissuti ad atti di parola assai lontani, come la poesia, la mistica (la profezia) e altri modi del linguaggio in prima persona. Ma, anche nell’ambito della Shoah, come ha mostrato il bellissimo, monumentale film omonimo di Claude Lanzmann, l’essere testimoni risulta, come l’antico “dono della presenza”, una facoltà che si trasmette. C’è un divenire testimoni che coincide con la catena epica del narrare: non si è più gli stessi dopo essere usciti dal film di Lanzmann; si è, a tutti gli effetti, testimoni, ostaggi dell’evento cui si è assistito, responsabili di raccontarlo a nostra volta. Ora, il ritorno oggi prepotente del bisogno di testimoniare di persona, da cosa dipende se lo spazio della testimonianza risulta del tutto saturo dai grandi racconti televisivi, se tutti siamo al corrente di tutto in presa diretta? Cosa indicano insomma i pellegrini di San Pietro?
   Quel desiderio di presenza, di essere testimoni, rileva del desiderio di riscattare la propria vita individuale dai grandi racconti che sommergono le nostre vite ordinarie, di strappare uno spazio personale di racconto al fluire passivo e omogeneo delle nostre vite di spettatori, così povere di esperienze. L’ultimo paradosso della testimonianza è dunque il seguente: è per sottrarsi alla testimonianza unica, all’iperrealtà dell’omologazione televisiva, che migliaia di “testimoni” volontari si sono messi in moto e hanno fatto l’evento, dando spettacolo loro malgrado. Semplicemente per esserci, fisicamente, live, in prima persona. Perché saturi dello spettacolo della “vita in diretta” alla Tv, dell’omogeneizzazione del mondo quotidianamente offerta, e anche più volte al giorno, che annulla e dissolve ogni memoria nell’eterno presente che avviene sotto i nostri occhi. E’ per protestare sommessamente a questa perdita che una massa di individui ha scelto di ricorrere alla propria memoria personale, diventando testimoni per eccellenza: coloro che trasmettono narrativamente un avvenimento, in una catena di testimonianze.
   Se testimoniare significa creare l’evento, l’analisi delle testimonianze e della loro narratività è la chiave per comprendere la logica di ciò che accade, una logica suscettibile di scavare e resistere anche alla globalizzazione: raccontare storie. Essere testimoni, raccontare gli eventi, significa praticare la “politica”, l’unica divinazione possibile, quella che già nel Settecento si chiamava “divinazione del presente”.

(uscito su l’Unità dell’ 11 aprile 2005)

4/28/2011

Primo maggio, festa contro il neg-ozio

   Che esistano sacralità laiche lo mostra già il silenzio che osserviamo al cospetto di realtà più grandi del nostro ego, fossero solo musei o biblioteche. La festa del Primo Maggio, vecchia di 150 anni, è una di esse, e prevede l’ovvia astensione dal lavoro. L’idea tanto più sciagurata quanto in apparenza “leggera” di tenere aperti i negozi in deroga alla festa (e far lavorare quindi i dipendenti, spesso precari, degli ipermercati), non ricorda solo l’archetipo della profanazione dei “mercanti nel tempio”, ma anche cosa unisca i tagli alla cultura e all’educazione, a tutto ciò che è “inutile” perché non comporta utili immediati, con l’infelicità cieca di un Paese i cui cittadini siano trasformati in consumatori e clienti: tristezza delle domeniche sui parcheggi asfaltati degli outlet. E non siamo più solo noi sfaccendati (da Petrarca in poi) a perorare il valore dell’ozio contro il neg-ozio; sono i maggiori economisti a usare tra gli indicatori di benessere di un Paese la quantità di tempo libero dei cittadini.

   Su queste pagine ho tenuto per anni una rubrica, “I lunedì al sole”, omaggio al film spagnolo Las lunes al sol. Racconta le giornate di neo-disoccupati che scoprono l’ozio forzato, ma anche la capacità di immaginare. Al sole anche di lunedì, magari su una panchina, la loro disperazione diventa tempo e spazio liberato, porto franco della verità e del linguaggio, dove ci si può confessare che “tutto quello che ci raccontavano del comunismo era una bugia, ma la cosa peggiore è che tutto quello che ci raccontavano del capitalismo era vero”. Il film dice il bisogno vitale di affermare idee, sogni, progetti di felicità non negoziabile, non in vendita. Riscrivere la favola della cicala e la formica. Chi ha più coraggio? Sono pari: è nella loro convivenza il segreto della buona politica. Il pane e le rose, si diceva una volta. Las lunes al sol.

(corsivo per l'Unità del 28 aprile 2011)

4/23/2011

Sull'eredità della Liberazione

   Ieri ho visto due film, Habemus papam di Nanni Moretti, La fine è l’inizio di Jo Baier, dal libro-conversazione di Tiziano Terzani col figlio Folco. Rimpiango non averli visti prima di recensire il libro di Massimo Recalcati Cosa resta del padre (v. l’Unità del 17/4) - elogio della vulnerabilità dei padri e della loro trasmissione. Nel film di Moretti, retto dallo splendido Michel Piccoli, dispiace che la rinuncia del personaggio a essere Papa elimini quei dubbi e quella fragilità che, mantenuti, avrebbero segnato una svolta radicale nel suo ruolo, proprio in forza della sua debolezza. Il secondo film è la storia di un padre che poco prima di morire trasmette al figlio la propria biografia, miscela di errori, erranze, illuminazioni, lascito soprattutto di un senso narrativo dell’esistenza che non cessa con la morte. Entrambi i film toccano il senso religioso e del sacro. In uno quasi suo malgrado (l’ingombrante narcisismo laico di Moretti), nelle scene della riscoperta del mondo da parte del papa-Michel Piccoli, il cui sguardo ricorda Il cielo sopra Berlino di Wenders; esplicitato e consapevole nell’altro, come equivalenza tra nascere e morire. Oggi è Pasqua, e a questo volevo arrivare. Legata a quella di Pesach – la Pasqua ebraica, festa di Liberazione degli Ebrei dall’Egitto – la data della Pasqua cristiana di Risurrezione avviene ogni anno la domenica successiva al plenilunio dopo l’equinozio di primavera. Quest’anno si affianca a una festa laica (ma ha senso questa distinzione?), la Liberazione dal nazifascismo del 25 aprile. Ho ereditato questa data da mio padre, modestissimo ex partigiano: parlarne esula dallo spazio di questa rubrica, ma è sempre storia di nascere e morire, di trasmissione di padri (e di madri), di resurrezione della memoria come se fosse carne, carne come se fosse Verbo. Testimonianza. Buona Pasqua, buona Liberazione.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità del 24 aprile)

4/17/2011

"Cosa resta del padre" di Massimo Recalcati. Sul fascismo del "papi" come psicosi di massa

   E’ ormai sotto gli occhi di tutti come l’educazione sia il tema oggi più urgentemente politico, così come l’abusata questione della famiglia, o meglio la questione dell’eredità e della trasmissione di un “ordine simbolico” della madre e del padre nella formazione dell’individuo. Se sull’“ordine simbolico della madre” esiste una letteratura intensa prodotta da anni di pensiero femminile (penso al gruppo Diotima e a Luisa Muraro) la questione dell’imago paterna “nell’epoca dell’evaporazione del padre” è oggi riassunta con chiarezza dallo psicanalista Massimo Recalcati in un libro di cui consiglio a chiunque la lettura: Cosa resta del padre? È un saggio di psicanalisi impregnato di filosofia (l’etica dell’alterità di Emmanuel Levinas è sottesa lungo tutto il discorso), fortemente influenzato dal pensiero clinico di Jacques Lacan (che di Recalcati è stato maestro); ma per mostrarne subito la politicità attuale e stringente riporto quasi per intero la lunga nota a pagina 14:
   “L’espressione ‘papi’, recentemente alla ribalta della cronaca politica italiana a causa di innumerevoli giovani (papi-girls) che così si rivolgono al loro seduttore, mette in evidenza la degenerazione ipermoderna della Legge simbolica del padre. La figura del padre ridotta a ‘papi’, anziché sostenere il valore virtuoso del limite, diviene ciò che autorizza alla sua più totale dissoluzione. Il denaro elargito non come riconoscimento di un lavoro, ma come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di se stessi rapidamente, senza rinuncia né fatica, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili come strumenti di godimento, il disprezzo per la verità, l’opposizione ostentata nei confronti delle istituzioni e della legge, (...) il rifiuto di ogni limite in nome di una libertà senza vincoli, l’assenza di pudore e di senso di colpa costituiscono alcuni tratti del ribaltamento della funzione simbolica del padre che trovano una loro sintesi impressionante nella figura di Silvio Berlusconi. Il passaggio dal padre della legge simbolica al ‘papi’ del godimento non definisce soltanto una metamorfosi dello statuto profondo del potere (dal regime edipico della democrazia al sultanato postideologico di tipo perverso), ma rivela anche la possibilità che ciò che resta del padre nell’epoca della sua evaporazione sia solo una versione cinico-materialistica del godimento”.
   “Sì, il libro è fortemente politico – mi dice Massimo Recalcati - perché nella dimensione contemporanea prevale una incestuosità diffusa, di cui una manifestazione è che le istituzioni diventano proprietà delle persone come corpi, in un processo di proprietà o appropriazione senza responsabilità, come la legge ad personam. La vocazione della paternità implica invece una responsabilità senza appropriazione, senza proprietà. E’ questa la cifra politica del mio studio”.
   Se la figura del padre si è vaporizzata, suggerisce Recalcati, possiamo però pensare al padre come “resto”, non un Ideale ma la singolarità incarnata di una vita che ci precede, testimonianza etica di una possibilità di vivere, fallire, perdersi, riorientarsi e immaginare. In questo senso il libro di Recalcati può affiancarsi a un altro piccolo classico contemporaneo, L’uomo flessibile di Richard Sennett, che descrive il mutamento antropologico dietro la retorica della “precarietà”: la perdita di un senso della durata che rende incomprensibili parole come dedizione, impegno, relazione, perdita di un senso narrativo dell’esistenza, quindi della possibilità di immaginare e progettare la propria vita, del cui progetto è parte integrante e necessaria anche l’esperienza, oserei dire l’epica, del fallire. “Elogio del fallimento” è il titolo di un bellissimo paragrafo del saggio di Recalcati, dove si legge che “la psicoanalisi non tesse l’elogio della prestazione”, “è antagonista al narcisismo dell'apparizione, a quel successo dell’io che abbaglia e cattura i giovani di oggi”, ma “punta piuttosto a scorticare l'involucro narcisistico dell'immagine per porre il soggetto di fronte alla verità del proprio desiderio”: “il fallimento è uno zoppicamento salutare dell’efficienza della prestazione”. Recalcati illumina quindi una singolare convergenza tra la l’insegnamento clinico di Lacan e la lungimirante critica alla barbarie consumista dell’eretico Pier Paolo Pasolini: l’immaginazione al potere dello slogan del ’68 si è ahimè realizzata, ma in senso opposto (e perverso) a quello auspicato.
   Con la sparizione del padre, ovvero dell’esperienza del limite e della conflittualità, del No che orienta e stimola l’affacciarsi nel giovane di un’identità desiderante, di una trasgressione che nasce dal desiderio di infrangere la Legge rappresentata dalla figura paterna, anche il godimento, osservava Lacan, diventa “smarrito”. Con parole nostre: l’innesto del feticismo della merce preconizzato da Marx nel “capitalismo culturale” (quello dell’intrattenimento) descritto da James Rifkin, fa del Potere una centrale di spaccio istituzionalizzato di droga, una fabbrica di sogni che produce incubi. Lost in the supermarket, cantava Joe Strummer (i Clash), perso nel supermercato, luogo simbolico e globale della trasformazione dei sudditi in consumatori, in una spirale di dannazione fatta di facile godimento e libertà illimitata fino all’intossicazione, non contrastata da nessun Padre ma anzi proposta da chi ne occupa il suo spazio vacante, il "papi”. Quella che Lacan definiva “l’astuzia fondamentale del discorso del capitalista” consiste, spiega Recalcati, nell’intrecciare la dimensione illusoria e salvifica dell’oggetto-merce o idolo con la vacuità di un godimento. La schiavitù del soggetto all’oggetto (anche sessuale) è la tragica realtà del coincidere oggi in Italia di potere economico e potere politico in un nuovo fascismo pubblicitario.
   La psicanalisi, ci insegna Recalcati, è dunque chiave e strumento per decostruire la libertà immaginaria della nuova alienazione. “Lacan è stato un grande maestro perché la sua virtù più profonda era di aprire interrogativi invece che fornire risposte. La sua forza non era solo retorica ma capace di incarnarsi in una parola viva, centrata non sul libresco e l’accademico, ma sul desiderio. Sono nato come filosofo - mi dice – sono stato fabbricato come professore di filosofia, poi sono inciampato nei miei sintomi e sono diventato psicanalista... La differenza è che la filosofia si preoccupa della verità universale, trascendentale, la psicanalisi della verità più infima e scabrosa, quella che ci risponde nel nostro peggio” (anche il berlusconi che è dentro di noi).
(articolo uscito su l'Unità di domenica 17 aprile 2011)

4/12/2011

Panchine (benches) al Public Design Festival di Milano



raumlabor presents the CROSSING PATH SUPER BENCH at the Public Design Festival in Milano
12.4 - 17.4 2011 - Cavalcavia E. Bussa - http://www.publicdesignfestival.org/
http://www.esterni.org/
organized by Esterni
supported by the Goethe Institut Milano
CROSSING PATH SUPER BENCH
OPENING: Tuesday 12th April 2011, h. 18:00 Milan, Cavalcavia E. Bussa
Lecture by BEPPE SEBASTE: Thursday 14. at 18:00

The author and journalist Beppe Sebaste will talk about benches and read from his book:
"Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne"
(Benches. How to ecape from the world without to escape)
2009 Ed. Laterza, ISBN: 9788842086338
"...... for me it was interesting to observe how a poetical object is transformed into a social object, or even a place of conflicts and that today (the bench) became a symbol of cultural resistance, of the liberation of space and time, especially in a public sense ..."

4/10/2011

Precari di ieri e di oggi

   Abito vicino a una mensa dei poveri, dove la tragedia umana sono le vite già rotte a 50anni di chi fa la fila per entrare. «Il nostro tempo è adesso. La vita non aspetta», era lo slogan della manifestazione di ieri contro la precarietà, di cui propongo alcune varianti: il tempo non aspetta la vita è adesso; il nostro adesso è vita non aspetta tempo. La vera precarietà non è la perdita del senso (narrativo) dell'esistenza, la frantumazione dell'esperienza che rende impossibili la dedizione, l'impegno, una relazione duratura, di cui il lavoro è solo punta dell'iceberg? Mettiamo che l'Italia, liberata dall'attuale governo fascistissimo, raggiunga i civili standard europei del salario minimo garantito per i giovani disoccupati. Va bene così? Nella rappresentazione della precarietà manca l'aspetto più profondo: l'incapacità di immaginare la propria vita. Negli anni '70 i ragazzi non erano né più garantiti né più ricchi, se non di sogni. Andare all'estero, oggi additato come ripiego, era un'ambizione difficile e desiderata. Prima ancora Luciano Bianciardi, l'unico scrittore beat italiano, descriveva la «società del benessere» inizio anni '60: «La gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare», e che per di più «si sentono privilegiati (…). Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera per comprarsi quello che credono di desiderare...». Fu tra i primi precari intellettuali, i collaboratori esterni, lavoratori «cognitivi» occasionali, terziari, anzi «quartari», scriveva, «non strumenti di produzione, nemmeno cinghie di trasmissione... lubrificante, vaselina pura».
   Un'occasione per confrontare precarietà di ieri e di oggi è il libro (lo si presenta a Roma, Auditorium ore 18) Per amore o per odio (Manni editore) di Maria Jatosti, comunista non pentita e innamorata della vita, l'Anna dell'indimenticabile La vita agra di Bianciardi.


(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità del 10/4/2011)

4/03/2011

Lo Zen e l'arte di pulire i pennelli

   L’ultima volta scrivevo a proposito della guerra che “un’altra politica è possibile”. Vorrei che queste parole fossero il filo delle prossime rubriche: pensare una ricostruzione dopo la denuncia, dopo la descrizione delle macerie dei legami e dei valori. Tra le mie piccole grandi esperienze di questi giorni c’è quella di un manufatto, la Rivista d’Artista (http://www.eosedizioni.it/) composta e fabbricata pazientemente a Roma da Piero Varroni, a cui ho avuto l’onore di essere invitato con un testo a fianco di artisti come Elmerindo Fiore, Andrea Aquilanti, Claudio Parmiggiani ecc. Ma l’evento è la rivista nel suo insieme: esce una volta l’anno, in un centinaio di copie, e la sua bellezza non occulta la manualità, il lento processo produttivo dietro l’immagine del prodotto finito, la materia di cui è fatta e il lavoro, tutt’uno col piacere, che la costituisce: agli antipodi delle merci fatte in fretta e per un consumo il più possibile veloce, per una fruizione senza godimento simile al consumo di droghe (e l’intrattenimento, che è il prodotto venduto da chi con esso è arrivato al governo, è del tutto equiparabile allo spaccio di droga). E’ un’utopia, nella nostra civiltà del neg-ozio, che innesta Marx tramite l’estetica alle pratiche spirituali, come l’insegnamento del maestro zen verso chi si stupisce che perda tempo a pulire i pennelli dopo averli usati, invece di comprarne di nuovi: il confronto non è tra il prezzo dei pennelli nuovi e quello, sul mercato, del tempo di lavoro, dice, ma con l’energia che ci vuole a fare i pennelli, e con quella ancora più grande per distruggerli e disperderli nell’ambiente in modo accettabile; ma più ancora è con la consapevolezza etica, per se stessi e con se stessi, del semplicemente lavare il pennello, in un’identificazione perfetta con ciò che si fa. Un’altra economia, come un’altra politica e bellezza, è possibile.

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità del 3 aprile 2011)