4/17/2011

"Cosa resta del padre" di Massimo Recalcati. Sul fascismo del "papi" come psicosi di massa

   E’ ormai sotto gli occhi di tutti come l’educazione sia il tema oggi più urgentemente politico, così come l’abusata questione della famiglia, o meglio la questione dell’eredità e della trasmissione di un “ordine simbolico” della madre e del padre nella formazione dell’individuo. Se sull’“ordine simbolico della madre” esiste una letteratura intensa prodotta da anni di pensiero femminile (penso al gruppo Diotima e a Luisa Muraro) la questione dell’imago paterna “nell’epoca dell’evaporazione del padre” è oggi riassunta con chiarezza dallo psicanalista Massimo Recalcati in un libro di cui consiglio a chiunque la lettura: Cosa resta del padre? È un saggio di psicanalisi impregnato di filosofia (l’etica dell’alterità di Emmanuel Levinas è sottesa lungo tutto il discorso), fortemente influenzato dal pensiero clinico di Jacques Lacan (che di Recalcati è stato maestro); ma per mostrarne subito la politicità attuale e stringente riporto quasi per intero la lunga nota a pagina 14:
   “L’espressione ‘papi’, recentemente alla ribalta della cronaca politica italiana a causa di innumerevoli giovani (papi-girls) che così si rivolgono al loro seduttore, mette in evidenza la degenerazione ipermoderna della Legge simbolica del padre. La figura del padre ridotta a ‘papi’, anziché sostenere il valore virtuoso del limite, diviene ciò che autorizza alla sua più totale dissoluzione. Il denaro elargito non come riconoscimento di un lavoro, ma come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di se stessi rapidamente, senza rinuncia né fatica, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili come strumenti di godimento, il disprezzo per la verità, l’opposizione ostentata nei confronti delle istituzioni e della legge, (...) il rifiuto di ogni limite in nome di una libertà senza vincoli, l’assenza di pudore e di senso di colpa costituiscono alcuni tratti del ribaltamento della funzione simbolica del padre che trovano una loro sintesi impressionante nella figura di Silvio Berlusconi. Il passaggio dal padre della legge simbolica al ‘papi’ del godimento non definisce soltanto una metamorfosi dello statuto profondo del potere (dal regime edipico della democrazia al sultanato postideologico di tipo perverso), ma rivela anche la possibilità che ciò che resta del padre nell’epoca della sua evaporazione sia solo una versione cinico-materialistica del godimento”.
   “Sì, il libro è fortemente politico – mi dice Massimo Recalcati - perché nella dimensione contemporanea prevale una incestuosità diffusa, di cui una manifestazione è che le istituzioni diventano proprietà delle persone come corpi, in un processo di proprietà o appropriazione senza responsabilità, come la legge ad personam. La vocazione della paternità implica invece una responsabilità senza appropriazione, senza proprietà. E’ questa la cifra politica del mio studio”.
   Se la figura del padre si è vaporizzata, suggerisce Recalcati, possiamo però pensare al padre come “resto”, non un Ideale ma la singolarità incarnata di una vita che ci precede, testimonianza etica di una possibilità di vivere, fallire, perdersi, riorientarsi e immaginare. In questo senso il libro di Recalcati può affiancarsi a un altro piccolo classico contemporaneo, L’uomo flessibile di Richard Sennett, che descrive il mutamento antropologico dietro la retorica della “precarietà”: la perdita di un senso della durata che rende incomprensibili parole come dedizione, impegno, relazione, perdita di un senso narrativo dell’esistenza, quindi della possibilità di immaginare e progettare la propria vita, del cui progetto è parte integrante e necessaria anche l’esperienza, oserei dire l’epica, del fallire. “Elogio del fallimento” è il titolo di un bellissimo paragrafo del saggio di Recalcati, dove si legge che “la psicoanalisi non tesse l’elogio della prestazione”, “è antagonista al narcisismo dell'apparizione, a quel successo dell’io che abbaglia e cattura i giovani di oggi”, ma “punta piuttosto a scorticare l'involucro narcisistico dell'immagine per porre il soggetto di fronte alla verità del proprio desiderio”: “il fallimento è uno zoppicamento salutare dell’efficienza della prestazione”. Recalcati illumina quindi una singolare convergenza tra la l’insegnamento clinico di Lacan e la lungimirante critica alla barbarie consumista dell’eretico Pier Paolo Pasolini: l’immaginazione al potere dello slogan del ’68 si è ahimè realizzata, ma in senso opposto (e perverso) a quello auspicato.
   Con la sparizione del padre, ovvero dell’esperienza del limite e della conflittualità, del No che orienta e stimola l’affacciarsi nel giovane di un’identità desiderante, di una trasgressione che nasce dal desiderio di infrangere la Legge rappresentata dalla figura paterna, anche il godimento, osservava Lacan, diventa “smarrito”. Con parole nostre: l’innesto del feticismo della merce preconizzato da Marx nel “capitalismo culturale” (quello dell’intrattenimento) descritto da James Rifkin, fa del Potere una centrale di spaccio istituzionalizzato di droga, una fabbrica di sogni che produce incubi. Lost in the supermarket, cantava Joe Strummer (i Clash), perso nel supermercato, luogo simbolico e globale della trasformazione dei sudditi in consumatori, in una spirale di dannazione fatta di facile godimento e libertà illimitata fino all’intossicazione, non contrastata da nessun Padre ma anzi proposta da chi ne occupa il suo spazio vacante, il "papi”. Quella che Lacan definiva “l’astuzia fondamentale del discorso del capitalista” consiste, spiega Recalcati, nell’intrecciare la dimensione illusoria e salvifica dell’oggetto-merce o idolo con la vacuità di un godimento. La schiavitù del soggetto all’oggetto (anche sessuale) è la tragica realtà del coincidere oggi in Italia di potere economico e potere politico in un nuovo fascismo pubblicitario.
   La psicanalisi, ci insegna Recalcati, è dunque chiave e strumento per decostruire la libertà immaginaria della nuova alienazione. “Lacan è stato un grande maestro perché la sua virtù più profonda era di aprire interrogativi invece che fornire risposte. La sua forza non era solo retorica ma capace di incarnarsi in una parola viva, centrata non sul libresco e l’accademico, ma sul desiderio. Sono nato come filosofo - mi dice – sono stato fabbricato come professore di filosofia, poi sono inciampato nei miei sintomi e sono diventato psicanalista... La differenza è che la filosofia si preoccupa della verità universale, trascendentale, la psicanalisi della verità più infima e scabrosa, quella che ci risponde nel nostro peggio” (anche il berlusconi che è dentro di noi).
(articolo uscito su l'Unità di domenica 17 aprile 2011)

5 commenti:

Rossland ha detto...

Bellissimo. Necessario (a me). Sto leggendo in ueste ore gli Scritti Corsari (mai letti prima).
Consideravo che delle due, l'una:
O lui li ha scritti in stato di trance ipnotica in cui aveva visioni dettagliate di come siamo oggi
O a essere morti siamo noi.
O forse solo imbalsamati in una replica infinita sempre della stessa tragica commedia.

Beppe Sebaste ha detto...

commento (il tuo) come al solito geniale.
grazie. un abbraccio... beppe

guido hauser ha detto...

Caro Beppe, il tuo articolo è molto bello. E certamente anche il libro di Recalcati lo è, come lo era il suo precedente "L'uomo senza inconscio", pubblicato sempre da Raffaello Cortina. Mi permetto allora di fare notare solo un dettaglio "tecnico", se così posso dire, un dettaglio che a mio avviso sbilancia però tutto l'impianto del ragionamento di Recalcati, almeno nella sua componente più politica. E cioè: "La psicanalisi è chiave e strumento per decostruire la libertà immaginaria della nuova alienazione". Sono d'accordo. Ma la psicanalisi è una pratica che coinvolge non solamente due individui in qualità di soggetti morali e filosofici, ma quegli stessi individui in quanto soggetti economici di una transazione codificata in ogni dettaglio. Al punto che sono previsti dei tariffari, delle cadenze e perfino delle scadenze; sebbene il tutto venga rivestito da un fine "galateo commerciale", se mi viene passata l'espressione. Un galateo che ad esempio non prevede che venga messo a tema – ossia discusso e contrattato - lo sforzo economico per sostenere l'analisi stessa, che così può essere stimato: due incontri settimanali di cinquanta minuti per ottanta euro a seduta, che sommati ci portano a un totale mensile di 640 euro. Bene, io ho un'amica laureata in lettere e che ha fatto un mucchio di corsi, di master, di qualsiasi cosa, un'amica che lavora in un'importante libreria romana. Dopo sei mesi di praticantato gratuito (li chiamano stage...) adesso l'hanno assunta per un part time di sei ore al giorno. Ora ho questa amica, è buffo a pensarci, o forse non è per nulla buffo, ma insomma, ognuno la veda come vuole, io ho questa amica che dopo aver lavorato gratis per un pezzo consistente della sua vita, adesso guadagna 600 euro al mese, e me lo comunica con grande soddisfazione. E' un lavoro, se non altro, ribatto io per non incrinare il suo entusiasmo. Se dunque la mia amica non mangiasse, non respirasse, non si comprasse il dentifricio gli assorbenti l'affitto i vestiti un po' di rossetto per quando la portano fuori a ballare, alla mia amica mancherebbero ancora 40 euro per poter entrare in psicanalisi. Non voglio fare un discorso querimonioso, attenzione. Intendo semplicemente rimarcare l'inefficienza "tecnica", appunto, come dicevo, della psicanalisi come strumento politico realmente affidabile. O per usare le tue parole, Beppe, come metodo decostruttivo delle dinamiche del potere. E ciò perché la psicanalisi è un'esperienza a disposizione solamente di quelle componenti umane, non chiamiamole classi perché in effetti classi non sono più, o ancora meglio di quei soggetti che in qualche modo beneficiano dello status quo attuale. O se vogliamo dirla a muso duro: i ricchi possono entrare in psicanalisi, i poveri, anche e soprattutto quelli di ritorno, come la mia amica e come me, si devono accontentare di questo lieve smarrimento tra le merci ammiccanti di un supermarket, la musica di Joe Strummer che li rintrona dalle cuffiette dell'Ipod. Eppure, ti assicuro, non esiste memoria più dolce di quella dei miei genitori che rientrano a casa con un elettrodomestico nuovo, primi anni sessanta o giù di lì. La decostruzione psicanalitica, se davvero fosse un fattore politico efficiente, si tradurrebbe in ogni caso nella decostruzione anche di se stessa e delle proprie radici prepolitiche, ma in realtà ben conficcate proprio nel politico e nell'economico. Ma il fatto che la psicanalisi ancora maturi i suoi prelibati frutti a un secolo dai suoi primi germogli, ci testimonia del contrario. E cioè che, come aveva intuito lo stesso Pasolini più volte chiamato in causa, esistono ragioni attuali che si trasformano in torti, se osservati in una prospettiva storica. Tanto che forse esiste una bellezza dei frigoriferi e degli scendiletto in ramarro sintetico sfuggita agli psicanalisti, ma non a chi chiama Papi un signore che gli potrebbe essere nonno. Anzi, nonnino...

Beppe Sebaste ha detto...

forse esiste una bellezza dei frigoriferi e degli scendiletto in ramarro sintetico sfuggita agli psicanalisti, ma non a chi chiama Papi un signore che gli potrebbe essere nonno"... Ecco, non credo. la bellezza dei frigoriferi di allora la percepiamo noi che amiamo l'inutile, presi tra cultrura e nostalgia. Forse il design di oggi lo perrcepiamo entrambi nella sua eventuale bellezza, ma è un altro discorso ancora... Comunque sia, dire "la psicanalisi" ha per me nell'articolo la stessa valenza che dire "la filosofia", ovvero un metodo, un sguardo, una prospettiva, o meglio un allagamento dei confini delle prospettive e dell sguardo, ecc., non un rapporto terapeutico (rispetto a cui comunque, ti correggo: si può e si deve negoziarne il costo, si può e si deve parlare di soldi, e già nella scelta dell'analista, con gli analisti che s'incontrano).

guido hauser ha detto...

Bebbe, d'accordo, sulle risonanze spirituali di certo modernariato - "le cose non sono le cose", titolava un bel libro di Paolo Nori - su quello posso convenire con te. In fondo le merci finiscono con l'impastarsi con gli sguardi che le accarezzano, e il gesto di chi successivamente si soffermi sulle superfici del mondo, la consistenza opaca ma radiante degli oggetti, come aveva intuito Proust e poi tradotto in metodo dello sguardo Roland Barthes, è un gesto essenzialmente morale. Ma credo che il tema originale del tuo intervento fosse un altro, e anche della mia risposta. Io lo riassumerei così: la psicanalisi può tradursi in pratica politica democratica? Personalmente, e come ho scritto, penso il contrario. E ciò sebbene riconosca il potenziale di emancipazione ancora una volta morale della relazione terapeutica, già che la morale moderna, come ha mostrato questa volta con parole definitive Max Weber, deve essere calibrata sugli effetti dei comportamenti e non sulle intenzioni sottostanti. La semplice volontà di fare il bene - e poi quale "bene"? anche questo non è scontato - la volontà è una cattiva consigliera quando invischiata dentro oscure trame del desiderio e degli affetti, che la psicanalisi può contribuire a rendere manifeste. In altre parole la psicanalisi sarebbe di estrema utilità per riconoscere il "Berlusconi in me", come lo chiamava Giorgio Gaber, intendendo quella soggettività spuria che ci abita come ospite clandestino impiantato dall'apparato spettacolare; che è poi “l’astuzia fondamentale del discorso del capitalista”, di cui parlava Lacan. Questo potenziale di emancipazione viene però vanificato da un posizionamento obiettivamente "di parte" della comunità psicanalitica, che come il movimento americano degli anni sessanta trascura interamente le premesse economiche del godimento, concentrandosi unicamente sulle sue forme, i suoi gesti manifesti e pubblici. In pratica i beatnik non si preoccupavano delle pratiche economiche attraverso cui le risorse affluivano - la cosiddetta "società affluente", che davano per scontata e perfino naturale - ma di come defluivano in scelte ludiche che contestavano, incriminando di tutti i mali del mondo il piccolo borghese del midwest con il suo zerbino in cui accampa la scritta welcome. Ecco Beppe, io trovo che la psicanalisi commetta lo stesso errore ottico di prospettiva, arrestandosi nell'anticamera dello psichico dove il godimento è già stato infettato dalle strutture simboliche su cui si autolegittima l'ordine economico, che mai viene messo in causa. Ma come potrebbe, ripeto, la psicanalisi destrutturare l'ordine implicito del discorso economico, quando proprio su quell'ordine fonda la sua possibilità di successo materiale? E su questo aspetto è utile essere molto chiari: per quanto negoziabile, il costo di un percorso terapeutico analitico è inaccessibile alla componente maggioritaria - insisto: maggioritaria - delle società in cui si è affermata. Se anche una seduta non costasse ottanta o cento euro ma, mettiamo, quaranta, tu credi davvero che io e la mia amica libraia potremmo permettercela? Sarebbero sempre 320 euro al mese. Troppi, davvero troppi per chi campa in una condizione di diffuso precariato esistenziale, dove con meno di mille euro mensili si devono quadrare tutti i conti. Ecco, è questa astuzia di fondo del discorso (non del capitalista, ma dell'analista) che vorrei ancora una volta sottolineare.