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Siamo tutti testimoni
La badante polacca di una mia amica è tornata due volte in piazza san Pietro, l’ultima per assistere ai funerali del papa. “Devo esserci”, ha detto, “devo essere presente, testimone” (e si noti che la sua risposta echeggia gran parte di quelle dei pellegrini intervistati). L’amica pensava invece che essere lì, dentro l’evento, facesse perdere di vista l’insieme, e ha preferito guardarlo alla televisione. Io, che non sono andato a San Pietro e non ho guardato la televisione, nondimeno mi sento testimone della storicità di quell’evento - e non solo perché era impossibile sfuggire alla saturazione mediatica e al potere di irradiamento della “morte del Papa”. Non so se esiste una graduatoria dei gradi di testimonianza, ma il fenomeno del pellegrinaggio a San Pietro, più sottile e complesso di quanto sia apparso, esprime qualcosa di nuovo non solo rispetto alla società dello spettacolo e alla televisizzazione della realtà, ma sulla nozione stessa di testimone.
L’etimologia della parola (testis, superstes, cioè superstite), ci insegna che testimoniare è facoltà data dalla superstitio (superstizione, "essere superstiti"), sorta di “dono della presenza”, quasi una divinazione, ossia la possibilità di assistere ad eventi lontani come se avvenissero davanti ai nostri occhi. La possibilità di testimoniare non riguarda quindi solo i testimoni oculari, quelli che sono (stati) presenti lì, in quel momento; ma anche chi, da un evento, viene coinvolto a distanza, nello spazio o nel tempo. L’antica superstitio, senza il significato negativo assunto in seguito, sembra designare allora la logica e lo spazio della comunicazione nell’era della globalizzazione mediatica: essere tutti testimoni dello stesso evento; essere testimoni di tutti gli eventi, indistintamente. La prima modalità ricorda lo spot della comunicazione a distanza realizzato dalla Telecom (pubblicità della pubblicità), dove un Gandhi-Grande Fratello parla in ogni angolo della Terra – ciò che poi è accaduto a papa Wojtila col suo uso sapiente delle Tv. La seconda modalità corrisponde invece al corollario primo della mondializzazione: se non esiste più un centro del mondo, e ogni punto può fungere da centro, non esiste neppure una centralità dell’evento, né una gerarchia che ordini gli avvenimenti. Così, senza che io lo abbia mai visto, sono costretto a sapere chi sia “Taricone”, e nell’ultimo romanzo di Jonathan Coe (Circolo chiuso, Feltrinelli) si descrive l’imbarazzante scena di una frotta di fotografi che ignora un genetista in odore di Nobel, paladino dell’umanità, per riconcorrere una giovane coppia sospettava di avere avuto rapporti sessuali in un reality show televisivo.
Ma c’è un altro corollario non meno importante. Nel testimoniare del mondo e ciò che accade, nessun criterio è decisivo su cosa sia opportuno testimoniare, né dove occorre arrestarsi. La definizione tecnica di testimonianza, riportata dal filosofo Paul Ricoeur nei suoi studi su La memoria, la storia, l’oblio, è: “un racconto autobiografico certificato di un avvenimento passato, sia che venga effettuato in circostanze informali che formali”. Testimoniare consiste nell’estrarre da un flusso di eventi una sequenza significante. Ma significante per chi? Tutto rientra virtualmente nella testimonianza, anche la storia del proprio sguardo. E’ quanto esemplifica il famoso giochino di società: “cosa stavate facendo quando sono crollate le Torri Gemelle?” (o “dove eravate quando hanno rapito Aldo Moro?”). La risposta rientra solitamente nelle testimonianze dell’evento come parte integrante. E sempre di più la testimonianza rischia di assomigliare alla mappa dell’impero del racconto di Borges, così particolareggiata da essere estesa quanto il territorio stesso. Nel suo libro Crolli, dedicato alle “ordinarie” catastrofi della nostra epoca, Marco Belpoliti racconta le difficoltà in cui è incorso Art Spiegelman nella raffigurazione a fumetti dell’11 settembre, e analoghe impasse in narratori come De Lillo e Jonathan Franzen.
Dunque la testimonianza è al tempo stesso un’asserzione e un punto di vista soggettivo, ha una pretesa di obiettività ma esiste solo in quanto autobiografia o confessione. Ancora più paradossale è il rapporto tra il racconto dell’avvenimento e l’avvenimento stesso. Al di là della sottomissione alla prima persona e della sua pretesa di verità, è il testimone a creare l’evento di cui si dice testimone. Si pensi a San Paolo, archetipo del testimone. E’ per avere predicato la sua testimonianza a un evento cui non ha mai assistito, a differenza degli apostoli – la Resurrezione di Cristo – in cui portava a garante della propria veridicità soltanto se stesso e la propria convinzione, che San Paolo ha fondato l’universalismo del cattolicesimo (parole che sono in realtà sinonimi). Una testimonianza di fede non ha neppure bisogno, a rigore, del prodursi di un evento. A quale istanza obbedisce allora il pellegrinaggio di chi ha voluto essere presente al capezzale del Papa?
Mi si permetta un’ultima considerazione. La questione della testimonianza sembrava definitivamente collocata in relazione alla memoria della Shoah, e all’istituzione degli archivi che temperassero le pretese totalizzanti e asettiche degli studi storici. In ambito filosofico, la riflessione sul concetto di testimonianza, a partire dagli scritti di Primo Levi, ha mostrato come in essa agisca un’incolmabile lacuna: chi testimonia di Auschwitz – i salvati - ha soprattutto testimoniato per coloro che non hanno potuto farlo – i sommersi, “testimoni integrali” ma ridotti al silenzio. Il filosofo Giorgio Agamben (Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri) ha indicato, a partire da questo scarto, un duplice processo insito nella testimonianza, ossia una soggettivazione e insieme una de-soggettivazione, che apparenta il dramma della testimonianza di Primo Levi e di altri sopravvissuti ad atti di parola assai lontani, come la poesia, la mistica (la profezia) e altri modi del linguaggio in prima persona. Ma, anche nell’ambito della Shoah, come ha mostrato il bellissimo, monumentale film omonimo di Claude Lanzmann, l’essere testimoni risulta, come l’antico “dono della presenza”, una facoltà che si trasmette. C’è un divenire testimoni che coincide con la catena epica del narrare: non si è più gli stessi dopo essere usciti dal film di Lanzmann; si è, a tutti gli effetti, testimoni, ostaggi dell’evento cui si è assistito, responsabili di raccontarlo a nostra volta. Ora, il ritorno oggi prepotente del bisogno di testimoniare di persona, da cosa dipende se lo spazio della testimonianza risulta del tutto saturo dai grandi racconti televisivi, se tutti siamo al corrente di tutto in presa diretta? Cosa indicano insomma i pellegrini di San Pietro?
Quel desiderio di presenza, di essere testimoni, rileva del desiderio di riscattare la propria vita individuale dai grandi racconti che sommergono le nostre vite ordinarie, di strappare uno spazio personale di racconto al fluire passivo e omogeneo delle nostre vite di spettatori, così povere di esperienze. L’ultimo paradosso della testimonianza è dunque il seguente: è per sottrarsi alla testimonianza unica, all’iperrealtà dell’omologazione televisiva, che migliaia di “testimoni” volontari si sono messi in moto e hanno fatto l’evento, dando spettacolo loro malgrado. Semplicemente per esserci, fisicamente, live, in prima persona. Perché saturi dello spettacolo della “vita in diretta” alla Tv, dell’omogeneizzazione del mondo quotidianamente offerta, e anche più volte al giorno, che annulla e dissolve ogni memoria nell’eterno presente che avviene sotto i nostri occhi. E’ per protestare sommessamente a questa perdita che una massa di individui ha scelto di ricorrere alla propria memoria personale, diventando testimoni per eccellenza: coloro che trasmettono narrativamente un avvenimento, in una catena di testimonianze.
Se testimoniare significa creare l’evento, l’analisi delle testimonianze e della loro narratività è la chiave per comprendere la logica di ciò che accade, una logica suscettibile di scavare e resistere anche alla globalizzazione: raccontare storie. Essere testimoni, raccontare gli eventi, significa praticare la “politica”, l’unica divinazione possibile, quella che già nel Settecento si chiamava “divinazione del presente”.
(uscito su l’Unità dell’ 11 aprile 2005)
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