Vorrei dire subito che è grazie a Thomas Ruff (e quindi a Dusseldorf), che ho scoperto Prato. Prima ne conoscevo solo la periferia (cioè il Museo Pecci): ma è una città toscana bella e anomala, con un ampio centro storico e un castello edificato da Federico II, un Duomo affrescato dal sublime Filippo Lippi e un’archeologia industriale che non sfigurerebbe a Zurigo o in una di quelle città tedesche in cui, da decenni, la riconversione dei siti industriali in centri culturali ha mostrato come la vita operosa si fonda con la vita intensa. Ma è anche grazie a una storica galleria di Prato, Dryphoto (animata da Vittoria Ciolini e Pier Luigi Tazzi, quest’ultimo curatore e autore di un ottimo testo nel catalogo), se la città ospita da ottobre una mostra antologica di Thomas Ruff. E non nei luoghi espositivi deputati e separati, ma in alcuni punti nevralgici, tra cui Palazzo Buonamici, sede della Provincia, e la popolatissima Biblioteca Comunale Lazzerini.
Thomas Ruff è uno dei maggiori artisti contemporanei: già allievo dell’accademia di Dusseldorf (dove tuttora risiede), e di Bernd e Hilla Becher, da tempo ha oltrepassato l’attività di fotografo per comporre e lavorare immagini altrui, spesso anonime, lavorando dunque non solo sul (far) vedere il mondo, ma costruendo mondi. A Prato è stato lo stesso Ruff a collocare propri lavori, grazie alla collaborazione di un neo-assessore alla Cultura della Provincia, lo scrittore Edoardo Nesi: ha accettato la sfida di esporre le opere nelle stanze del lavoro e del potere politici come se fosse un museo, accettando dunque di esporre se stesso, con tutti gli altri funzionari e politici, allo sguardo di visitatori, turisti e scolaresche. Glasnost tanto più rischiosa in quanto a diretto confronto con la verità poetica e irriverente dell’arte. “Raramente una mostra è divertente, e questa lo è stata”, mi ha detto Nesi annunciando che, dato il successo di pubblico, la mostra è prorogata fino alla fine di gennaio. Nel medievale Palazzo, tra affreschi tardo-barocchi e arredi post-moderni, le opere di Thomas Ruff, quasi tutte di grande formato, richiamano l’attenzione pur trasmettendo al tempo stesso una strana forza rasserenante. Per cercare di spiegarne il potere vorrei partire dall’impatto che ha il visitatore nell’altra location della mostra, la Biblioteca Comunale Lazzerini.
Nel parallelepipedo della fabbrica tessile più antica della città, perfettamente restaurata, accolti nel cortile della biblioteca da una grande scritta del pratese Curzio Malaparte – “A Prato, dove tutto viene a finire: la gloria, l’amore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo” - se si guarda dalle porte a vetri il salone d’entrata della biblioteca, simile a una nave rovesciata, si misura grazie a Thomas Ruff un benessere collettivo. Sono restato a contemplare affascinato le poltroncine rosse, gli espositori neri di libri, il via vai di corpi di chi ne fruisce, e quei grandi volti, quei primi piani luminosissimi, inconfondibilmente di Ruff, uno maschile e un altro femminile, che sorvegliano amorevolmente tutto questo sulle pareti in fondo. Quei volti che guardano con una sorta di umile, vigile raccoglimento, sono qui le icone di una comunità di individui intensa e operosa. Come se (ho pensato) gli angeli del “cielo sopra Berlino”, testimoni della vita quotidiana degli umani, fossero transitati qui per farci capire la ricchezza di quello che abbiamo, nei luoghi della vita associata. Per insegnarci, in un certo senso, la “politica”: la vita comune.
Non è solo il potere che hanno i volti di Ruff di (ri)guardarci, perché lo stesso accade con le altre immagini: quelle della serie
jpegs, mmagini digitali che esibiscono i pixel, e anche se rappresentano eventi tragici come le Twin Towers in fumo prima del crollo, non cancellano il carattere metalinguistico di immagini di immagini; quelle tratte dai manga giapponesi (
Substrat), ingrandite fino all’astrazione e dai colori psichedelici; quelle tratte dai negativi di osservatori astronomici europei (
Sterne) dediti alla mappatura del cielo australe, che mostrano quei “nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia” (con le parole del poeta della
Ginestra), nebulose di astri forse già scomparsi mentre noi ne percepiamo la luce; o quelle della serie
Nudes, a volte tratte da siti pornografici, ma sgranate, quasi evanescenti, delicate, e a bordi della compassione, perché in qualche mode rese più nude dall’artista. Quello che insomma accade con tutte le opere di Thomas Ruff, a saperle collocare (e a Prato, dove il “curatore” ha per così dire abdicato a favore dell’artista, l’allestimento è semplicemente perfetto), è che sembra siano loro – le opere - a testimoniare e a prendersi cura di noi che le guardiamo, non il contrario; siamo noi che esponiamo a loro le nostre vite, e il loro sguardo ci consola. Tale e tanto è il potere di assorbimento delle immagini di Ruff, che la loro presenza ci fa sentire meno soli, assorbe per così dire la nostra fatica di vivere nel tempo, quel “peso del mondo” di cui scrisse Peter Handke. Non stupisce che consolino e ispirino anche il lavoro dei politici in uno dei palazzi che storicamente ne rappresenta il Potere, rivelandone l’impermanenza.
(su l'Unità, 7/12/2010)