Conosco le “vie dei fuochi” dove si alzano ogni giorno fumi densi e tossici, le stesse in cui uomini e soprattutto donne si facevano arrestare e picchiare per fermare i Tir carichi di rifiuti. Ho visto le campagne avvelenate dagli sversamenti tossici e gli sterminati parcheggi e supermercati, catrame e cemento a coprire rifiuti nonché ottenere terra di risulta per coprire altre discariche, un ciclo continuo poiché il veleno diventa oro per i professionisti dello smaltimento fasullo. Ho visto quei tremendi monoliti detti ecoballe, avvolti da plastiche nere, in mezzo a campi di pomodori, pesche percoche, fragole, impregnati del loro percolato. Ho visto le discariche fatte dal governo ricalcando il metodo della camorra, cave dismesse in cui versare rifiuti (quali?) segretati dai militari, cartelli che intimano “Zona di interesse strategico nazionale. Vietato l’ingresso”, in deroga ai diritti costituzionali. Ho visto da tempo la prossima discarica, Cava Vitiello, e spiato quella attigua di Terzigno, insensato Inferno dantesco nel cuore del meraviglioso Parco del Vesuvio. Ho visto nel casertano dei casalesi le montagne di rifiuti sotto il sole di cui il governo negava l’esistenza. Ho visto questo olocausto bianco da mesi, guidato da alcuni veri eroi del nostro tempo - donne, madri, figlie, di comitati come il CoReRi (Coordinamento regionale rifiuti) e Salute-Ambiente Campania - ma non faceva notizia nonostante i fumi tossici, nonostante la ricomparsa dei rifiuti a Napoli (di cui invece oggi parlano i giornali) non sia che marketing terroristico, come quello su cui il governo fece l’ultima campagna elettorale. I rifiuti basta sottrarli alla vista con bacchetta magica e militare, che importa se tornano a noi come frutta o pomodori avvelenati sul tavolo della cucina, o nanoparticelle diffuse dai fumi degli incendi. Oggi è il 70° anniversario della morte del filosofo Walter Benjamin, ucciso dal nazismo. Scrisse che, per il potere, l’emergenza è la regola.
9/25/2010
9/24/2010
Carne e polvere (Boltanski a Ustica)
Personnes, plurale di “persona”, ma soprattutto in francese plurale di “nessuno” (per non dire l’etimologia della parola, “maschera”, identità provvisoria e precaria, senza appartenenza), è il titolo dell’ultima opera-installazione di Christian Boltanski, presentata l’anno scorso a Grand-Palais a Parigi e quest’anno all’Hangar Bicocca di Milano (si è conclusa ieri l’altro). A Parigi, in un immenso spazio scandito da battiti di cuore amplificati, il visitatore percorreva campi di abiti colorati adagiati per terra, ordinati come filari, inerti come corpi senza vita, geometrici come tombe. E una montagna conica di altri abiti veniva morsa ritmicamente da un robot-scavatrice arancione che dall’alto prelevava mucchi casuali di abiti e li fa ricadere sulla montagna: meccanica e impersonale come i battiti di cuori e gli abiti di tutti e di nessuno – personne, persone. A Milano, la montagna di vestiti diminuiva fino a scomparire perché i visitatori, verso la fine della mostra, erano invitati a portarsi via gli indumenti e farli rivivere, entrare in un altro ciclo, come il samsara del nascere e morire descritto dai canone buddhista.
Polvere (b) /Fuga è invece il titolo della performance del musicista francese Franck Krawczyk, progettata con Christian Boltanski, che ha accompagnato gli allestimenti di Personnes sia a Parigi che a Milano. Dalla dispersione materiale degli abiti ammucchiati di Personnes alla dispersione ideale di note, da Milano a Bologna, la vera notizia è che stasera le note dei violoncelli di Krawczyk, la sua opera musicale, raggiungerà un’altra opera di Boltanski (questa però permanente), ovvero il Museo per la Memoria di Ustica - da Boltanski donato all’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica e alla città, Bologna, da cui quell’aereo è partito per non più atterrare il 27 giugno del 1980. Come è noto, oltre al relitto di ciò che resta dell’aereo sventrato dal missile, sottratto alla polvere di un altro hangar e pazientemente ricostruito come un puzzle, il museo presenta, tra l’altro, 81 strane immagini: specchi neri in cui il visitatore vede riflesso il proprio volto, a rammentare l’arbitrio irreparabile del disastro e il coinvolgimento di tutti, mentre si odono le frasi che verosimilmente mormora chi sta per arrivare, con un aereo di vacanza, alla propria meta. Dieci contenitori neri infine racchiudono e sottraggono allo sguardo gli effetti personali, gli oggetti sommersi e salvati, ripescati insieme ai cadaveri dalle profondità del Tirreno: oggetti catalogati e descritti in un piccolo libro voluto da Boltanski e consegnato all’entrata, ulteriore meditazione su assenza e presenza, sulle tracce, sul senso del ricordare e commemorare.
Chissà che effetto faranno i violoncelli di Krawczyk i questo contesto, nel concerto che avverrà stasera alle ore 18 negli spazi del Museo della Memoria e del Giardino che lo circonda. Il progetto musicale di Krawczyk, che lavora da oltre un decennio con Boltanski dando un ulteriore sviluppo sonoro alle sue opere, è stato riscritto per l’occasione e affidato all’esecuzione di Sarah Givelet, violoncello solista, di un quartetto d’archi e del Cello Project, ensemble del Conservatorio Martini, dando vita a un importante connubio tra musicisti e istituzioni francesi e bolognesi.
L’ultima volta che il Museo della Memoria di Ustica a Bologna ha fatto parlare è satto per il concerto di poeti il x agosto, la notte delle stelle cadenti, la stessa della poesia di Giovanni Pascoli. Ora, pensando alla mostra di Boltanski Personnes, di cui il concerto è epilogo e prolungamento, non posso non pensare a ciò che immaginai uscendo dalla mostra al Grand Palais e guardando il cielo: il pulviscolo di oggetti esplosi al rallentatore con la musica dei Pink Floyd nel film Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, che non finiscono, che non hanno mai finito di volteggiare e di cadere. Accogliere quel pulviscolo, quei detriti e quelle rovine senza appartenenza, ovvero di tutti, non è il compito paziente che la rifondazione della nostra civiltà ci richiede, con rigore e pazienza? In tutti i casi è ciò che nell’assenza della politica ha delegato agli artisti, e di cui nel vuoto anche di verità civile il Museo della Memoria di Ustica assurge a simbolo, dove carne e polvere sono la stessa cosa.
(uscito su l'Unità di sabato 25 settembre)
Polvere (b) /Fuga è invece il titolo della performance del musicista francese Franck Krawczyk, progettata con Christian Boltanski, che ha accompagnato gli allestimenti di Personnes sia a Parigi che a Milano. Dalla dispersione materiale degli abiti ammucchiati di Personnes alla dispersione ideale di note, da Milano a Bologna, la vera notizia è che stasera le note dei violoncelli di Krawczyk, la sua opera musicale, raggiungerà un’altra opera di Boltanski (questa però permanente), ovvero il Museo per la Memoria di Ustica - da Boltanski donato all’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica e alla città, Bologna, da cui quell’aereo è partito per non più atterrare il 27 giugno del 1980. Come è noto, oltre al relitto di ciò che resta dell’aereo sventrato dal missile, sottratto alla polvere di un altro hangar e pazientemente ricostruito come un puzzle, il museo presenta, tra l’altro, 81 strane immagini: specchi neri in cui il visitatore vede riflesso il proprio volto, a rammentare l’arbitrio irreparabile del disastro e il coinvolgimento di tutti, mentre si odono le frasi che verosimilmente mormora chi sta per arrivare, con un aereo di vacanza, alla propria meta. Dieci contenitori neri infine racchiudono e sottraggono allo sguardo gli effetti personali, gli oggetti sommersi e salvati, ripescati insieme ai cadaveri dalle profondità del Tirreno: oggetti catalogati e descritti in un piccolo libro voluto da Boltanski e consegnato all’entrata, ulteriore meditazione su assenza e presenza, sulle tracce, sul senso del ricordare e commemorare.
Chissà che effetto faranno i violoncelli di Krawczyk i questo contesto, nel concerto che avverrà stasera alle ore 18 negli spazi del Museo della Memoria e del Giardino che lo circonda. Il progetto musicale di Krawczyk, che lavora da oltre un decennio con Boltanski dando un ulteriore sviluppo sonoro alle sue opere, è stato riscritto per l’occasione e affidato all’esecuzione di Sarah Givelet, violoncello solista, di un quartetto d’archi e del Cello Project, ensemble del Conservatorio Martini, dando vita a un importante connubio tra musicisti e istituzioni francesi e bolognesi.
L’ultima volta che il Museo della Memoria di Ustica a Bologna ha fatto parlare è satto per il concerto di poeti il x agosto, la notte delle stelle cadenti, la stessa della poesia di Giovanni Pascoli. Ora, pensando alla mostra di Boltanski Personnes, di cui il concerto è epilogo e prolungamento, non posso non pensare a ciò che immaginai uscendo dalla mostra al Grand Palais e guardando il cielo: il pulviscolo di oggetti esplosi al rallentatore con la musica dei Pink Floyd nel film Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, che non finiscono, che non hanno mai finito di volteggiare e di cadere. Accogliere quel pulviscolo, quei detriti e quelle rovine senza appartenenza, ovvero di tutti, non è il compito paziente che la rifondazione della nostra civiltà ci richiede, con rigore e pazienza? In tutti i casi è ciò che nell’assenza della politica ha delegato agli artisti, e di cui nel vuoto anche di verità civile il Museo della Memoria di Ustica assurge a simbolo, dove carne e polvere sono la stessa cosa.
(uscito su l'Unità di sabato 25 settembre)
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9/20/2010
Plastica, filosofia, politica (e un pensierino su Napoli)
Lo scorso we, all'ex Asilo Filangeri di Napoli, si è svolto il Primo Festival del pensiero Emergente. I giornali ne hanno parlato poco. In particolare, ospite della Fondazione Plart, ho partecipato sabato 18 a una giornata dedicata alla "progettazione del quotidiano" (insieme al designer Riccardo Dalisi, che ha parlato di design della "decrescita", a Tommaso Ariemma, direttore scientifico del Festival - che ha parlato dell'estetica (ma è meglio dire anestetica) della chirurgia plastica -, a Marco Petroni, critico del design e diretore del Plart, ecc.. Titolo del mio intervento era “Oggetti smarriti e altre apparizioni “, ma ho parlato di filosofia, politica e plastica. L'intervento era a braccio, e non ho quindi i materiali da postare (o sono troppo pigro per farlo). Ma il giorno stesso, per lo spazio di 1860 battute della mia rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità della domenica, ho mandato la sintesi ellittica che segue.
(Aggiungo solo che sono stato felice di trovarmi a Napoli, felice di soggiornare nel quartiere tra Piazza Bellini e San Gregorio Armeno, di vedere l'energia e la vivacità dal basso degli incontri sociali all'ex Lanificio - a Porta Capuana, dove è stata appesa un'immagine contro la camorra di 112 metri quadrati - e che vorrei tornarvi presto - magari per presentare la nuova edizione de Il libro dei maestri...)
Plastica e politica
Duttile, plasmabile, flessibile, maneggevole, sostitutiva, docile..., sono alcuni dei tanti attributi della “plastica”, o meglio, della varietà di materiali sintetici che vanno sotto il nome di plastica.
Ognuna di quelle parole meriterebbe un approfondimento. La “flessibilità”, virtù delle idee e dell’apprendimento, contigua alla tolleranza e al pluralismo, può convertirsi nell’ipocrisia della precarietà, con cui va inteso non tanto il lamento sul lavoro che non c’è, ma la perdita dell’idea di tempo, del senso narrativo dell’esistenza, appiattiti su un presente perpetuo che fa eclissare ogni mondo possibile, e quindi ogni invenzione di vita (di politica) individuale e comunitaria. Rimpiangere il lavoro sicuro e durevole significa introiettare questo deficit di immaginazione. La “maneggevolezza” ci condanna alla perdita della manualità, di un pensare con le mani, al punto che, scomparsa la gestualità, gli oggetti sono sempre più differenziati e noi sempre più uniformi; la plasticità è ormai segno dell’uomo, che di fronte alla funzionalità degli oggetti ne è ormai solo un appendice, simulacro di se stesso, pròtesi del mondo degli oggetti e non il contrario.
Infine, la plastica ha un terribile difetto, che ricorda la cattiva civiltà e la cattiva politica: non muore mai, la sua duttilità si trasforma in rigidità, tragedia della permanenza. Mimesi del Potere (a sua volta mimesi di un dio) lo stesso oggetto funzionale si converte d’un tratto in rifiuto, e separato dall’uso umano inizia un percorso “sacro”: discariche come crateri, inceneritori come vulcani, distese di ecoballe come totem di una nuova sacralità pagana. Anche questa è politica.
(Aggiungo solo che sono stato felice di trovarmi a Napoli, felice di soggiornare nel quartiere tra Piazza Bellini e San Gregorio Armeno, di vedere l'energia e la vivacità dal basso degli incontri sociali all'ex Lanificio - a Porta Capuana, dove è stata appesa un'immagine contro la camorra di 112 metri quadrati - e che vorrei tornarvi presto - magari per presentare la nuova edizione de Il libro dei maestri...)
Plastica e politica
Duttile, plasmabile, flessibile, maneggevole, sostitutiva, docile..., sono alcuni dei tanti attributi della “plastica”, o meglio, della varietà di materiali sintetici che vanno sotto il nome di plastica.
Ognuna di quelle parole meriterebbe un approfondimento. La “flessibilità”, virtù delle idee e dell’apprendimento, contigua alla tolleranza e al pluralismo, può convertirsi nell’ipocrisia della precarietà, con cui va inteso non tanto il lamento sul lavoro che non c’è, ma la perdita dell’idea di tempo, del senso narrativo dell’esistenza, appiattiti su un presente perpetuo che fa eclissare ogni mondo possibile, e quindi ogni invenzione di vita (di politica) individuale e comunitaria. Rimpiangere il lavoro sicuro e durevole significa introiettare questo deficit di immaginazione. La “maneggevolezza” ci condanna alla perdita della manualità, di un pensare con le mani, al punto che, scomparsa la gestualità, gli oggetti sono sempre più differenziati e noi sempre più uniformi; la plasticità è ormai segno dell’uomo, che di fronte alla funzionalità degli oggetti ne è ormai solo un appendice, simulacro di se stesso, pròtesi del mondo degli oggetti e non il contrario.
Infine, la plastica ha un terribile difetto, che ricorda la cattiva civiltà e la cattiva politica: non muore mai, la sua duttilità si trasforma in rigidità, tragedia della permanenza. Mimesi del Potere (a sua volta mimesi di un dio) lo stesso oggetto funzionale si converte d’un tratto in rifiuto, e separato dall’uso umano inizia un percorso “sacro”: discariche come crateri, inceneritori come vulcani, distese di ecoballe come totem di una nuova sacralità pagana. Anche questa è politica.
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9/11/2010
Il cielo sopra New York (ricordo dell'11 settembre)
(Torna da domani, su l'Unità, la rubrica "acchiappafantasmi". Ecco il pezzo in uscita)
Martedì 11 settembre 2001, pomeriggio, stavo leggendo un fumetto sulle Barricate di Parma del ’22 (per un pezzo da scrivere), quando mi arrivò la notizia dell’evento. Poi fu un susseguirsi di Internet e di tv.
Dopo le prime considerazioni, incredule e un po’ boriose (gli americani vedono in casa propria ciò che vedono in Tv quando lo fanno accadere in altre parti del mondo), fu panico senza spiragli. Paura di quello che vedevo, paura di una risposta altrettanto cieca, paura della Bomba che non lascia vincitori né vinti. Una paura che riportava agli anni di Reagan e Andropov, quando circolavano espressioni come “inverno nucleare”. Ma chi era il nemico dell’America di Bush? Intanto, quelle icone reali e abitate, le Torri, si sbriciolavano in mondovisione, avvolgendo nel fumo la città più simbolica del mondo. Le immagini facevano pensare a Mars attacks, o ai film di Bruce Willis, e già il pensare a dei film causava un corto circuito. Nella tragedia si avvertiva un senso di irrealtà e impotenza, come una malattia autoimmune; al tempo stesso sembrava il collasso dell’intero Occidente. Le Borse chiusero, in uno stato di generale evacuazione.
Ogni commento dava il senso di un danzare sull’orlo dell’abisso (tutta la vita, pensai, è un danzare sull’abisso, ma ce ne dimentichiamo, e se qualcuno cade ci stupiamo). Davanti a quelle immagini ripetute di superpotenza implosa, i grattacieli sciolti come sabbia con gli aeroplani appesi in alto, gli omini che cadevano uno a uno per salvarsi dal fuoco, che ne era delle nostre parole, di quello che ci preoccupava fino a poco prima? Come parlare senza sembrare dei dottor Stranamore? Tutto era oscurato, come il cielo sopra New York.
Mia madre, anziana e fragile, dopo aver visto quelle immagini alla tv volle andare fuori, lei che non usciva mai: aveva paura che la casa crollasse. Quando seppi che i morti erano migliaia, uscii a camminare nel parco.
Martedì 11 settembre 2001, pomeriggio, stavo leggendo un fumetto sulle Barricate di Parma del ’22 (per un pezzo da scrivere), quando mi arrivò la notizia dell’evento. Poi fu un susseguirsi di Internet e di tv.
Dopo le prime considerazioni, incredule e un po’ boriose (gli americani vedono in casa propria ciò che vedono in Tv quando lo fanno accadere in altre parti del mondo), fu panico senza spiragli. Paura di quello che vedevo, paura di una risposta altrettanto cieca, paura della Bomba che non lascia vincitori né vinti. Una paura che riportava agli anni di Reagan e Andropov, quando circolavano espressioni come “inverno nucleare”. Ma chi era il nemico dell’America di Bush? Intanto, quelle icone reali e abitate, le Torri, si sbriciolavano in mondovisione, avvolgendo nel fumo la città più simbolica del mondo. Le immagini facevano pensare a Mars attacks, o ai film di Bruce Willis, e già il pensare a dei film causava un corto circuito. Nella tragedia si avvertiva un senso di irrealtà e impotenza, come una malattia autoimmune; al tempo stesso sembrava il collasso dell’intero Occidente. Le Borse chiusero, in uno stato di generale evacuazione.
Ogni commento dava il senso di un danzare sull’orlo dell’abisso (tutta la vita, pensai, è un danzare sull’abisso, ma ce ne dimentichiamo, e se qualcuno cade ci stupiamo). Davanti a quelle immagini ripetute di superpotenza implosa, i grattacieli sciolti come sabbia con gli aeroplani appesi in alto, gli omini che cadevano uno a uno per salvarsi dal fuoco, che ne era delle nostre parole, di quello che ci preoccupava fino a poco prima? Come parlare senza sembrare dei dottor Stranamore? Tutto era oscurato, come il cielo sopra New York.
Mia madre, anziana e fragile, dopo aver visto quelle immagini alla tv volle andare fuori, lei che non usciva mai: aveva paura che la casa crollasse. Quando seppi che i morti erano migliaia, uscii a camminare nel parco.
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9/06/2010
Indifference - Clandestine di Renato Meneghetti ("Che cosa è il contemporaneo?")
Per la serie "Che cosa il contemporaneo?", sulle pagine di cltiura de l'Unità, oggi uscito questo mio intervento sull'opera di Renato Meneghetti, che ho appunto scelto...
L’oscurità crescente del concetto di “contemporaneo” in riferimento all’arte (e non solo), è parte costitutiva del senso delle opere. E se è vero che le opere contemporanee hanno a che fare col “gesto”, come suggeriva Jean-Luc Nancy, si capisce come questa oscurità derivi costitutivamente dal confondersi e convergere in esse di istanze linguistiche distinte, significato, intenzione, effetto suscitato (locuzione, illocuzione e perlocuzione) che al gesto e all’ostensione sono proprie; a cui aggiungerei la testimonianza, e l’attenzione al contesto dell’opera.
Ora, se lascio da parte i due artisti che più amo e su cui ho più volte scritto - Christian Boltanski e Claudio Parmiggiani - mi pare che il fantasma del “contemporaneo” sia proprio in ciò che unisce e separa due opere, le più importanti e recenti, di Renato Meneghetti: le teste (e volti) di Indifference-Clandestine, il cervello che si gonfia, vuoto e trasparente, di Optional.
Immaginate – come è accaduto pochi giorni fa all’Arsenale di Venezia - che una specie di preservativo afflosciato per terra cominci a gonfiarsi smisuratamente, mostrando meandri di tubi trasparenti che lentamente si gonfiano fino a formare gli emisferi cerebrali, una gigantesca cupola assolutamente vuota che contiene gli stessi attoniti spettatori. In quest’opera-perfomance che si ripete ogni 12 minuti, sgonfiandosi e rigonfiandosi, le reazioni e i pensieri dello stupito pubblico corrispondono al risveglio (erezione) del cervello come pubblica coscienza. Che, ahimè, è solo un optional.
L’opera precedente, Indifference, continuamente replicata in ogni spazio pubblico anche con tecniche di guerrilla urbana (l’ho vista quest’anno sia a Roma, in apertura di Road to Contemporary Art al Macro, che clandestinamente posta sulla pedana d’ingresso di Art Basel a Basilea), consiste in una distesa per terra di teste di ceramica bianca, calchi del volto dell’artista e di altri (anche un bambino): crani e volti inermi e fragili, con gli occhi chiusi, e un’espressione contemplativa che ne aumenta l’inermità, che interferiscono e a volte interrompono il flusso e la circolazione delle persone, o quanto meno le obbligano a considerarle, evitarle, oppure al contrario a infierire su di esse e frantumarle.
La prima volta che le vidi mi sembrò uno spazio sacro (un camposanto, pensai), e mi incantò vedere la fenomenologia dei comportamenti del pubblico, le diverse andature e retoriche deambulatorie (come avrebbe detto Michel De Certeau): esitanti, rispettose, curiose, distratte, ignare, noncuranti, irreverenti, mondane. O indifferenti, appunto. Ma fu una carneficina di cocci, con signore che si facevano fotografare dai mariti non solo mentre prendevano a calci o sfondavano le teste con i tacchi a spillo, ma mentre le sollevavano e, sotto il flash del telefonino, le lasciavano ricadere a terra dall’altro gustandone il rumore di cocci infranti come ossa. Altri camminavano fra le teste per urtarle, come chi si diverte a far scoppiare palloncini. Fui molto turbato dal crescendo di aggressività indifferente, tanto più che l’inermità dei volti e teste per terra è già in sé il perfetto simbolo dell’opera d’arte, che nel migliore dei casi è sempre un volto che si espone, si offre (s’offre), alla nostra simpatia o violenza. (Vale per l’arte ciò che vale per il sacro e il gioco: cosa fa sì, per esempio, che in certi luoghi, di fronte a certi oggetti o persone, facciamo silenzio o ci togliamo il cappello, oppure rilanciamo la palla che ci cade addosso?).
“Il volto è rivolto a me, è la nudità stessa” - ha scritto il maestro dell’etica Emmanuel Levinas – per il quale il volto è l’epifania di Dio, cioè del prossimo, “ciò davanti a cui io non posso più potere”. E in effetti, nel catalogo Electa di Renato Meneghetti (2006, a cura di A. Bonito Oliva), le teste rotte di Indifference sono giustapposte all’opera Clandestine, carrellata di immagini di profughi, mendicanti, clandestini, miserabili come I ciechi di Bruegel, che ci interpellano a mani nude e vuote, o con cartelli muti e per questo assordanti.
A Roma (ma più o meno capita ovunque) restò un tappeto di cocci tritati che risuonava sotto le scarpe. Il campo di teste posto senza permesso all’ingresso di Art Basel – immaginatevi, per fare un esempio attuale, di trovarle sul red carpet della Mostra del Cinema a Venezia - fu rimosso con gelida efficienza dalla polizia, che le scaraventò ancora intere dentro furgoni come rifiuti, come le bottiglie nei contenitori del vetro. In una strada pedonale di Basilea solo i bambini erano rispettosi e camminavano attraverso le teste come una gimkana. Un padre di famiglia in vestito scuro e cravatta prese una testa e la lanciò come al bowling, per romperne quante più possibile; con gesti calmi, precisi, meditati, distruttivi, come un gioco al massacro virtuale. Ed ecco, ovunque le teste di fragile ceramica bianca di Meneghetti sono un intralcio proprio come i poveri e i reietti della società, clandestine ed extracomunitarie, socialmente ed esteticamente rivelatrici.
In fondo anche questa è una “apocalisse con figure” (per citare una bellissima mostra di Parmiggiani), così come “l’indifferenza” richiama, opposto dialettico o contraltare, la “commemorazione”, che è il cuore dell’arte di Boltanski. Quanto alla componente essenziale dell’arte di Meneghetti, la previsione o induzione della risposta del pubblico, credo che sia un tratto costitutivo dell’arte “contemporanea”.
L’oscurità crescente del concetto di “contemporaneo” in riferimento all’arte (e non solo), è parte costitutiva del senso delle opere. E se è vero che le opere contemporanee hanno a che fare col “gesto”, come suggeriva Jean-Luc Nancy, si capisce come questa oscurità derivi costitutivamente dal confondersi e convergere in esse di istanze linguistiche distinte, significato, intenzione, effetto suscitato (locuzione, illocuzione e perlocuzione) che al gesto e all’ostensione sono proprie; a cui aggiungerei la testimonianza, e l’attenzione al contesto dell’opera.
Ora, se lascio da parte i due artisti che più amo e su cui ho più volte scritto - Christian Boltanski e Claudio Parmiggiani - mi pare che il fantasma del “contemporaneo” sia proprio in ciò che unisce e separa due opere, le più importanti e recenti, di Renato Meneghetti: le teste (e volti) di Indifference-Clandestine, il cervello che si gonfia, vuoto e trasparente, di Optional.
Immaginate – come è accaduto pochi giorni fa all’Arsenale di Venezia - che una specie di preservativo afflosciato per terra cominci a gonfiarsi smisuratamente, mostrando meandri di tubi trasparenti che lentamente si gonfiano fino a formare gli emisferi cerebrali, una gigantesca cupola assolutamente vuota che contiene gli stessi attoniti spettatori. In quest’opera-perfomance che si ripete ogni 12 minuti, sgonfiandosi e rigonfiandosi, le reazioni e i pensieri dello stupito pubblico corrispondono al risveglio (erezione) del cervello come pubblica coscienza. Che, ahimè, è solo un optional.
L’opera precedente, Indifference, continuamente replicata in ogni spazio pubblico anche con tecniche di guerrilla urbana (l’ho vista quest’anno sia a Roma, in apertura di Road to Contemporary Art al Macro, che clandestinamente posta sulla pedana d’ingresso di Art Basel a Basilea), consiste in una distesa per terra di teste di ceramica bianca, calchi del volto dell’artista e di altri (anche un bambino): crani e volti inermi e fragili, con gli occhi chiusi, e un’espressione contemplativa che ne aumenta l’inermità, che interferiscono e a volte interrompono il flusso e la circolazione delle persone, o quanto meno le obbligano a considerarle, evitarle, oppure al contrario a infierire su di esse e frantumarle.
La prima volta che le vidi mi sembrò uno spazio sacro (un camposanto, pensai), e mi incantò vedere la fenomenologia dei comportamenti del pubblico, le diverse andature e retoriche deambulatorie (come avrebbe detto Michel De Certeau): esitanti, rispettose, curiose, distratte, ignare, noncuranti, irreverenti, mondane. O indifferenti, appunto. Ma fu una carneficina di cocci, con signore che si facevano fotografare dai mariti non solo mentre prendevano a calci o sfondavano le teste con i tacchi a spillo, ma mentre le sollevavano e, sotto il flash del telefonino, le lasciavano ricadere a terra dall’altro gustandone il rumore di cocci infranti come ossa. Altri camminavano fra le teste per urtarle, come chi si diverte a far scoppiare palloncini. Fui molto turbato dal crescendo di aggressività indifferente, tanto più che l’inermità dei volti e teste per terra è già in sé il perfetto simbolo dell’opera d’arte, che nel migliore dei casi è sempre un volto che si espone, si offre (s’offre), alla nostra simpatia o violenza. (Vale per l’arte ciò che vale per il sacro e il gioco: cosa fa sì, per esempio, che in certi luoghi, di fronte a certi oggetti o persone, facciamo silenzio o ci togliamo il cappello, oppure rilanciamo la palla che ci cade addosso?).
“Il volto è rivolto a me, è la nudità stessa” - ha scritto il maestro dell’etica Emmanuel Levinas – per il quale il volto è l’epifania di Dio, cioè del prossimo, “ciò davanti a cui io non posso più potere”. E in effetti, nel catalogo Electa di Renato Meneghetti (2006, a cura di A. Bonito Oliva), le teste rotte di Indifference sono giustapposte all’opera Clandestine, carrellata di immagini di profughi, mendicanti, clandestini, miserabili come I ciechi di Bruegel, che ci interpellano a mani nude e vuote, o con cartelli muti e per questo assordanti.
A Roma (ma più o meno capita ovunque) restò un tappeto di cocci tritati che risuonava sotto le scarpe. Il campo di teste posto senza permesso all’ingresso di Art Basel – immaginatevi, per fare un esempio attuale, di trovarle sul red carpet della Mostra del Cinema a Venezia - fu rimosso con gelida efficienza dalla polizia, che le scaraventò ancora intere dentro furgoni come rifiuti, come le bottiglie nei contenitori del vetro. In una strada pedonale di Basilea solo i bambini erano rispettosi e camminavano attraverso le teste come una gimkana. Un padre di famiglia in vestito scuro e cravatta prese una testa e la lanciò come al bowling, per romperne quante più possibile; con gesti calmi, precisi, meditati, distruttivi, come un gioco al massacro virtuale. Ed ecco, ovunque le teste di fragile ceramica bianca di Meneghetti sono un intralcio proprio come i poveri e i reietti della società, clandestine ed extracomunitarie, socialmente ed esteticamente rivelatrici.
In fondo anche questa è una “apocalisse con figure” (per citare una bellissima mostra di Parmiggiani), così come “l’indifferenza” richiama, opposto dialettico o contraltare, la “commemorazione”, che è il cuore dell’arte di Boltanski. Quanto alla componente essenziale dell’arte di Meneghetti, la previsione o induzione della risposta del pubblico, credo che sia un tratto costitutivo dell’arte “contemporanea”.
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Renato Meneghetti
9/04/2010
Fascismo anestetico e libertà degli autori (sul dibattito "Mondadori")
Premessa: ho pubblicato con Einaudi nel 2007, ho recensito decine di loro libri (e anche di Mondadori), e stimo coloro che portano avanti quel prestigioso marchio editoriale. E continuerei a pubblicarci per la stessa ragione per cui abito in Italia e non sono di nuovo emigrato all’estero, Barcellona o Amsterdam, per esempio (ci vogliono soldi ed energia anche per emigrare). Ma mi ha dato pena leggere sui giornali l’ultimo simulacro di dibattito civile degli scrittori italiani, l’ipocrisia di scoprire oggi imbarazzo a pubblicare per Mondadori o l’enorme arcipelago di aziende cultural-editoriali del primo ministro, come se lo scandalo non fosse identico da 15 anni, come se il problema non fosse l’enorme e abnorme conflitto di interessi, impossibile in una qualsiasi democrazia occidentale. Se è imbarazzante e inopportuno pubblicare oggi per una casa editrice il cui “utilizzatore finale” è Berlusconi, lo era già dal 1993-94, e anche prima di allora, perché la stessa esistenza del suo governo, e la sua discesa in campo, non è dall’inizio che un sotterfugio, un escamotage ad aziendam e ad personam.
Mi ha avvilito la povertà concettuale e sentimentale degli scrittori di sinistra, alcuni dei quali amici, che hanno precisato che la Mondadori non li ha mai censurati né interferito nei loro scritti (ma Saramago è stato censurato e rifiutato: non importa se accade a qualcun altro?), e soprattutto l’assenza di senso del tragico nella posizione di questi scrittori. Nessuno ha indicato la tragica serietà della situazione italiana, il regime linguistico-mediatico-politico guidato da troppi anni da un pubblicitario-padrone, un fascismo anestetico che ha permeato così bene la società da essere stato con ogni evidenza interiorizzato anche dalla società civile colta e di sinistra. Mi ha angosciato che Berlusconi venga considerato una specie di macchietta, un’innocua maschera italiana, qualcuno da cui è facile o anche solo possibile non farsi condizionare o censurare, insomma un problema di codici culturali – argomenti questi che già mostrano la rimozione della realtà, della memoria, della consapevolezza quali sono state programmaticamente, sistematicamente compiute dai governi Berlusconi. Come napalm, ho scritto più volte, il degrado morale e culturale dei governi Berlusconi, e l’influenza da lui esercitata come imprenditore del capitalismo culturale (vedi la definizione ormai classica di Jeremy Rifkin) ha desertificato i luoghi e i modi del pensiero, della Storia, dei valori, della condivisione e della civiltà – cioè concretamente la scuola, l’educazione, la cultura, la Costituzione, la dignità del lavoro, l’ambiente. La non innocente illusione di essere risparmiati e immuni, ne attesta anzi l’avvenuta interiorizzazione. Il pervicace fascismo anestetico di Berlusconi è terribilmente serio e tragico, e ricorda la lucidità del programma di Joseph Goebbels: “Bisogna forgiare e limare le persone fino a quando saranno diventate schiave, questo è uno dei compiti principali della radio tedesca”. Nel suo recente La libertà dei servi (Laterza) Maurizio Viroli spiega perfettamente come noi, cittadini italiani sottoposti a un potere enorme, non possiamo dirci liberi se non nel senso della libertà dei sudditi o dei servi. O, come ingiustamente è stato detto solo per le donne, di cortigiani e cortigiane. In inglese si dice escort. Siam tutti escort - editori escort, scrittori escort, giornalisti escort, e così via.
Ecco la consapevolezza del tragico di cui ho sentito così fortemente la mancanza nel dibattito attuale, dove è assente e sradicato anche quel minimo di continuità di pensiero e di memoria che ci dovrebbe far sentire contemporanei ai Minima moralia di Adorno, a quella “triste scienza” (traurige wissenschaft) che è poi la coscienza morale, doloroso rovescio della “gaia scienza” di Nietzsche, oggi possibile solo nelle forme dell’orgia del potere berlusconiano, una immaginazione al potere e del potere che beffa il celebre slogan del ’68. Ben prima della società della pubblicità in cui saltellano e rimbalzano innocue le voci odierne, furono dette e scritte cose irreversibili sull’industria culturale, sui presupposti di un degrado della realtà cui Berlusconi, riconosciamolo, ha soltanto appesa il proprio cappello. Ma abbiamo rimosso, o appollaiato come soprammobile sulla credenza, anche il Pasolini della scomparsa delle lucciole, quello che scriveva “Ho visto dunque ‘coi miei sensi’ il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione”. Lasciamo che sia Tremonti a citare Marx, la cui attualità è di un’evidenza abbacinante, perdiamo ogni consapevolezza e responsabilità intellettuale degli ultimi cinquant’anni, le analisi che mai come oggi descrivono la realtà dell’Italia.
Siamo in un paese dove “pensare” è sentito come sinonimo di “essere tristi”, dove la constatazione del successo di un prodotto (che sia un libro o un leader politico) soppianta il giudizio di valore, dove l’opposizione politica di sinistra ha preferito condividere linguaggio, logica e agenda con la destra invece che col proprio popolo elettivo; e dove anche scrittori e intellettuali hanno interiorizzato i meccanismi e le retoriche del potere e del datore di lavoro, invece di denunciarne la stessa colonizzazione della mente di cui siamo – tutti, nessuno escluso – vittime e conniventi. Non stupisce se Marchionne dice “basta coi conflitti capitale e lavoro”, “la lotta di classe è cosa del passato”, pur facendola lui, e guadagnando, per la prima volta nella Storia, 400 volte più dei tre operai licenziati.
Non è colpa del cineasta essere distribuito da Medusa, ma il suo imbarazzo sia atto d’accusa verso un capo di governo che ha interessi anche nel cinema, che condiziona e decide quali film sono distribuiti, cioè visti, nelle sale (ciò che accadde in Europa solo con Hitler e Mussolini). Non vi sia accusa né proscrizione verso gli autori che pubblicano con la galassia Mondadori, ma vi sia in loro consapevolezza e non abitudine, conflitto e non rassegnazione, che è anticamera dell’assuefazione e del collaborazionismo. Infine, ecco la mia personale verità: non so altri, ma io pubblicherei ancora con Mondadori perché il mio lavoro è di difficile remunerazione, e in Italia, dove il lavoro intellettuale è il più umiliato (si pensi agli insegnanti) è già tanto non sentirsi in colpa ad essere scrittori. Difficile trovare una casa editrice non connessa alla galassia Mondadori, ma soprattutto che sia in grado di pagare, e al tempo stesso non abbia interiorizzato i criteri di spettacolarizzazione, mercificazione e rapido consumo che caratterizza oggi il mercato culturale e delle idee, commisurate ai sondaggi e non al loro valore. Mondadori paga meglio? E’ importante per vivere. Parliamo allora di questo, di povertà, di bisogni, di spazi di espressione, e del lusso eventuale di pubblicare (sono sicuro che Eugenio Scalfari se lo potrebbe permettere) di pubblicare con altri editori il cui “utilizzatore finale” non sia Berlusconi, avversario del giornale che lui rappresenta. Rovesciando il titolo del libro che otto anni fa pubblicammo anche con questo giornale (sottotitolo: “Voci contro il regime”), siamo in vendita. Per forza.
P.S. 1 Nel dibattito sui giornali abbiamo letto molte parole vuote, questo è un fatto. L’anestesia (il fascismo) è definitivamente compiuta da quando i fatti - tutti - sono solo parole.
P.S.2 Leggo su Repubblica di ieri che Vito Mancuso è rientrato nel merito della questione, annunciando che, dopo i libri già annunciati per Mondadori, cambierà editore.
(una versione più ridotta di questo intervento appare oggi sul giornale l'Unità)
Mi ha avvilito la povertà concettuale e sentimentale degli scrittori di sinistra, alcuni dei quali amici, che hanno precisato che la Mondadori non li ha mai censurati né interferito nei loro scritti (ma Saramago è stato censurato e rifiutato: non importa se accade a qualcun altro?), e soprattutto l’assenza di senso del tragico nella posizione di questi scrittori. Nessuno ha indicato la tragica serietà della situazione italiana, il regime linguistico-mediatico-politico guidato da troppi anni da un pubblicitario-padrone, un fascismo anestetico che ha permeato così bene la società da essere stato con ogni evidenza interiorizzato anche dalla società civile colta e di sinistra. Mi ha angosciato che Berlusconi venga considerato una specie di macchietta, un’innocua maschera italiana, qualcuno da cui è facile o anche solo possibile non farsi condizionare o censurare, insomma un problema di codici culturali – argomenti questi che già mostrano la rimozione della realtà, della memoria, della consapevolezza quali sono state programmaticamente, sistematicamente compiute dai governi Berlusconi. Come napalm, ho scritto più volte, il degrado morale e culturale dei governi Berlusconi, e l’influenza da lui esercitata come imprenditore del capitalismo culturale (vedi la definizione ormai classica di Jeremy Rifkin) ha desertificato i luoghi e i modi del pensiero, della Storia, dei valori, della condivisione e della civiltà – cioè concretamente la scuola, l’educazione, la cultura, la Costituzione, la dignità del lavoro, l’ambiente. La non innocente illusione di essere risparmiati e immuni, ne attesta anzi l’avvenuta interiorizzazione. Il pervicace fascismo anestetico di Berlusconi è terribilmente serio e tragico, e ricorda la lucidità del programma di Joseph Goebbels: “Bisogna forgiare e limare le persone fino a quando saranno diventate schiave, questo è uno dei compiti principali della radio tedesca”. Nel suo recente La libertà dei servi (Laterza) Maurizio Viroli spiega perfettamente come noi, cittadini italiani sottoposti a un potere enorme, non possiamo dirci liberi se non nel senso della libertà dei sudditi o dei servi. O, come ingiustamente è stato detto solo per le donne, di cortigiani e cortigiane. In inglese si dice escort. Siam tutti escort - editori escort, scrittori escort, giornalisti escort, e così via.
Ecco la consapevolezza del tragico di cui ho sentito così fortemente la mancanza nel dibattito attuale, dove è assente e sradicato anche quel minimo di continuità di pensiero e di memoria che ci dovrebbe far sentire contemporanei ai Minima moralia di Adorno, a quella “triste scienza” (traurige wissenschaft) che è poi la coscienza morale, doloroso rovescio della “gaia scienza” di Nietzsche, oggi possibile solo nelle forme dell’orgia del potere berlusconiano, una immaginazione al potere e del potere che beffa il celebre slogan del ’68. Ben prima della società della pubblicità in cui saltellano e rimbalzano innocue le voci odierne, furono dette e scritte cose irreversibili sull’industria culturale, sui presupposti di un degrado della realtà cui Berlusconi, riconosciamolo, ha soltanto appesa il proprio cappello. Ma abbiamo rimosso, o appollaiato come soprammobile sulla credenza, anche il Pasolini della scomparsa delle lucciole, quello che scriveva “Ho visto dunque ‘coi miei sensi’ il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione”. Lasciamo che sia Tremonti a citare Marx, la cui attualità è di un’evidenza abbacinante, perdiamo ogni consapevolezza e responsabilità intellettuale degli ultimi cinquant’anni, le analisi che mai come oggi descrivono la realtà dell’Italia.
Siamo in un paese dove “pensare” è sentito come sinonimo di “essere tristi”, dove la constatazione del successo di un prodotto (che sia un libro o un leader politico) soppianta il giudizio di valore, dove l’opposizione politica di sinistra ha preferito condividere linguaggio, logica e agenda con la destra invece che col proprio popolo elettivo; e dove anche scrittori e intellettuali hanno interiorizzato i meccanismi e le retoriche del potere e del datore di lavoro, invece di denunciarne la stessa colonizzazione della mente di cui siamo – tutti, nessuno escluso – vittime e conniventi. Non stupisce se Marchionne dice “basta coi conflitti capitale e lavoro”, “la lotta di classe è cosa del passato”, pur facendola lui, e guadagnando, per la prima volta nella Storia, 400 volte più dei tre operai licenziati.
Non è colpa del cineasta essere distribuito da Medusa, ma il suo imbarazzo sia atto d’accusa verso un capo di governo che ha interessi anche nel cinema, che condiziona e decide quali film sono distribuiti, cioè visti, nelle sale (ciò che accadde in Europa solo con Hitler e Mussolini). Non vi sia accusa né proscrizione verso gli autori che pubblicano con la galassia Mondadori, ma vi sia in loro consapevolezza e non abitudine, conflitto e non rassegnazione, che è anticamera dell’assuefazione e del collaborazionismo. Infine, ecco la mia personale verità: non so altri, ma io pubblicherei ancora con Mondadori perché il mio lavoro è di difficile remunerazione, e in Italia, dove il lavoro intellettuale è il più umiliato (si pensi agli insegnanti) è già tanto non sentirsi in colpa ad essere scrittori. Difficile trovare una casa editrice non connessa alla galassia Mondadori, ma soprattutto che sia in grado di pagare, e al tempo stesso non abbia interiorizzato i criteri di spettacolarizzazione, mercificazione e rapido consumo che caratterizza oggi il mercato culturale e delle idee, commisurate ai sondaggi e non al loro valore. Mondadori paga meglio? E’ importante per vivere. Parliamo allora di questo, di povertà, di bisogni, di spazi di espressione, e del lusso eventuale di pubblicare (sono sicuro che Eugenio Scalfari se lo potrebbe permettere) di pubblicare con altri editori il cui “utilizzatore finale” non sia Berlusconi, avversario del giornale che lui rappresenta. Rovesciando il titolo del libro che otto anni fa pubblicammo anche con questo giornale (sottotitolo: “Voci contro il regime”), siamo in vendita. Per forza.
P.S. 1 Nel dibattito sui giornali abbiamo letto molte parole vuote, questo è un fatto. L’anestesia (il fascismo) è definitivamente compiuta da quando i fatti - tutti - sono solo parole.
P.S.2 Leggo su Repubblica di ieri che Vito Mancuso è rientrato nel merito della questione, annunciando che, dopo i libri già annunciati per Mondadori, cambierà editore.
(una versione più ridotta di questo intervento appare oggi sul giornale l'Unità)
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