6/26/2010

Canale Mussolini e radio Berlusconi

La tragica vicenda dell’ultimatum della Fiat a Pomigliano d’Arco - lavoro o diritti, salario con rinuncia alle regole o disoccupazione e camorra – travalica politica ed economia, e segna una svolta antropologica epocale. Come la questione dei rifiuti, l’inquinamento irreversibile della terra, l’alienazione della specie umana (già profetizzata da Marx), essa implica l’accettazione e interiorizzazione dei criteri voluti dai dominatori per piegare i dominati (e scusate se questa volta semplifico, come nella metafora delle rane bollite di due settimane fa). “C’è la crisi”, dicono. Ma il diagramma del profitto resta intatto, è solo la civiltà a soccombere. Rientrano nell’interiorizzazione del punto di vista del dominatore, diciamo pure dello spirito del tempo, naturalmente anche la cultura, la tv, le “grandi opere”, i libri (mi auguro che, al di là dei meriti letterari, quest’anno vinca il Premio Strega Canale Mussolini di Pennacchi), la vendita delle idee al supermercato dei sondaggi, la scuola e i temi di maturità. Delle tracce di quest’anno mi ha colpito il dannunzianesimo del tema sul “piacere” (perfetto per naturalizzare e normalizzare l’edonismo puttanesco e neroniano di Berlusconi e i suoi cantori, Bondi e Apicella), e quello intitolato “Il ruolo dei giovani nella storia e nella politica. Parlano i leader”, dove per leader si intendono (sullo stesso piano e con pari legittimità di citazioni) il dittatore Benito Mussolini, il costituente Palmiro Togliatti, lo statista Aldo Moro e papa Giovanni Paolo II. L’educativa citazione di Mussolini è tratta dalla rivendicazione dell’assassinio di Matteotti nel 1924: “io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto” (applausi vivissimi), “se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! (applausi). Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! (vivissimi e prolungati applausi)”. Esaltante, no?

6/22/2010

Non è tempo di stare alla finestra. La Resistenza riparte dall'Anpi (di Stefania Scateni)

Ieri a mezzogiorno sono andato alla sede nazionale dell'Anpi (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) insieme a molti altri, per la nuova campagna di iscrizione: come antifascisti (io anche come figlio di partigiani). E' stato molto commovente, coinvolgente. Stefania Scateni ha scritto questo breve riepilogo, uscito in versione molto ridotta su l'Unità di oggi:

Non è tempo di stare alla finestra. Non è tempo di indifferenza né di ignavia, tantomeno di accidia. E' tempo di trasformare lo sconcerto, la rabbia e la paura, di scegliere se continuare ad affannarsi per nuotare in una marmellata culturale e politica che confonde verità e menzogna, libertà e sopruso, sfigurando il tutto in un grande schermo azzurro e piatto, oppure tirarsi fuori dal blob e dare aria al cervello. In poche parole, prendere posizione. C'è bisogno di rivivere il significato morale, prima ancora che politico, dell'antifascismo e della nostra Costituzione democratica. La ricchezza dell'insegnamento che ci arriva dalle donne e gli uomini che si sono schierati e hanno combattuto per costruirla vanno coltivati e ripresi, insegnati, testimoniati di nuovo. Molti ragazzi italiani (come ci ha raccontato il 9 giugno Gabriella Gallozzi su questo giornale) lo hanno fatto iscrivendosi all'Anpi: tanti nuovi “antifascisti”, “volontari per la democrazia” nell’Associazione nazionale dei partigiani che, negli ultimi anni, ha aperto le porte anche a chi la Resistenza non l’ha vissuta. I partigiani hanno passato così il testimone a 110mila nuovi resistenti per continuare a far vivere la memoria della lotta per la democrazia, messa a rischio dalla graduale scomparsa dei protagonisti e dal violento revisionismo di regime. L'Anpi lancia inoltre una campagna con il coinvolgimento di artisti, scrittori e intellettuali. Nata da un'idea di Concita De Gregorio e Dacia Maraini, l’iniziativa è stata presentata ieri nella sede nazionale dell'Associazione.
Dacia Maraini ha citato un discorso agli studenti milanesi di Piero Calamandrei (1955): “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”. Concita De Gregorio ha spiegato quanto sia fondamentale parlare ai ragazzi di chi ha combattuto per le libertà di cui godono oggi, e spiegare loro la Costituzione: “Il futuro non è più quello di una volta, è necessario incarnare nel presente lo spirito della Resistenza. Una Resistenza personale, privata, che può coincidere con una forma di Resistenza pubblica, collettiva”. Non erano sole ieri mattina all'Anpi. “Mi iscrivo all'Anpi perché la Resistenza non sia solo memoria del passato ma esercizio del presente”. Con questa motivazione, scelta per la campagna, si sono iscritti Andrea Camilleri, Giuliano Montaldo, Giancarlo De Cataldo, Romana Petri, Rosetta Loy, Fabrizio Gifuni, Simona Marchini, Sandra Petrignani, Fabio Bussotti, Simone Cristicchi, Fiorella Mannoia, Mario Monicelli, Neri Marcorè, Emma Dante, Marco Paolini, Gigi Proietti, Moni Ovadia, Ugo Gregoretti, Marco Bellocchio, Giorgia, Monica Guerritore, Sabrina Ferilli, Massimo Carlotto, Emma Dante, Roberta Torre, Irene Grandi, Matteo Garrone, Francesca Archibugi, Valentina Carnelutti, Emanuela Giordano, Beppe Sebaste, Lidia Ravera, Silvia Nono, Flavia Gentili, Italo Spinelli, Francesca Comencini, Cristina Comencini, ellekappa, Staino, Liliana Cavani, Serena Dandini, Riccardo Milani, Piera Degli Esposti, Vincenzo Cerami, Ascanio Celestini, Margherita Hack, Eugenio Finardi, Lucio Villari, Pierluigi Meneghetti, Mario Prosperi, Rossella Or, Lisa Ginzburg, Luca Archibugi, Nadia Urbinati, Roberto Citran. Molti erano presenti, nella stracolma sala dell'Anpi dove a fare gli onori di casa c'erano due partigiani, i vicepresidenti dell'Associazione Armando Cossutta e Marisa Ombra. Non li citiamo tutti. Giuliano Montaldo ha raccontato quando, il 24 aprile 1945, a Genova stavano stampando la prima Unità del dopoguerra, e con altri fece da “spago” per portare l'edizione agli operai dell'Ansaldo: un solo foglio, titolo “Genova è libera”. Moni Ovadia ha ribadito come la Resistenza sia al di là di destra e sinistra: ha fondato e sancito la nostra democrazia, nata da valori eternamente laici, universali, eterni. “Bisognerebbe celebrare il 25 aprile cominciando il 24 con una cena in cui si spezzi il pane della libertà. Quella che ci aspetta è una battaglia di tipo sacrale, per ridare una sacralità laica alla democrazia, basata su valori non negoziabili ed eterni”. Sacro come la narrazione e come la testimonianza: Giancarlo De Cataldo lamenta come la sinistra abbia consegnato i simboli alla destra, e sottolinea l'importanza mitopoietica della Resistenza. Le storie sono necessarie, raccontano il mondo e noi stessi. Così Beppe Sebaste, figlio di partigiani di Parma, sottolinea l'importanza della narrazione e del suo tramandarsi: “la testimonianza è una grande responsabilità, già come destinatari di un racconto diventiamo testimoni, persone che hanno cioè il dono della presenza, che mantengono vivi eventi accaduti in altri luoghi e in altri tempi (se per esempio hai visto il film Shoah di Lanzmann, sei diventato tu il testimone)". Quanta differenza ci sia tra lo ieri dei partigiani e l'oggi dei “nuovi resistenti” lo spiega Armando Cossutta, quando chiude la conferenza con un ricordo personale. “Oggi combattere per la Costituzione è più difficile di allora. Fui incarcerato, messo al muro insieme a dei compagni per essere fucilati, ma non avevo paura, non avevamo paura. Avevamo la certezza di contribuire a costruire un orizzonte visibile e giusto. Oggi non si vede questa luce all'orizzonte”.
Stefania Scateni

(una versione ridotta su l'Unità del 22/6/2010)

6/21/2010

Viaggiare da fermi: il premio Orient-Express a "Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne" (Laterza)

COMUNICATO STAMPA

PREMIO LETTERARIO NAZIONALE ORIENT-EXPRESS
XV edizione 2010
Dedicato a Tommaso Landolfi

Beppe Sebaste autore di Panchine, Come uscire dal mondo senza uscirne, Editori Laterza 2009 ha vinto per la Sezione Narrativa la XV edizione biennale 2010 del Premio Letterario Nazionale Orient-Express:
La cerimonia di premiazione si svolgerà oggi 21 giugno , alle h. 19, presso il Teatro India, in lungotevere Gassman ( già lungotevere dei Papareschi), Roma. Per informazioni: 3358113764.

NOTE INFORMATIVE

STORIA DEL PREMIO LETTERARIO NAZIONALE Orient-Express
La prima edizione del Premio vede la luce nel 1989, a Roma, in via di ponte Sisto, nel ristorante trasteverino Orient-Express, oggi scomparso.
Già dal 1987 il ristorante - ricco di suggestioni e atmosfere, arredato come un vagone ferroviario con pezzi originali del leggendario treno - aveva dato vita a un salotto letterario: vi si riunivano la domenica poeti e scrittori, per leggere e parlare di letteratura.
Il Premio vi si ambienta perciò naturalmente. Si ispira al viaggio, non soltanto fisico, ma dell’immaginario, della mente, della coscienza, della fantasia: in una parola, s’ispira ancora alla magia della letteratura.
Per i primi cinque anni il Premio svolge le sue edizioni all’interno del ristorante.
Nel 1994 il ristorante chiude, ma il Premio gli sopravvive, e comincia a viaggiare per Roma, celebrando in luoghi diversi e prestigiosi le sue successive edizioni, fino alla XIV del 2008 .

LE SEDI.....................................................................
LA GIURIA................................................................

ecc. ecc. ecc.

6/18/2010

For Ever Young (per Bob Dylan a Parma)

   Mi fa un certo effetto che Bob Dylan - uno dei più grandi poeti contemporanei, il musicista che ha aperto la strada e indicato gli orizzonti (come disse John Lennon), quello di cui ho imparato le poesie (le canzoni) a memoria prima di quelle dell’obbligo, la voce che mi accompagna da sempre dandomi degli occhi per vedere e percepire il mondo, e che ho seguito per anni nei tour in Europa con una banda di altri dylaniati come me, da Luigi Ghirri (inventore del neologismo) a Giorgio Messori a Carlo Feltrinelli – mi fa effetto dicevo che lui suonerà stasera sotto le finestre della casa in cui ho abitato fino a pochi anni fa, nel Parco Ducale. E sarò ad ascoltarlo, forse un po’ imbarazzato di condividerlo col pubblico educato della nostra città, in quel giardino ordinato che una volta era un parco.
   Sarò tra il pubblico col figlio della mia compagna, Martino, tredici anni e fan di Dylan da due: ne ha letto tutti i libri e ascoltato tutti i dischi. Lo interpreta già con la chitarra, come facevamo noi tardo-adolescenti. Perché ti piace, gli ho chiesto, perché lo trovi speciale? “Perché le sue mi sembrano poesie cantate”, ha detto pensoso. “Ma soprattutto mi sembra che negli anni, con tutti i cambiamenti che ha avuto, sia rimasto sempre lui”.
   E’ vero. Per quanto io sia disincantato, per quanto Dylan, maestro beffardo del disincanto, abbia ininterrottamente decostruito se stesso, il suo stile e le sue stesse canzoni fino a renderle irriconoscibili (nel tour dell’anno scorso sembravano allegre marcette), c’è una continuità, una fedeltà a se stesso che va oltre la coerenza, percepibile anche da chi si accosta a Dylan per la prima volta. C’è una costante, una permanenza in tutti i suoi passaggi e trasformazioni, in tutte le sue ‘conversioni’, da quelle religiose a quelle musicali, come il famoso passaggio dalla chitarra acustica a quella elettrica, fischiato al Newport Folk Festival nel 1965 (Pete Seeger era furioso) e l’anno dopo a Londra e Manchester, in quel meraviglioso concerto (The Bootleg Series vol. 4) in cui, prima di attaccare Like a Rolling Stone, grida con voce umida di lacrime a un suo detrattore: “You’re a liar”, “sei un bugiardo”. E la costante, forse indefinibile, è l’essere insieme se stesso e poeta. “Come definirebbe il suo stile?”, gli chiese un dj svedese nel ’66. “Non ho mai sentito nessuno che suona e canta come me, quindi non lo so”, rispose Dylan.
   L’ultimo scandalo è l’album di canzoni natalizie dell’inverno scorso, Christmas in the Heart: tra campanelline e coretti femminili stile radio anni ’40, con tanto di Adeste fidelis metà in latino e metà in inglese, e immagini kitsch di slitte e babbi natale, la sua voce rauca non cela l’ironia e il divertimento. Ma pochi sanno che i proventi delle vendite sono stati integralmente destinati agli homeless e alle associazioni non governative che combattono la fame, e l’unica intervista concessa dopo anni è stata a riviste free press di senza casa in America e in Europa. Alla domanda se lo shock dato da quest’album fosse pari alla svolta elettrica per i conservatori del folk, Dylan ha risposto: “Dicono che avrei dovuto essere più irriverente nei confronti di questo repertorio di canzoni. E’ un’affermazione irresponsabile. Non c’è già abbastanza irriverenza nel mondo? Ancora oggi i critici non sanno che farsene di me”.
Il suo essere sempre misteriosamente e autorevolmente se stesso fu sintetizzato dalla comica esclamazione di un giornalista negli anni del massimo successo (quando era uguale a Cate Blanchett che lo interpreta in I’m not there): “Alla fine si tolse gli occhiali scuri ma, non si sa come, riuscì a sembrare assolutamente uguale”. Con tutte le sue pose, Dylan non è mai stato in posa. Dietro i suoi atteggiamenti contraddittori, le sue maschere nude, il volto e l’arte di Dylan sono sempre gli stessi. Tratto magistrale: bisogna aver percorso molte strade per accorgersi di non avere mai lasciato la stessa strada.

   Poi però Martino ha rivolto a me la stessa domanda. Perché mi piace così tanto Dylan? Dopo la sua, mi resta una sola, grande risposta, quella che sintetizza il cuore invisibile di ogni grande riuscita estetica (e quindi morale): il tono.
   Nel concerto in provincia di Padova l’altra sera Bob Dylan ha fatto un blues impeccabile, ironico e inatteso, con la sua celebre Masters of War, dedicata ai mercanti d’armi e di morte (praticamente tutto il G8 e oltre). Avevo meno di 13 anni quando nel corridoio della scuola media “Pascoli” feci leggere a una ragazza che mi piaceva tantissimo la mia traduzione gonfia di retorica di Signori della Guerra, lasciando intendere che avrei potuto scriverla io. Mi davano un brivido profondo quelle canzoni dette allora ingenuamente di “protesta”, più delle poesie di Brecht o di Jacques Prévert. Non sapevo ancora che la vera protesta era parlare delle cose vicine, non di quelle lontane, e la libertà di sperimentare, sacrare e dissacrare e ancora risacrare, usare la parola “mamma” in una canzone (Tell Me, Momma), parlare delle sfumature dell’amore con urgenza e rabbia (Baby, Let Me Follow You Down) e del disamore con dolcezza (Don’t Think Twice it’s Allright). Non sapevo insomma che la cosa più autentica e rivoluzionaria di Bob Dylan (che ha dedicato a Sant’Agostino una delle canzoni del suo album più metafisico, John Wesley Harding), fosse il tono della sua voce.
   Difficile da definire. Se la grana inconfondibile della sua voce era “sabbia e colla”, come disse David Bowie, il tono è una scabrosità ondulata, una curva dell’anima che si sente nel cuore e nelle viscere. Una modulazione di cui si avverte tutta la fisicità, la corporeità, e allo stesso tempo la spiritualità, immanenza e trascendenza fuse insieme. Anni fa scrissi in un racconto che le canzoni di Dylan trasformano ogni cosa in paesaggio, anche un volto, ma che è per il fatto di rendere volti i paesaggi che non lo si può ascoltare a occhi chiusi. In realtà è un poeta da interni, si può dire di lui che mette il cielo in una stanza: lo ascolti, e la stanza si espande, avvicina e allontana, come una sistole e diastole, i corpi tra loro. Le sue sono canzoni d’amore anche quando parlano di tutt’altro, perché il loro tono è tattile, fa sentire lo spazio tra le persone. Ed è sempre il misterioso potere del tono quello che, come nella letteratura e nelle arti plastiche, ben oltre le tecniche e il soggetto, è alla radice delle nostre emozioni estetiche, cuore segreto di quel nostro riconoscere e aderire alla verità di un’opera: “sì, è così, è proprio così!”.
   Non a caso il più grande fotografo italiano, tra i più emozionanti autori di immagini del mondo, Luigi Ghirri, non smetteva mai di ascoltare Dylan, a casa o in macchina. Alla fine degli anni ’80 pensammo di fare un libro di immagini e testi datici da chi, tra amici e amici degli amici, riconosceva Bob Dylan come molto importante nella propria formazione ed educazione sentimentale. Il titolo doveva essere (al plurale) Simple twists of fate. Fernanda Pivano, in preda all’entusiasmo, lo recensì sul Corriere prima ancora che uscisse. Non uscì mai. Per uno scherzo (o svolta) del destino, Luigi Ghirri sparì all’improvviso. Non più feste di compleanno di Dylan il 24 maggio, con lo striscione For Ever Young appeso al balcone della sua casa rurale. O forse sì, perché sono entrambi giovani per sempre.
   Fu Luigi Ghirri a farmi leggere per la prima volta quel testo che Bob Dylan scrisse per l’amata Joan Baez: "Joan Baez in Concert, Part Two") E’ una lettera, una confessione, un manifesto di poetica: “Quand’ero ragazzo ero solito inginocchiarmi / su un campo ferroviario vicino a casa di mia zia / strappavo via i ciuffi d'erba dalla terra / selvaggiamente con tutte le radici / passavo ore intere a contarne i fili / e macchie di verde mi si spandevano sulle mani / aspettando di udire il suono / dei vagoni pieni di ferro delle miniere che arrivavano / i binari avrebbero cominciato a tremare ed io a mordermi / le labbra / strettamente mentre il fischio ululava...” Vengono in mente gli anni in cui era facile anche nella nostra città, prima delle tangenziali delle rotonde e del traffico, uscire con la macchina o la bicicletta, e subito trovarsi in una campagna che ricordava le copertine dei dischi americani degli anni ’60 e ‘70. Ma è importante il seguito di quello che scrive Dylan: “Lasciai che i simboli prendessero forma / e creassero per me un nemico da combattere / contro cui scagliare la lingua e ribellarmi / (...) / E il mio primo simbolo fu la parola ‘bello’ / Perché le ferrovie non erano belle / Erano nere per il fumo e dal colore di fogna / E puzza e fuliggine e polvere / Avrei giudicato la bellezza secondo queste regole / Accettandola solo se era brutta / E se potevo toccarla con mano / Perché solo allora avrei compreso / Dicendo ‘questo sì che è reale’...”. Ecco da dove vengono il suo tono, la sua coerenza, la sua stessa idea conflittuale della bellezza: dalla vita nuda, da uno sguardo che non discrimina mai ciò che è vero. Col tempo, ha scritto ancora Dylan, è riuscito ad accettare la bellezza anche della voce di Joan Baez, la pura bellezza senza conflitti; le vite degli altri, la bellezza sognante del sentirsi al mondo, lo stupore di abitare. Non mi ha meravigliato che un anno fa Dylan fosse stato arrestato nel New Jersey perché, vestito come un barbone, spiava con curiosità dalle finestre la casa in cui abitò Bruce Sprengsteen.
   Ancora oggi, quando ascolto Bob Dylan, mi sento come quando piove in estate. Alla fine della pioggia l’odore si sparge nella luce del giorno, e provo un’emozione intensa e dolce a camminare sui viali di foglie con le scarpe più grosse, quelle di fuori stagione; discrepanza che diventa così sinestesia, figura retorica sentimentale, la percezione insieme di un tempo abitato e un altro sognato. Come il mio essere a Parma, stasera. Ieri sera, dove scrivevo queste parole, ha piovuto un po’, e ho pensato: “nessuno sente nessun dolore / stasera” (nobody feels any pain)

6/13/2010

La scuola Rossellini e il popolo delle rane

Sto parlando nella scuola Roberto Rossellini con un mio collega, il regista Valerio Jalongo, autore di un bel documentario narrativo sulla deriva del cinema italiano (dagli anni Settanta ai “centoautori”), Di me cosa ne sai: dove si vede tra l’altro la prima spudorata menzogna liftata del premier, allora padrone soltanto delle tv, verso l’ultima battaglia culturale (politica) fatta in Italia, quella di Federico Fellini contro la pubblicità che interrompe i film. Jalongo e io abbiamo gli scrutini del corso serale, mentre le prime zanzare del vicino Tevere irrompono nelle aule. Siamo orgogliosi di insegnare in questo istituto professionale di cinema e televisione unico in Italia. Il suo futuro è incerto, grazie alla distruttività del governo, anche se gran parte dei tecnici che lavorano nel cinema e nelle tv di Roma e del Lazio hanno preso qui il diploma. Nato nei primi anni Sessanta in un luogo mitico, gli studi Ponti-De Laurentiis, dove sono stati girati film come La Strada di Fellini, fino a pochi anni fa Aurelio De Laurentiis ne condivideva gli spazi. Di recente il Rossellini è finito sui giornali per il geniale scherzo ai giornalisti di Mario Monicelli, che con la scusa di annunciare il remake de L’armata Brancaleone ha perorato gli studenti a ribellarsi contro i tagli alla cultura, a fare le barricate. E’ sempre qui, in questi edifici che sembrano un gioioso centro sociale, che ha l’ufficio e il teatro il produttore sognatore de Il Caimano, interpretato da Silvio Orlando.
Ecco, il caimano. Non volevo parlarne, ma è un dovere pedagogico di insegnante ricordare che, nella Storia, avviene come nel noto esperimento di laboratorio che dei ricercatori fecero con le rane. Lanciandole in una pentola di acqua bollente, esse saltano subito fuori per trarsi in salvo. Mettendole al contrario in una pentola d’acqua fredda e riscaldandola in modo lento e costante, le rane si abituano gradualmente alla temperatura senza turbarsi, finché è troppo alta per avere la forza di saltare, e muoiono bollite. Nelle dittature è la stessa cosa.

(rubrica domenicale, l'Unità del 13-6-2010)

6/06/2010

Guerra alla durata

Mio figlio mi ha chiesto tempo fa perché non prendessi una macchina nuova. “Tipo quella”, ha aggiunto indicandone una lussuosa (a mio figlio piace il lusso, pare sia diffuso tra i ragazzi della sua età). Gli ho risposto sorridendo che ero felice di non farlo, considerando un lusso la mia assenza di desiderio di una macchina nuova. Ho cercato di spiegargli che il valore del nuovo, per esempio valorizzare “una macchina nuova”, tutto sommato è una cosa recente, “nuova”. Non tanto tempo fa si dava valore alle cose che durano. “Hai presente – gli ho detto - quei negozi che hanno ancora quelle vecchie insegne, tipo Fondata nel ..., e poi una data? E’ così anche per certi prodotti”. Ecco una traccia della valorizzazione del tempo come durata. Oggi che la durata è un valore in via di estinzione, come il latino a scuola e le panchine per strada, si fa perfino fatica a fare degli esempi. Mi viene in mente l’esclamazione della grande Anna Magnani alla truccatrice di uno studio televisivo che si apprestava a farle sparire le rughe: “Per carità, non le tocchi, mi ci è voluta una vita per farle”. Mi vengono in mente (me ne parlava mio padre) le scarpe inglesi, classiche e molto resistenti. Ecco, forse è “classico” la parola agli antipodi della valorizzazione del nuovo in quanto nuovo, nell’epoca dell’usa e getta (come titola un bel libro di Guido Viale), in cui si è perduto l’uso e la memoria della manutenzione, e tutto si cambia al minimo logoramento, dai rasoi a telefonini (e vi sfido a trovare chi vi ripari il ferro da stiro o la lavatrice). Anche la democrazia è “classica”, come il welfare, i diritti, i doveri. Confesso che questo tema mi è venuto in mente di fronte alla furia distruttiva del nostro governo di fronte a cultura, scuola, cinema, di fronte a ogni istituzione deputata a conservare, mantenere, preservare, tramandare. Guerra alla durata. Allunghiamo le vacanze estive, dice l’ultima barzelletta del ministro dell’Istruzione, si risparmia. Aboliamo la realtà, dice il capo del governo (già principe del cerone e della chirurgia plastica), si vive meglio senza notizie e indagini infamanti. Questo però non mi suona nuovo.

(rubrica domenicale "acchiappafantasmi", l'Unità del 6 giugno 2010)