Mi fa un certo effetto che Bob Dylan - uno dei più grandi poeti contemporanei, il musicista che ha aperto la strada e indicato gli orizzonti (come disse John Lennon), quello di cui ho imparato le poesie (le canzoni) a memoria prima di quelle dell’obbligo, la voce che mi accompagna da sempre dandomi degli occhi per vedere e percepire il mondo, e che ho seguito per anni nei tour in Europa con una banda di altri dylaniati come me, da Luigi Ghirri (inventore del neologismo) a Giorgio Messori a Carlo Feltrinelli – mi fa effetto dicevo che lui suonerà stasera sotto le finestre della casa in cui ho abitato fino a pochi anni fa, nel Parco Ducale. E sarò ad ascoltarlo, forse un po’ imbarazzato di condividerlo col pubblico educato della nostra città, in quel giardino ordinato che una volta era un parco.
Sarò tra il pubblico col figlio della mia compagna, Martino, tredici anni e fan di Dylan da due: ne ha letto tutti i libri e ascoltato tutti i dischi. Lo interpreta già con la chitarra, come facevamo noi tardo-adolescenti. Perché ti piace, gli ho chiesto, perché lo trovi speciale? “Perché le sue mi sembrano poesie cantate”, ha detto pensoso. “Ma soprattutto mi sembra che negli anni, con tutti i cambiamenti che ha avuto, sia rimasto sempre lui”.
E’ vero. Per quanto io sia disincantato, per quanto Dylan, maestro beffardo del disincanto, abbia ininterrottamente decostruito se stesso, il suo stile e le sue stesse canzoni fino a renderle irriconoscibili (nel tour dell’anno scorso sembravano allegre marcette), c’è una continuità, una fedeltà a se stesso che va oltre la coerenza, percepibile anche da chi si accosta a Dylan per la prima volta. C’è una costante, una permanenza in tutti i suoi passaggi e trasformazioni, in tutte le sue ‘conversioni’, da quelle religiose a quelle musicali, come il famoso passaggio dalla chitarra acustica a quella elettrica, fischiato al Newport Folk Festival nel 1965 (Pete Seeger era furioso) e l’anno dopo a Londra e Manchester, in quel meraviglioso concerto (The Bootleg Series vol. 4) in cui, prima di attaccare Like a Rolling Stone, grida con voce umida di lacrime a un suo detrattore: “You’re a liar”, “sei un bugiardo”. E la costante, forse indefinibile, è l’essere insieme se stesso e poeta. “Come definirebbe il suo stile?”, gli chiese un dj svedese nel ’66. “Non ho mai sentito nessuno che suona e canta come me, quindi non lo so”, rispose Dylan.
L’ultimo scandalo è l’album di canzoni natalizie dell’inverno scorso, Christmas in the Heart: tra campanelline e coretti femminili stile radio anni ’40, con tanto di Adeste fidelis metà in latino e metà in inglese, e immagini kitsch di slitte e babbi natale, la sua voce rauca non cela l’ironia e il divertimento. Ma pochi sanno che i proventi delle vendite sono stati integralmente destinati agli homeless e alle associazioni non governative che combattono la fame, e l’unica intervista concessa dopo anni è stata a riviste free press di senza casa in America e in Europa. Alla domanda se lo shock dato da quest’album fosse pari alla svolta elettrica per i conservatori del folk, Dylan ha risposto: “Dicono che avrei dovuto essere più irriverente nei confronti di questo repertorio di canzoni. E’ un’affermazione irresponsabile. Non c’è già abbastanza irriverenza nel mondo? Ancora oggi i critici non sanno che farsene di me”.
Il suo essere sempre misteriosamente e autorevolmente se stesso fu sintetizzato dalla comica esclamazione di un giornalista negli anni del massimo successo (quando era uguale a Cate Blanchett che lo interpreta in I’m not there): “Alla fine si tolse gli occhiali scuri ma, non si sa come, riuscì a sembrare assolutamente uguale”. Con tutte le sue pose, Dylan non è mai stato in posa. Dietro i suoi atteggiamenti contraddittori, le sue maschere nude, il volto e l’arte di Dylan sono sempre gli stessi. Tratto magistrale: bisogna aver percorso molte strade per accorgersi di non avere mai lasciato la stessa strada.
Poi però Martino ha rivolto a me la stessa domanda. Perché mi piace così tanto Dylan? Dopo la sua, mi resta una sola, grande risposta, quella che sintetizza il cuore invisibile di ogni grande riuscita estetica (e quindi morale): il tono.
Nel concerto in provincia di Padova l’altra sera Bob Dylan ha fatto un blues impeccabile, ironico e inatteso, con la sua celebre Masters of War, dedicata ai mercanti d’armi e di morte (praticamente tutto il G8 e oltre). Avevo meno di 13 anni quando nel corridoio della scuola media “Pascoli” feci leggere a una ragazza che mi piaceva tantissimo la mia traduzione gonfia di retorica di Signori della Guerra, lasciando intendere che avrei potuto scriverla io. Mi davano un brivido profondo quelle canzoni dette allora ingenuamente di “protesta”, più delle poesie di Brecht o di Jacques Prévert. Non sapevo ancora che la vera protesta era parlare delle cose vicine, non di quelle lontane, e la libertà di sperimentare, sacrare e dissacrare e ancora risacrare, usare la parola “mamma” in una canzone (Tell Me, Momma), parlare delle sfumature dell’amore con urgenza e rabbia (Baby, Let Me Follow You Down) e del disamore con dolcezza (Don’t Think Twice it’s Allright). Non sapevo insomma che la cosa più autentica e rivoluzionaria di Bob Dylan (che ha dedicato a Sant’Agostino una delle canzoni del suo album più metafisico, John Wesley Harding), fosse il tono della sua voce.
Difficile da definire. Se la grana inconfondibile della sua voce era “sabbia e colla”, come disse David Bowie, il tono è una scabrosità ondulata, una curva dell’anima che si sente nel cuore e nelle viscere. Una modulazione di cui si avverte tutta la fisicità, la corporeità, e allo stesso tempo la spiritualità, immanenza e trascendenza fuse insieme. Anni fa scrissi in un racconto che le canzoni di Dylan trasformano ogni cosa in paesaggio, anche un volto, ma che è per il fatto di rendere volti i paesaggi che non lo si può ascoltare a occhi chiusi. In realtà è un poeta da interni, si può dire di lui che mette il cielo in una stanza: lo ascolti, e la stanza si espande, avvicina e allontana, come una sistole e diastole, i corpi tra loro. Le sue sono canzoni d’amore anche quando parlano di tutt’altro, perché il loro tono è tattile, fa sentire lo spazio tra le persone. Ed è sempre il misterioso potere del tono quello che, come nella letteratura e nelle arti plastiche, ben oltre le tecniche e il soggetto, è alla radice delle nostre emozioni estetiche, cuore segreto di quel nostro riconoscere e aderire alla verità di un’opera: “sì, è così, è proprio così!”.
Non a caso il più grande fotografo italiano, tra i più emozionanti autori di immagini del mondo, Luigi Ghirri, non smetteva mai di ascoltare Dylan, a casa o in macchina. Alla fine degli anni ’80 pensammo di fare un libro di immagini e testi datici da chi, tra amici e amici degli amici, riconosceva Bob Dylan come molto importante nella propria formazione ed educazione sentimentale. Il titolo doveva essere (al plurale) Simple twists of fate. Fernanda Pivano, in preda all’entusiasmo, lo recensì sul Corriere prima ancora che uscisse. Non uscì mai. Per uno scherzo (o svolta) del destino, Luigi Ghirri sparì all’improvviso. Non più feste di compleanno di Dylan il 24 maggio, con lo striscione For Ever Young appeso al balcone della sua casa rurale. O forse sì, perché sono entrambi giovani per sempre.
Fu Luigi Ghirri a farmi leggere per la prima volta quel testo che Bob Dylan scrisse per l’amata Joan Baez: "Joan Baez in Concert, Part Two") E’ una lettera, una confessione, un manifesto di poetica: “Quand’ero ragazzo ero solito inginocchiarmi / su un campo ferroviario vicino a casa di mia zia / strappavo via i ciuffi d'erba dalla terra / selvaggiamente con tutte le radici / passavo ore intere a contarne i fili / e macchie di verde mi si spandevano sulle mani / aspettando di udire il suono / dei vagoni pieni di ferro delle miniere che arrivavano / i binari avrebbero cominciato a tremare ed io a mordermi / le labbra / strettamente mentre il fischio ululava...” Vengono in mente gli anni in cui era facile anche nella nostra città, prima delle tangenziali delle rotonde e del traffico, uscire con la macchina o la bicicletta, e subito trovarsi in una campagna che ricordava le copertine dei dischi americani degli anni ’60 e ‘70. Ma è importante il seguito di quello che scrive Dylan: “Lasciai che i simboli prendessero forma / e creassero per me un nemico da combattere / contro cui scagliare la lingua e ribellarmi / (...) / E il mio primo simbolo fu la parola ‘bello’ / Perché le ferrovie non erano belle / Erano nere per il fumo e dal colore di fogna / E puzza e fuliggine e polvere / Avrei giudicato la bellezza secondo queste regole / Accettandola solo se era brutta / E se potevo toccarla con mano / Perché solo allora avrei compreso / Dicendo ‘questo sì che è reale’...”. Ecco da dove vengono il suo tono, la sua coerenza, la sua stessa idea conflittuale della bellezza: dalla vita nuda, da uno sguardo che non discrimina mai ciò che è vero. Col tempo, ha scritto ancora Dylan, è riuscito ad accettare la bellezza anche della voce di Joan Baez, la pura bellezza senza conflitti; le vite degli altri, la bellezza sognante del sentirsi al mondo, lo stupore di abitare. Non mi ha meravigliato che un anno fa Dylan fosse stato arrestato nel New Jersey perché, vestito come un barbone, spiava con curiosità dalle finestre la casa in cui abitò Bruce Sprengsteen.
Ancora oggi, quando ascolto Bob Dylan, mi sento come quando piove in estate. Alla fine della pioggia l’odore si sparge nella luce del giorno, e provo un’emozione intensa e dolce a camminare sui viali di foglie con le scarpe più grosse, quelle di fuori stagione; discrepanza che diventa così sinestesia, figura retorica sentimentale, la percezione insieme di un tempo abitato e un altro sognato. Come il mio essere a Parma, stasera. Ieri sera, dove scrivevo queste parole, ha piovuto un po’, e ho pensato: “nessuno sente nessun dolore / stasera” (nobody feels any pain)
Sarò tra il pubblico col figlio della mia compagna, Martino, tredici anni e fan di Dylan da due: ne ha letto tutti i libri e ascoltato tutti i dischi. Lo interpreta già con la chitarra, come facevamo noi tardo-adolescenti. Perché ti piace, gli ho chiesto, perché lo trovi speciale? “Perché le sue mi sembrano poesie cantate”, ha detto pensoso. “Ma soprattutto mi sembra che negli anni, con tutti i cambiamenti che ha avuto, sia rimasto sempre lui”.
E’ vero. Per quanto io sia disincantato, per quanto Dylan, maestro beffardo del disincanto, abbia ininterrottamente decostruito se stesso, il suo stile e le sue stesse canzoni fino a renderle irriconoscibili (nel tour dell’anno scorso sembravano allegre marcette), c’è una continuità, una fedeltà a se stesso che va oltre la coerenza, percepibile anche da chi si accosta a Dylan per la prima volta. C’è una costante, una permanenza in tutti i suoi passaggi e trasformazioni, in tutte le sue ‘conversioni’, da quelle religiose a quelle musicali, come il famoso passaggio dalla chitarra acustica a quella elettrica, fischiato al Newport Folk Festival nel 1965 (Pete Seeger era furioso) e l’anno dopo a Londra e Manchester, in quel meraviglioso concerto (The Bootleg Series vol. 4) in cui, prima di attaccare Like a Rolling Stone, grida con voce umida di lacrime a un suo detrattore: “You’re a liar”, “sei un bugiardo”. E la costante, forse indefinibile, è l’essere insieme se stesso e poeta. “Come definirebbe il suo stile?”, gli chiese un dj svedese nel ’66. “Non ho mai sentito nessuno che suona e canta come me, quindi non lo so”, rispose Dylan.
L’ultimo scandalo è l’album di canzoni natalizie dell’inverno scorso, Christmas in the Heart: tra campanelline e coretti femminili stile radio anni ’40, con tanto di Adeste fidelis metà in latino e metà in inglese, e immagini kitsch di slitte e babbi natale, la sua voce rauca non cela l’ironia e il divertimento. Ma pochi sanno che i proventi delle vendite sono stati integralmente destinati agli homeless e alle associazioni non governative che combattono la fame, e l’unica intervista concessa dopo anni è stata a riviste free press di senza casa in America e in Europa. Alla domanda se lo shock dato da quest’album fosse pari alla svolta elettrica per i conservatori del folk, Dylan ha risposto: “Dicono che avrei dovuto essere più irriverente nei confronti di questo repertorio di canzoni. E’ un’affermazione irresponsabile. Non c’è già abbastanza irriverenza nel mondo? Ancora oggi i critici non sanno che farsene di me”.
Il suo essere sempre misteriosamente e autorevolmente se stesso fu sintetizzato dalla comica esclamazione di un giornalista negli anni del massimo successo (quando era uguale a Cate Blanchett che lo interpreta in I’m not there): “Alla fine si tolse gli occhiali scuri ma, non si sa come, riuscì a sembrare assolutamente uguale”. Con tutte le sue pose, Dylan non è mai stato in posa. Dietro i suoi atteggiamenti contraddittori, le sue maschere nude, il volto e l’arte di Dylan sono sempre gli stessi. Tratto magistrale: bisogna aver percorso molte strade per accorgersi di non avere mai lasciato la stessa strada.
Poi però Martino ha rivolto a me la stessa domanda. Perché mi piace così tanto Dylan? Dopo la sua, mi resta una sola, grande risposta, quella che sintetizza il cuore invisibile di ogni grande riuscita estetica (e quindi morale): il tono.
Nel concerto in provincia di Padova l’altra sera Bob Dylan ha fatto un blues impeccabile, ironico e inatteso, con la sua celebre Masters of War, dedicata ai mercanti d’armi e di morte (praticamente tutto il G8 e oltre). Avevo meno di 13 anni quando nel corridoio della scuola media “Pascoli” feci leggere a una ragazza che mi piaceva tantissimo la mia traduzione gonfia di retorica di Signori della Guerra, lasciando intendere che avrei potuto scriverla io. Mi davano un brivido profondo quelle canzoni dette allora ingenuamente di “protesta”, più delle poesie di Brecht o di Jacques Prévert. Non sapevo ancora che la vera protesta era parlare delle cose vicine, non di quelle lontane, e la libertà di sperimentare, sacrare e dissacrare e ancora risacrare, usare la parola “mamma” in una canzone (Tell Me, Momma), parlare delle sfumature dell’amore con urgenza e rabbia (Baby, Let Me Follow You Down) e del disamore con dolcezza (Don’t Think Twice it’s Allright). Non sapevo insomma che la cosa più autentica e rivoluzionaria di Bob Dylan (che ha dedicato a Sant’Agostino una delle canzoni del suo album più metafisico, John Wesley Harding), fosse il tono della sua voce.
Difficile da definire. Se la grana inconfondibile della sua voce era “sabbia e colla”, come disse David Bowie, il tono è una scabrosità ondulata, una curva dell’anima che si sente nel cuore e nelle viscere. Una modulazione di cui si avverte tutta la fisicità, la corporeità, e allo stesso tempo la spiritualità, immanenza e trascendenza fuse insieme. Anni fa scrissi in un racconto che le canzoni di Dylan trasformano ogni cosa in paesaggio, anche un volto, ma che è per il fatto di rendere volti i paesaggi che non lo si può ascoltare a occhi chiusi. In realtà è un poeta da interni, si può dire di lui che mette il cielo in una stanza: lo ascolti, e la stanza si espande, avvicina e allontana, come una sistole e diastole, i corpi tra loro. Le sue sono canzoni d’amore anche quando parlano di tutt’altro, perché il loro tono è tattile, fa sentire lo spazio tra le persone. Ed è sempre il misterioso potere del tono quello che, come nella letteratura e nelle arti plastiche, ben oltre le tecniche e il soggetto, è alla radice delle nostre emozioni estetiche, cuore segreto di quel nostro riconoscere e aderire alla verità di un’opera: “sì, è così, è proprio così!”.
Non a caso il più grande fotografo italiano, tra i più emozionanti autori di immagini del mondo, Luigi Ghirri, non smetteva mai di ascoltare Dylan, a casa o in macchina. Alla fine degli anni ’80 pensammo di fare un libro di immagini e testi datici da chi, tra amici e amici degli amici, riconosceva Bob Dylan come molto importante nella propria formazione ed educazione sentimentale. Il titolo doveva essere (al plurale) Simple twists of fate. Fernanda Pivano, in preda all’entusiasmo, lo recensì sul Corriere prima ancora che uscisse. Non uscì mai. Per uno scherzo (o svolta) del destino, Luigi Ghirri sparì all’improvviso. Non più feste di compleanno di Dylan il 24 maggio, con lo striscione For Ever Young appeso al balcone della sua casa rurale. O forse sì, perché sono entrambi giovani per sempre.
Fu Luigi Ghirri a farmi leggere per la prima volta quel testo che Bob Dylan scrisse per l’amata Joan Baez: "Joan Baez in Concert, Part Two") E’ una lettera, una confessione, un manifesto di poetica: “Quand’ero ragazzo ero solito inginocchiarmi / su un campo ferroviario vicino a casa di mia zia / strappavo via i ciuffi d'erba dalla terra / selvaggiamente con tutte le radici / passavo ore intere a contarne i fili / e macchie di verde mi si spandevano sulle mani / aspettando di udire il suono / dei vagoni pieni di ferro delle miniere che arrivavano / i binari avrebbero cominciato a tremare ed io a mordermi / le labbra / strettamente mentre il fischio ululava...” Vengono in mente gli anni in cui era facile anche nella nostra città, prima delle tangenziali delle rotonde e del traffico, uscire con la macchina o la bicicletta, e subito trovarsi in una campagna che ricordava le copertine dei dischi americani degli anni ’60 e ‘70. Ma è importante il seguito di quello che scrive Dylan: “Lasciai che i simboli prendessero forma / e creassero per me un nemico da combattere / contro cui scagliare la lingua e ribellarmi / (...) / E il mio primo simbolo fu la parola ‘bello’ / Perché le ferrovie non erano belle / Erano nere per il fumo e dal colore di fogna / E puzza e fuliggine e polvere / Avrei giudicato la bellezza secondo queste regole / Accettandola solo se era brutta / E se potevo toccarla con mano / Perché solo allora avrei compreso / Dicendo ‘questo sì che è reale’...”. Ecco da dove vengono il suo tono, la sua coerenza, la sua stessa idea conflittuale della bellezza: dalla vita nuda, da uno sguardo che non discrimina mai ciò che è vero. Col tempo, ha scritto ancora Dylan, è riuscito ad accettare la bellezza anche della voce di Joan Baez, la pura bellezza senza conflitti; le vite degli altri, la bellezza sognante del sentirsi al mondo, lo stupore di abitare. Non mi ha meravigliato che un anno fa Dylan fosse stato arrestato nel New Jersey perché, vestito come un barbone, spiava con curiosità dalle finestre la casa in cui abitò Bruce Sprengsteen.
Ancora oggi, quando ascolto Bob Dylan, mi sento come quando piove in estate. Alla fine della pioggia l’odore si sparge nella luce del giorno, e provo un’emozione intensa e dolce a camminare sui viali di foglie con le scarpe più grosse, quelle di fuori stagione; discrepanza che diventa così sinestesia, figura retorica sentimentale, la percezione insieme di un tempo abitato e un altro sognato. Come il mio essere a Parma, stasera. Ieri sera, dove scrivevo queste parole, ha piovuto un po’, e ho pensato: “nessuno sente nessun dolore / stasera” (nobody feels any pain)
2 commenti:
Mi sono fermato alle presunte parole del figlio dell'attuale compagna. Ma come si fa a tredici anni ad avere la percezione del rimanere quello che si é. Ma, dico, a un età in cui, per fortuna, non si é ancora un bel niente, se si presume di dire una cosa simile di qualcuno, o si é bugiardi o si é presuntuosi. Sempre che queste due virtù non siano a carico del narratore: da sempre, un bugiardo.
Antonio
Dylan è uno dei personaggi più raccontati, fotografati, vivisezionati. i suoi dischi poi segnano più rotture, svolte ed epoche dei quadri di picasso. c'è molta diferenza tra un periodo e un altro. il ragazzo ha visto letto e ascoltato tutto questo (si chiama passione) e percepito che, con tutti i cambiamenti, Dylan è sempre lo stesso. Almeno secondo lui. E io sono d'accordo con lui. Per una volta non c'è bisogno di scomodare la virtù (?) del narratore, che - si sa - è sempre "un fingitore, e finge di provare quello che prova veramente".
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