4/30/2010

Buon Primo Maggio

E' vero che sono molto sensibile attualmente a Barcellona e, in particolare, al quartiere di Poblenou. Ma ho letto davvero un romanzo bellissimo, indipendentemente dal fatto che si svolga proprio lì: Non si deve morire due volte (No hay que morir dos veces) di Francisco Gonzàles Ledesma (Giano editore).
C'è poi queso dialogo, di cui ometto le parti successive, terribili (un elogio darwiniano della disuguaglianza da parte del potente capitalista della vecchia generazione Linares). Dice quest'ultimo al poliziotto anarchico Méndez:
"Lo sa lei a cosa serve il denaro?"
"A mangiare e a pagare il mutuo. E a volte a offrire da bere a qualcuno che si sente solo"
"Questi non sono soldi, Méndez".
"No".
"Con quelli non si scrive nessuna storia".
[...]
"(...) non credo che lei abbia il senso del denaro, Méndez".
"Non ne ho la minima idea" riconobbe lui.
"Prima di tutto serve per avere il potere. Con i soldi si costruiscono gli imperi; senza soldi si costruiscono solo le barricate".
"E le poesie".
"Le poesie a cui si riferisce sono quello che resta dell'ultima barricata, quello che resta quando tutti i suoi difensori sono morti".
"Sto imparando molto da lei, signor Linares"...
[...]

Dopo aver letto questo romanzo, un po' per caso, ho ascoltato la voce stanca ma vibrante di Ivan Della Mea cantare Franco Fortini. Ascoltatela anche voi, è bellissima. E' una poesia, appunto. E il suo tono mi è sembrato una perfetta continuazione di quello del romanzo di Ledesma: cioè un requiem, un canto funebre, e insieme colmo di una paradossale speranza:

http://www.youtube.com/watch?v=y67YCa1c1F8

(E' la versione dell'Internazionale di Franco Fortini che si rifà allo spirito della poesia comunarda ottocentesca di Eugène Potier).
Buon Primo Maggio a tutti.

4/26/2010

Sant Jordi, i libri e le rose (e la nave dei folli)


Cammino negli ampi marciapiedi della larghissima avenida Diagonal, diretto verso La Rambla. Anche qui, in questo quartiere di uffici e residenze di lusso, il percorso è costellato di ragazzi e ragazze coi banchetti di rose rosse, che offrono ai passanti regalando sorrisi. Sorrisi veri, dolci, come gentile (anzi, cortese) è l’atmosfera che si respira. Poi incontro i primi stand di libri, tende che espongono volumi ma anche  tavoli che annunciano con cartellini ordinati gli autori che nel corso della giornata si succederanno per firmare libri ai lettori. All’ennesima offerta di rose mi accorgo di essere un po' commosso. Il taxista il giorno prima mi aveva avvertito: “Quello di domani, è qui il giorno più bello dell’anno. Noi non festeggiamo san Valentino, ma san Jordi”. E’ la festa dell’amore, questa è la verità - anche se è nota al mondo come la festa dei libri e delle rose.
   Io sono arrivato qui con una stravagante compagnia di autori catalani e italiani in una nave carica di libri salpata da Civitavecchia. Ma che c’entrano i libri (e gli scrittori) con san Giorgio? Il fatto che il 23 aprile sia anche la data della morte dei due più grandi interpreti della follia amorosa e letteraria, Cervantes e Shakespeare, è un’ulteriore magica sincronia.
   Un amico poeta che era con me a bordo della nave, Sergio Zuccaro, ha sintetizzato così la storia: San Giorgio uccide il drago, e dal suo sangue ricava una rosa da offrire all’amata, la principessa - e fin qui è la leggenda ufficiale. Ma, continua l’amico, la principessa rifiutò quella rosa ancora sporca di sangue di drago, e San Giorgio, deluso, si convertì alla letteratura. San Giorgio, in realtà, è allora Don Chisciotte (o quest’ultimo ne è l’avatar). Si sa che Don Chisciotte, divenuto tale dopo aver letto i poemi cavallereschi, è uno dei primi esempi di conversione letteraria - dopo il celebre “Galeotto fu il libro” di Paolo e Francesca nell’Inferno di Dante. Conversione è sempre una “vita nuova”, rinnovata dall’amore. O dai libri. O dall’amore per i libri – di cui la festa di San Jordi sarebbe il festoso richiamo.
Tempo per sproloquiare e delirare ce n’è stato parecchio, durante la traversata del Tirreno a velocità di crociera sulla barca dei folli, o per meglio dire degli stravaganti – una comunità di lettori e scrittori messa insieme dalla rivista Leggere tutti di Sergio Auricchio sulla nave di linea della Grimaldi tra Civitavecchia e Barcellona. I giornali spagnoli hanno salutato tra gli altri la presenza a bordo, oltre del sottoscritto, di Valeria Parrella (che ha presentato agli studenti italiani di Barcellona il film di Francesca Comencini tratto dal suo romanzo Lo spazio bianco), Paolo Colagrande, Franco Matteucci, Brunella Schisa, Ennio Cavalli, dei catalani Eduardo Marquez. Marc Pastor e Maite Carranza, ecc. Ventiquattrore insieme su una nave come su una grande panchina galleggiante, luogo di re^veries e trasognamenti, a volte di saudade, come quei lettori belli da vedere che si isolavano sulle panchine più nascoste dei ponti a leggere un libro. Un porto franco del linguaggio, anche, proprio come accade sulle panchine. Per questo la crociera letteraria è stata una buona idea, perché ha ricordato che l’extraterritorialità del mare e l’extraterritorialità della letteratura in fondo coincidono, anche senza parlare del desiderio profondo di “evasione” da una realtà soffocante avvertito in questa epoca dagli italiani. Diceva il filosofo Michel Foucault che “la nave è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza navi, i sogni si inaridiscono, lo spionaggio sostituisce l'avventura, e la polizia i corsari”. A tenere svegli i sogni, sulla nave dei libri, la bravissima Alessandra Casella con la sua booksweb.tv, unica televisione votata integralmente ai libri.
Intanto sfoglio a poco a poco la città e arrivo a piedi in centro costeggiando decine di tende di librai, di associazioni, di radio, di editori, tutte votate ai libri e alle rose. Sulla Rambla la folla è immensa. Gli scrittori ispanici ci sono tutti, ma non mancano gli italiani. El Paìs, così come altri giornali spagnoli e catalani, ha salutato la novità dello stand delle librerie Arion che per la prima volta espone per San Jordi dei libri italiani in lingua originale: “Nella Rambla, all’altezza della metro di Drassanes, si parla italiano” – spiegava ieri il giornale spagnolo. “Già salendo le scale del suburbano, la melodiosa lingua di Dante si impone. E’ che la nutrita comunità di italiani residenti a Barcellona, 22.684 secondo gli ultimi dati, si sono dati appuntamento qui insieme agli 800 amanti della letteratura arrivati dal porto di Civitavecchia e sbarcati a Barcellona per vivere il loro primo Sant Jordi, convocati dalla rivista Leggere tutti...” C’è curiosità vera da parte dei giornali catalani sulla presenza degli italiani, i cui libri sono decisamente diversi da quelli di Federico Moccia - pure qui esposti in traduzione spagnola su molte bancarelle.
San Giorgio, i libri e le rose: il sogno cavalleresco di Don Chisciotte - trattare il mondo come se fosse un libro, e i libri come se fossero il mondo - si avvera collettivamente, pacificamente. Un’atmosfera che non sentivo dai primi festival della letteratura di Mantova: lettori che si incontrano, si toccano, per diventare – come diceva il giovane Holden - amici per la pelle.

(reportage uscito su l'Unità del 26 aprile)

4/25/2010

Buon 25 aprile, buona liberazione (cartolina d'auguri da Barcellona)

Mi sono venuti in mente i romanzi di Alvaro Mutis, il grande scrittore colombiano. Quelli con Maqroll il Gabbiere, marinaio che sta sempre sulla terraferma come Corto Maltese, e come lui attraversa con disinvoltura avventure straordinarie, incontra persone straordinarie che raccontano a loro volta cose straordinarie: cioè in realtà molto semplici, ma caratterizzate dalla libertà e capacità di assecondare il destino, e insieme anche di reinventare la propria vita, aprire orizzonti. Sono libri romantici: trovano infatti l’infinito anche nel finito. E ne ho parlato agli amici, seduti al sole al Café Orgasmic di Plaza Sant Agustin.
Mi sono venuti in mente perché sono a Barcellona, e questa città di mare, europea e capitale della Catalogna, aperta al mondo pur preservando una propria identità, è oggi l’esatto contrario del Paese da cui vengo, e di cui si celebra nell’indifferenza e ostilità di chi lo governa la festa più bella, quella della Liberazione dal fascismo. Se penso all’avventurosa semplicità dei romanzi di Mutis (è solo un esempio) è perché, agli antipodi della claustrofobia che dà oggi l’Italia, così chiusa e disperatamente compressa, sottovuoto, ciò che qui è normale - coesistenza di civiltà, agio e senso narrativo dell’esistenza - appare vivido, avvolto quasi da una sorta di shining. Un luogo dove essere stranieri è un valore, non una sudditanza, dove le spiagge sono libere e nessuna speculazione le sottrae alla vista e all’uso, dove iniziare un’attività è per tutti facile e non confligge con l’ottusità burocratica, dove ragazzi e ragazze omosex (anche questi è un esempio, ma importante) si baciano pubblicamente senza timore. Lo so che gli orizzonti di vita sarebbe auspicabile che fossero anche collettivi, ma anche una vita riuscita singolarmente (e una vita riuscita è innanzitutto una vita che sa raccontare se stessa, passato e futuro, memoria e progetto) è già molto importante. Per questo dedico queste mie parole all’amico di Valeria Parrella, un giovane italiano che qui è rinato, e frequentando i corsi gratuiti di cucina catalana ha conosciuto il suo amore cileno; alla poetessa colombiana amica di Sebastiano, giovane architetto italiano che vive qui da anni; ad Andrea, proprietario del Melocomo, bottega di prodotti e cucina italiana nel bellissimo quartiere di carrer Pujadès, che mi ha invitato da lui a leggere racconti forse solo perché, in un mio vecchio libro, scrissi che “le nuvole sono bianche perché il cielo è azzurro”. E a Valeria, Adriana, Jèssica, Tabata, Alessandra, Paolo, Italo, Sergio... e tutti coloro che condividono questo piccolo scorcio sull'esistenza. Buon 25 aprile a tutti voi.

(rubrica "acchiappafantasmi", saltata per ragioni tecniche da l'Unità di domenica 25 aprile

"Il cacciatore di leoni"


[Eugène Pertuiset, il personaggio ritratto da Manet nel famoso quadro "Le chasseur de lions"]

Un critico francese l’ha sintetizzato così: “è la storia di un idiota” (nel senso di Flaubert, non di Dostoevskij): un Tartarin di Tarascona enfatico, tronfio, sentimentale, corpulento e sciocco, lontanamente simile nel volto a Dumas padre. Si chiama Eugène Pertuiset, e appare nella prima pagina del romanzo come soggetto ritratto nel quadro Le chasseur de lions, dipinto da Edouard Manet nel 1881. Il narratore, che supponiamo chiamarsi Olivier Rolin come l’autore del romanzo, lo vede al Museo di San Paolo in Brasile, si invaghisce dell’improbabilità e incongruenza di questo personaggio e ne percorre le gesta. Bizzarra sintesi di Bouvard e Pécuchet in una sola persona (anche i riferimenti ai fumetti di Tin Tin di Hergé non mancano nel libro), vediamo il goffo Pertuiset cacciatore di leoni in Algeria, trafficante d’armi in Perù, cercatore di tesori nella Terra del Fuoco e, cosa più sorprendente di tutte, amico del raffinato pittore Edoaurd Manet, che l’accompagnò ironicamente anche nell’inutile attesa di essere ricevuto da Napoleone III° alle Tuileries, per donargli la pelle di un leone come scendiletto. Vediamo quindi Manet, osservatore della Storia e delle storie umane sotto il Terzo Impero e gli inizi della Prima Repubblica in Francia, durante la Comune di Parigi e il suo doloroso assedio da parte dell’esercito prussiano.
Come un personaggio-narratore di Allan Poe o di Henry James, di cui condivide il penchant visionario, il narratore Olivier Rolin entra nel quadro come si entra nella cifra di un tappeto o nei suoi arabeschi, e vi viaggia dentro attraversando mondi, ma senza dimenticare la propria soggettività. Mondi reali, storici, vissuti; mondi possibili, veri perché immaginati. Con frequenti incursioni nel proprio, di mondo, perché è sempre corretto dire dove nasce e cosa ha attraversato il proprio sguardo di narratore e avventuriero. Olivier Rolin, l’autore di Méroé e di Port-Soudan, ora anche di Bakou, derniers jours (tutti editi da Seuil, di cui è consulente) è infatti noto anche come viaggiatore e osservatore del mondo, reporter che all’occorrenza si mette a nudo come l’Olympia di Manet. Qui, sotto gli occhi del lettore, scorre un universo incantato in cui la Storia e le sue microstorie rimbalzano tra loro più romanzesche di una finzione. Una lezione utile per i narratori nostrani “di genere”.
Sfilano i rivoluzionari di Lima e quelli della Comune di Parigi (e quelli del ’68 francese, di cui Rolin fu protagonista); sfilano i pittori e le modelle, gli scrittori e i mercanti d’armi (Rimbaud fu entrambe le cose), Victor Hugo e Baudelaire, Regnault, il pittore di Salomé amico di Mallarmé, Berthe Morisot, la modella preferita di Manet. Sfilano mongolfiere e patrioti, soldati prussiani e ribelli peruviani, fucilazioni in entrambi i mondi, Manet che prosegue Goya nella rappresentazione della morte e delle umane miserie, come nella cartolina postale della fotografia (una delle prime della Storia), che ritrae in Perù un plotone di 15 uomini che giustizia tre persone, e dove il mercante Pertuiset scrive retoricamente sul retro a Manet: “Caro Maestro, le Sue opere sono più vere della realtà”. Manet, infine, luogotenente nell’artiglieria della Guardia nazionale, unico pittore impressionista rimasto in una Parigi come “un campo trincerato” dove si mangiano i gatti. Manet di cui ci resta impressa la descrizione nella pausa di silenzio della pittura mentre ritrae Berthe Morisot, pallida e magra, le labbra rosse, febbrile e sensuale, cappello in testa e mantello di pelliccia. Manet che dipinge il riposo, Le repos, e il narratore, cioè Olivier Rolin, così conclude la scena: “Intorno a questa ragazza e al suo pittore, intorno ai loro sguardi che si incrociano, c’è la città assediata, l’inverno, la guerra. Dopo cosa accadde? Non si sa. Il romanzo non lo sa, non può tutto”.

[uscito su la Stampa del 23-04-2010]

4/17/2010

Il fallimento della politica e la forza della narrazione

Il fallimento di una intera classe politica – e parlo qui della sinistra – è dimostrato anche dalla percezione collettiva che, da anni, l’unica opposizione culturale (cioè politica) in Italia sia fatta dai comici; e, più sporadicamente, dagli scrittori. E’ segno di un fallimento della politica anche l’invito, per quanto minoritario, a Roberto Saviano perché si candidi alle elezioni (politiche o regionali non importa). Saviano è uno scrittore esemplare perché ha avuto l’onestà e la forza di raccontare in soggettiva, senza occultare cioè dove nascono il suo sguardo e tono narrativi, la realtà documentaria di crimini contro l’umanità che avvengono nel nostro Paese. Che forse altri sapevano, magari politici di professione, ma non li hanno ritenuto degni di essere detti. Non a caso il nostro primo ministro, che quando non indossa il temibile “giaccone di Putin” è un noto benché mediocre barzellettiere, lo attacca pubblicamente e sciaguratamente: perché sa che con la forza del racconto Saviano ha reso nuovamente visibile lo scempio e l’intreccio di mafie e politica nel cuore dello Stato.
In Italia la destra, per quanto la più becera d’Europa, conosce la forza della narrazione. Come ho scritto altre volte su queste pagine, è grazie a un potente apparato ideologico-narrativo (i cosiddetti “valori”, per quanto eterocliti o contraddittori), che le destre hanno intrapreso un’ascesa politica vincente. Il fallimento che si protrae da ormai troppo tempo della sinistra (con l’eccezione significativa di Nicki Vendola), si può anche sintetizzare così: l’avere rimosso il tema cruciale delle narrazioni, della forza del racconto, un “dare senso a questa storia”, ciò che un tempo si chiamava “mito”. Non è possibile fiducia né orizzonte, né una visione del mondo, né un cambiamento, senza la forza di una narrazione, un racconto che ci porti mentre noi lo portiamo.

(rubrica "acchiappafantasmi", domenica 18 aprile su l'Unità)

4/11/2010

Il volto che s'offre (etica e fantasma)

“Il volto è rivolto a me, è questa la nudità stessa”. Ripenso a questa frase del filosofo Emmanuel Levinas a proposito della nuova Ostensione della Sìndone a Torino, meta di pellegrinaggio. Perché è importante? In un mondo in cui si fanno guerre per non guardarsi in faccia, e si trasformano le singole vite in cifre statistiche o “danni collaterali”; dopo secoli di fisiognomica, ossia tentativi razionali di assoggettamento e annullamento del volto (dell’alterità) dell’altro, la contemplazione dell’impronta di un volto non può che dare speranza.
Si sa, la Sìndone non raffigura Cristo, ma un povero cristo, il lino è medievale, ma che importa: la sua eccezionalità, disse Papa Woytila nel 1998, è nel testimoniare le più intime e private delle impronte, gli umori del dolore (sudore e sangue) che la morte ha fissato sul lino: “icona della sofferenza dell’innocente di tutti i tempi”. La Sindone commuove per la sua nudità inerme: volto che soffre, che s’offre. Testimonianza, non reliquia, aggiunse Woytila: “la contemplazione di quel corpo martoriato aiuta l’uomo contemporaneo a liberarsi dalla superficialità e l’egoismo (…), ricorda all’uomo moderno distratto dal benessere e dalle conquiste tecnologiche, il dramma di tanti fratelli, e lo invita a interrogarsi sul mistero del dolore”.
La Sìndone è una ghost story che ammonisce alla sacralità assoluta del volto del prossimo, dello straniero; che ricorda i volti dei morti e dei dispersi, e l’obbligo dell’accoglienza; fino allo scandalo dei volti velati delle donne, o coperti dal burka, oggi per noi la nudità più inerme, ma inaccettabile. E’ l’archetipo del volto che sfugge all’imposizione poliziesca e razzista dell’identità, e che, agli antipodi del ritratto, è tanto più volto quanto più è sfuocato, frontale, fantasmatico, e soprattutto anonimo [proprio come nelle immagini di volti di morti, sgranate e ingrandite, cui ci ha abituati da anni Christian Boltanski].
Questo della Sìndone ci commuove.

(L'immagine riportata sopra è della mostra di Christian Boltanski Après appena conclusasi a Vitry-sur-Seine, Parigi)

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità dell'11 aprile 2010)

per un approfondimento sul tema del volto, in opposizione al ritratto, cfr., tra l'altro, questo articolo apparso su l'Unità del 27/3/2003)

4/04/2010

La lista della felicità

Sono in forma di elenco le poesie più emozionanti, da leggere e rileggere, come “Valore” di Erri De Luca (da Opera sull’acqua e altre poesie: “Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca” (...) Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido....”); o come “Felicità” di Jorge Luis Borges, e soprattutto la bellissima “I giusti”.
James Hillman (Politica della bellezza) parla molto di felicità (e del valore pischico della bellezza), come dovrebbe in fondo ogni politico e amministratore, anche se da noi lo fa solo Nicki Vendola. E se di “valori” si sproloquia molto, la sinistra in Italia ne ha lasciato il monopolio alla destra - i cui valori, per quanto spesso aberranti, ne sono il collante, oltre ai soldi del Capo. In Francia il giornale Libération ha promosso un convegno sulla “felicità”, mentre in Italia è stata evocata la classifica dei lettori della vecchia rivista satirica Cuore delle “cose per cui vale la pena vivere”, al cui vertice c’era il sesso (tante cose seguivano, dalla birra fresca agli occhi un neonato). In Harry a pezzi di Woody Allen c’era questo dialogo quasi politico dello scrittore Harry con la sorella: “Ti ha riempito la testa di superstizioni” (la rimprovera riferendosi al marito). “Di tradizioni!”. “La tradizione è l’illusione della perpetuità”. “Tu non hai valori, tutta la tua vita è nichilismo, cinismo, sarcasmo e orgasmo”. Ed è sempre di Allen, in Manhattan, il monologo matrice sulle “cose per cui vivere”. Disteso sul divano, la testa sul bracciolo, parla da solo esitante: “Un film del vecchio Groucho Marx, tanto per dirne una, Joe Di Maggio, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, Louis Armstrong, l’incisione di Potato Head Blues, i film svedesi naturalmente, L’educazione sentimentale di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne, i granchi da Sam Wo, il viso di Tracy...”.
E rilanciare l’idea anche noi, in forma narrativa e progettuale?

(rubrica "acchiappafantasmi", uscita su l'Unità, domenica 4 aprile)