3/04/2010

Andare al Liceo classico a Parma negli anni Settanta

Ieri mi ha telefonato il nuovo direttore di un giornale di Parma (non la tradizionale Gazzetta), Emilio Piervincenzi, ex di Repubblica, per chiedermi se collaboravo in generale e se in particolare già ieri gli mandassi un mio ricordo del Liceo classico G.D. Romagnosi (di Parma), dove pare stia scoppiando un casino rimbalzato sui giornali nazionali (Preside contestata dagli studenti, e ora anche dagli insegnanti: v. La Stampa di ieri). Era un invito sentimentale da cui non potevo esimermi. In fretta, verso sera, ho scritto questa cosa qui, che appare oggi sulla prima pagina di Polis (www.polisquotidiano.it). E'dedicata in generale agli anni Settanta, mi pare...

Fu il periodo della vita in cui mi sono sentito più adulto: una promozione esistenziale, un punto d’arrivo, accompagnato da un senso di superiorità euforizzante. Ero grande, ero al ginnasio. Parlarne, però, è di una difficoltà esorbitante: come è possibile dire gli anni del liceo, fase finale dell’adolescenza in cui si scopre tutto con un’intensità irripetibile, e di fronte a cui la vita successiva appare come una serie di repliche con commento? Se poi penso che erano gli anni Settanta, epoca feconda e tuttora impensata, ma la più banalizzata dai media (alla tremenda formula “anni di piombo” contrappongo sempre quella di “anni di carne” e d'anima - di idee, di passioni, di sperimentazioni di linguaggi, di poesia), il mio senso di aurora della vita si ispessisce. Facevo parte, al Romagnosi, non solo del “collettivo” degli studenti, ma di un gruppetto culturale che si riuniva in un’aula al pomeriggio a leggere testi filosofici europei, mischiati alla “controcultura” americana. Qualcosa vuol dire se nessuno degli autori che scoprivamo allora mi sembra superato dai fatti, tanto meno dalla teoria; e che, nella musica, la maggior parte della produzione recente è una cover (replica con commento) di quella degli anni Settanta.
Dunque, il Liceo Ginnasio “G. D. Romagnosi”. Dalle foto che ho scorso sul sito Internet (una palestra scintillante, un’aula di informatica), credo proprio che non ne riconoscerei gli interni. Ma da fuori è sempre quello, rosso e bianco che si sporge sul Lungoparma, a due passi da uno storico ponte. Rivedo le grandi finestre a pianterreno, a sinistra dell’ingresso, la cui progressione segnava quella delle classi del Liceo, sezione B. E’ posto all’indirizzo più parmigiano di tutti, Viale Maria Luigia 1, anche se, nato e residente di fronte al Collegio Maria Luigia (che appariva allora il simbolo un po’ arrogante dell’autosufficienza dei ricchi), non ci facevo caso.
Ricordo le lezioni sussiegose dell’anziano insegnante di Italiano e Latino, che mi si confondono nella testa con le frasi farcite di aggettivi del gergo critico dell’antologia, dove il verso del poeta è sempre “potente”, il suo “ripiegamento” (ovviamente “interiore”), è sempre “virile”, e così via. Ricordo che, per evitare non so più quale punizione del preside per non so più quale infrazione, scrissi una lettera apologetica usando un fraseggio buono per una dissertazione su Petrarca (“cosa è mai quello che ho fatto di fronte all’eternità, e alla fragilità effimera delle cose terrene?”). Funzionò, incredibilmente. Avevo distratto l’autorità con la forma delle parole. Nonostante la si vivesse come scuola di retorica (ma anche la retorica è una cosa vertiginosamente seria), il Liceo Classico, ne sono convinto, è la miglior scuola che c’è, comunque sia l’unica il cui curriculum studiorum poggi su un’idea. E questo è tanto più attuale di fronte allo svilimento del linguaggio (che precede e sempre quello verso le persone), dell’educazione, del sapere, di tutto ciò che, in nome del profitto a breve termine, viene a torto e ciecamente considerato inutile. Il mio insegnante preferito era quello di greco, che col suo antico accento pugliese faceva sentire il suono della lingua di Omero, e per il quale volentieri s’imparò a memoria buona parte del Canto VI dell’Odissea. Ma, si sa, a scuola ciò che si impara, ciò che emoziona davvero, è altro dal programma di studi.
Ricordo le riunioni del collettivo trainate dalla verve di A. C., e la presenza di R., la ragazza dal volto sognante che incarnò per anni quello che mi piaceva e mi commuoveva di più: se, per dire, vedevo il mitico film Zabriskie Point, naturalmente era lei la ragazza della scena d’amore nella Death Walley col blues di Jerry Garcia. Lei faceva l’ultimo anno, io il primo, e si capisce quanto platonico potesse essere il rapporto. (Ma poiché le promesse importanti si mantengono tutte, lo vissi anni più tardi, come se avessimo preso una macchina del tempo).
Ricordo un mio gilet largo e azzurro pallido che mi sembrava bellissimo, una giacca di pelle marrone alla Bob Dylan di cui mi accorgevo solo io. Ricordo un’altra ragazza che mi prestò Killing me softly cantata da Roberta Flack (ben prima dei Fugees), e il tentativo precocemente ridicolo di farmi crescere la barba. Ricordo la prima volta che, ginnasiale, presi la parola balbettando all’assemblea generale. Era importante, l’assemblea. Erano importanti (leggi formativi) anche i conflitti. Facevo il Romagnosi quando scrissi, e pubblicai, le mie prime poesie. Volevo essere un poeta beat.
L’adolescenza è l’epoca delle più potenti sinestesie, figure retoriche che consistono nel mischiare le sfere sensoriali, e che si apprendono a scuola con Dante (più tardi con Baudelaire e Rimbaud). Esse svelano però il loro senso vivo dopo una pioggia d’estate con l’odore dell’asfalto bagnato e perdi il senso del calendario, o l’odore di piscina sui capelli della compagna di scuola che ti piace, quando la incontravi “per caso” alla solita panchina dello Stradone. O nel languore erotico di una riunione del collettivo degli studenti a casa di lei in cui si parla di sciopero, con un’aria di innocente carboneria che è in realtà il tentativo di rifondare lo sguardo e il mondo, cioè se stessi, con un senso di comunione che non impediva di preservare la propria solitudine. Ero al mio primo anno al Romagnosi l’inverno fiabesco del ’73, quando grazie all’austerity le città scoprirono nuovi modi e sobri di vivere lo spazio senza auto, e in Piazza Garibaldi vidi passare una carrozza con cavalli: proprio quella domenica mattina in cui vi fu la riunione in casa di lei, dove arrivai in anticipo e restai a lungo beato. Immaginate una città piena solo di biciclette, però a colori sgargianti, non come nei documentari sulla Liberazione.
In un’epoca, quella di oggi, in cui la politica si confonde con la pornografia, ha senso solo ciò che è in vendita e l’unica realtà condivisa si chiama reality, è difficile spiegare queste emozioni. Erano anni in cui i social network non erano dietro lo schermo in plasma di una vita virtuale, ma un’esperienza fisica e spaziale, nelle piazze, quando ci si poteva sedere sui gradini dei monumenti e si era cittadini a pieno titolo invece che clienti. Nella piazza si mescolavano anziani col cappello portatori di memoria, e giovani dai capelli lunghi portatori di utopie da realizzare. Erano anni in cui la politica stessa era erotismo, non pornografia; e l’erotismo, proprio come deve essere, era tutt’uno con la cultura, il leggere, l’immaginare. (La perdita della dimensione erotica della cultura, che è felicità della mente, è la perdita più grave della nostra civiltà).
Ero al mio l’ultimo anno al Romagnosi quell’inizio di marzo in cui, alle 10,30 circa del mattino, arrivò la notizia del rapimento di Aldo Moro, e spontaneamente in tanti uscimmo dalle classi, spaventati e turbati, e qualcuno diceva che forse dovevamo scappare in montagna, come durante il fascismo. Fu un attentato alle nostre vite e alla nostra giovinezza, fu l’inizio di una deriva che macinò tante vite, tra deliri di lotta armata e l’irruzione massiccia dell’eroina.
“C’era una volta la memoria...”
E’ per non dover mai cominciare così una storia, che amo e sostengo il liceo classico e i valori che trasmette. Quanto agli insegnanti, chiederei loro di essere guide, formatori di autodidatti. Ciò che non ho mai smesso di essere.

7 commenti:

Anonimo ha detto...

caro beppe
pensavo che non si potesse scrivere dei ricordi del liceo, pena lo scadere nella nostalgìa e, ancor peggio, nella retorica irritante del "mi ricordo".
Non per te che hai una visione, come ti ho detto altre volte, filosofica. Mi spiego. Qualsiasi argomento ti accada di de-scrivere è messo in relazione con tutto lo scibile, da omero in poi. Sia esso panchina, oggeto smarrito o autista di teste coronate.
Il respiro è profondo e avvolge anche il lettore che sente di partecipare totalmente all'accadere. Non si tratta solo della sua psicologia, disastrosa per la letteratuta novecentesca, o peggio ancora, della sua sociologia.
Insomma, per non farla troppo lunga, il tuo "ginnasio" non è soltanto fatti tuoi ma bene prezioso di tutti. Gli anni Settanta non soltanto un decennio del Novecento bensì un'epoca estremamente creativa del calendario giuliano.
A proposito, io ero già un aviatore, ma ora capisco, in attesa di incrociare i miei voli con i tuoi che annusavano le favorevoli portanze sul lungoparma.
un saluto
piumalarga

Beppe Sebaste ha detto...

il tuo 'commento' è uno scritto bellissimo, caro sergio. grazie di cuore.

Gaia Chernetich ha detto...

Caro Beppe,
i tuoi racconti mi hanno riportata ai miei anni del liceo, terminati - per la cronaca - non più di sei anni fa. Devo confessare un certo imbarazzo, perchè alla pienezza del tuo racconto sono costretta a contrappore una certa sensazione di vuoto, unico residuo della mia personale esperienza liceale. Qualche emozione c'è stata, certamente...le lezioni di filosofia, la professoressa di letteratura inglese che spiegava T.S. Eliot recitando la Waste Land a memoria, i compiti in classe di fisica in cui miracolosamente riuscivo ad andare bene, ...ma tutto questo mi sembra lontano anni luce da quello che racconti. Sono anni vuoti di speranze, questi. Sono vuoti di quell'erotismo di cui dici e che ho conosciuto anch'io attraverso le parole di mio padre. So di appartenere ad una generazione inutilmente "dannata", che non avrà molto da raccontare. Che tristezza!

G.

Beppe Sebaste ha detto...

cara Gaia, su quello che mi dici in realtà credo che la mia generazione qualche responsabilità ce l'abbia. quando io ero studente c'erano una schiera di fratelli e sorelle maggiori, le generazioni più grandi che ci hanno volentieri e senza supponenza accompagnati. che ci hanno trasmesso cose, idee, forme. in sintesi, credo che noi non abbiamo saputo o potuto trasmettere, e abbiamo in qualche modo sospeso o interrotto, per incapacità, sconfitta o egoismo, un certo senso narrativo del'esistenza. che è poi il vero senso della parola "precarietà" (noi siamo gl ultimi ad averla vissuta con gioia e per scelta). come è successo? forse abbiamo una nostra innocenza: siamo stati feriti (alcuni a morte) perché eravamo lì, esposti e in prima linea, ignari della rastaurazione incombente. non ci siamo voltati troppo a raccontarvi né ad accompagnarvi, come invece è accaduto a noi.
siamo ancora in tempo a farlo?
un sorriso, beppe

The Jash ha detto...

L'esegesi dantesca dovrebbe venire integrata. Perché?
Eccolo!

http://www.youtube.com/watch?v=wV4vEG15yjA

Maurizio Spagna ha detto...

RIFLETTENDO SU PARMA
…non riesco a smettere di pensare
ai primi anni, alle prime corse in amore,
alla mia sorprendente ed unica città…
PARMA ILLUSTRE.

Come lei
La mia città
Goffa e rigida
Ma sempre in posa
Per un colpo da copertina.

Prego, mi chiamo Parma
Insisto
Mi ripresento
Sottolineando Parma.

Come lei
La mia città
Un’aria vagamente francese
Capigliatura foltissima
Verde contadina
E lucente di cultura.

Come lei
La tua città
È sempre la più bella che tu abbia mai veduto!

Riflettendo su Parma
La prendo sottobraccio
Con gli occhi indiscreti, cortesi e lucidi
Di un portagioie
Che ti crea,
Ti emoziona
E ti scopre, sposata al mondo.

Come lei
La tua città
La voce è la tua opera,
la tua rock-band,
La più bella che tu abbia mai sentito!

L’ospite è lungo la via,
È al giardino
Di un riordinato museo,
È nella piazza
In una scalinata, scaletta sul palco,
L’ospite è al raduno
E gli lancio, il mio cappello fraterno.


©2010
di Maurizio Spagna
www.ilrotoversi.com
info@ilrotoversi.com
L’ideatore creativo,
paroliere, scrittore e poeta al leggìo-

Anonimo ha detto...

Pensare ancora a quel buffone di Moro, uno dei tanti che non e' mai servito a niente, i cui figli hanno fatto carriera nelle banche et similia, mi fa credere di aver sbagliato nazione...Altro che scappare in montagna!! Festa grande , dovevano macellarlo subito..