La vita è un viaggio, e il viaggio in mare (“il gran mare dell’esistenza”: Platone nel Fedone) col pericolo di naufragi e inabissamenti (da Enea al Titanic), è tra le metafore più usate dall’antichità, sia in filosofia (“voghiamo su un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti”, scrive Pascal) che in letteratura. Il naufragio ha ispirato ai pittori una una traversata del “sublime” in una galleria di tempeste e naufragi colma di voluttà, da Turner a Frederich, da Géricault a Delacroix (vedi il recente Esperanza Guillén, Naufragi. Immagini romantiche della disperazione, Bollati Boringhieri). Ha affascinato poeti e romanzieri da Omero a Virgilio, dal Robinson Crusoè al Gordon Pym di Edgar Allan Poe, da quello ferocemente ironico della barca “Provvidenza” ne i Malavoglia di Verga, a quelli di Antonio Tabucchi in Donna di Porto Pym. Dante evocò, identificandosi in lui, Ulisse, simbolo non solo di avventura, quanto del naufragio e del "folle volo"\cui si espone chi compie una grande impresa (come Dante nell’oltretomba). Ma cosa sarebbe un viaggio senza la possibilità del naufragio, del non arrivare in porto (da cui il termine “opportunismo”)? Il bello della vita non è quando, per fortuna, non va secondo i nostri piani e ci sorprende?
“Naufragio”, concordano i dizionari, ha almeno due sensi. Quello di “affondamento di una nave in mare per eventi avversi, per incagliamento o altro”, e quello figurato di “evento rovinoso, sventura, esito gravemente negativo, fallimento”. E subito mi viene in mente il magnifico “Fallire. Non importa. Provare di nuovo. Fallire meglio” di Samuel Beckett ("ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better).
Il filosofo Hans Blumenberg scrisse un libro, Naufragio con spettatore, prendendo spunto dai versi di Lucrezio nel De rerum natura: “Bello, quando sul mare si scontrano i venti / e la cupa vastità delle acque si turba, / guardare da terra il naufragio lontano: / non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina / ma la distanza da una simile sorte”. Per Blumenberg l naufragio diventa nella modernità l'occasione di una scelta di campo: essere nomadi e avventurosi, a rischio del naufragio; oppure restare a riva, stanziali, spettatori più o meno morbosi edestetizzati, o più o meno empatici dei naufragi altrui. E’ una buona profezia della televisione, se ci pensate: il naufragio tra una pubblicità e l’altra di yogurt, di condizionatori d’aria o di viaggi organizzati, ad esempio. Ma non tiene conto dell’esperienza di essere insieme naufraghi e spettatori: di se stessi. Che è la chiave forse dell’estetica (e del romanzo) attuale, che ha tra i suoi grandi precursori la meravigliosa ode al sogno di Giacomo Leopardi (“il naufragar m’è dolce in questo mare”: dove il "questo" diviene l'"infinito"), e il paradosso del naufragio beato reso esplicito da Giuseppe Ungaretti nel 1917 (in piena guerra mondiale): Allegria di naufragi, la felicità del superstite (“E subito riprende / Il viaggio / Come/ Dopo il naufragio / Un superstite / Lupo di mare”).
“Il mare fa paura”, dice l'avvio di una bellissima poesia di Eduardo de Filippo. No, il mare mon c'entra. "Il mare fa solo il mare”.
[una versione più breve di questo articolo è uscita oggi, domenica 19 luglio 2009, nella mia rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità]
5 commenti:
Bello...
Non c'entra con i naufragi, però leggendo questo post mi è tornata in mente la triste e bellissima chiusura di Martin Eden "Ondeggiava languidamente, cullato da un fiotto di visioni dolcissime: colori delicatissimi, una radiosa luce lo avvolgevano, lo penetravano." E poi ( non ce n'è per nessuno) "E nel momento stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo". Se non avessimo letto che sta sprofondando nel nero più profondo del mare, si potrebbe pensare a un processo di illuminazione...
proprio così... (ciao rossana!)
lo sai che quella chiusa, e Martin Eden in generale, mi toccarono e turbarono molto nella mia dlesvenza. E' forse il primo libro "serio" che vevo letto - su istigazione di mio padre (che malizia, mio padre; o che ingenuità...).
ma così, coincidenza di naufragio (inabissamento) e salvezza (illuminazione). grande jack london.
Splendido pezzo, profondo e intenso. Grazie, caro Beppe...
bel pezzo, lo metto nel mio blog...viene in mente anche Schopenhauer:
Prima di tutto: nessuno è felice, ma per tutta la vita aspira a una presunta felicità, che di rado raggiunge e, se la raggiunge, è solo per esserne deluso: ma la regola è che alla fine ognuno giunga al porto avendo fatto naufragio, e senza più alberi. Ma allora è indifferente che egli sia stato felice o infelice, in una vita fatta solo di presente privo di durata e che ora ha una fine.”
Posta un commento