“Lei va mai alle corse?”, chiese Ernest Hemingway al suo intervistatore. “Sì, qualche volta”. “Allora legga il Bollettino delle corse. Quella è la vera arte della narrazione”. E’ un frammento di conversazione riportato dalla celebre Paris Review. Rivista fondata nel 1953 per occuparsi di letteratura (e non di critica letteraria), per pubblicare racconti e poesie (non commenti), l’intervista fu l’unico genere che dava voce alle idee sullo scrivere, facendo cioè raccontare direttamente dagli scrittori i modi e il senso del loro lavoro. Prima dell’avvento del registratore gli intervistatori andavano in coppia: “sembravano agenti dell’FBI”, commentò Malcolm Cowley. Nel 1959 la Viking Press pubblicò col titolo Writer at work una prima raccolta di quei colloqui, la cui intensità avvincente, quasi con una trama narrativa, fu imitata esplicitamente da Hugh Hefner e Andy Warhol, rispettivamente in Playboy e Interview. Il lettore italiano può leggerne ora il primo volume (edito da Fandango), e sentire in presa diretta la voce di Dorothy Parker, Truman Capote, Ernest Hemingway, T. S. Eliot, Saul Bellow, James Cain, Jorge Luis Borges, Billy Wilder, Elizabeth Bishop, Rebecca West, Joan Didion, per non citarne che alcuni. Divise in sezioni – “l’arte della narrazione”, “l’arte della poesia”, ecc. - ogni intervista cattura il lettore non solo per le luci (e le ombre) portate sugli autori, per l’irruzione della vita nella letteratura e viceversa, ma per come ogni scrittore mostra il modo di appartenere (o di non appartenere) al proprio tempo.
Ecco il cortese e sornione Truman Capote nel 1957 nella sua grande casa gialla di Brooklyn Heights, circondato di oggetti da collezione che sembrano usciti dalle tasche di un bambino: “Lavorare è l’unico trucco che conosco”, risponde a una domanda sulle tecniche per scrivere bene. Si definisce uno scrittore “totalmente orizzontale”, perché riesce a scrivere e pensare solo sdraiato, sul divano o sul letto, con una sigaretta e sempre qualcosa da bere a portata di mano (dal caffé al tè al sherry al martini, in progressione cronologica della giornata). A una domanda sullo stile, Capote evoca il koan zen del “suono di una mano sola”, per dire che nessuno sa veramente cosa sia, tranne che lo stile è la persona stessa, e non si può insegnare.
Il poeta Eliot (New York, 1959), confessa di avere debuttato con “lugubri quartine” a 14 anni, prima di scoprire Baudelaire e Jules Laforgue. Racconta l’incontro determinante con Ezra Pound, che come è noto gli tagliò lunghe parti de La terra desolata. Al culmine di una vita votata allo stile, Eliot ammette che “nessun poeta onesto può mai essere sicuro della validità di ciò che ha scritto. Potrebbe avere perso il suo tempo ed essersi complicato la vita per niente”. Forse, aggiunge, potrebbero anche esistere poeti onesti che si sentono sicuri. Io non lo sono”.
Ecco la distaccata cortesia senza tempo di Jorge Luis Borges nel suo ufficio di direttore della Biblioteca Nacional a Buenos Aires nel 1966 (“faccia quello che vuole con i suoi macchinari, sono un intralcio, ma cercherò di parlare come se non ci fossero”, dice all’intervistatore con registratore). Le sue risposte, come i suoi racconti, si dissimulano nelle parole di altri. Cita Conrad, Wilde, Twain, Henry James, Samuel Johnson, etc. Ma dice anche: “Uno scrittore non dovrebbe mai essere giudicato in base alle sue idee, che non sono importanti, ma in base al godimento che produce e alle emozioni che se ne traggono”. Ma quando parli con gli scrittori – aggiunge Borges – “le uniche cose che hanno da offrirti sono storielle oscene o discussioni di politica fatte come le fa chiunque, e il loro modo di scrivere finisce per apparire qualcosa di secondaria importanza. Hanno imparato a scrivere così come una persona potrebbe imparare a giocare a scacchi a bridge”.
Quasi agli antipodi è Kurt Vonnegut (Massachussets 1977), per il quale la scrittura si insegna come il golf, a patto di sapere che consiste nell’insegnare a “fare del scherzi”, cioè “a far ridere e piangere la gente con appena qualche piccolo segno nero su una pagina bianca”. Le storie, dice fumando una Pall Mall dopo l’altra, sono sempre le stesse, ridotte all’osso: “uno si mette nei guai e poi ne esce; uno perde qualcosa e poi ne rientra in possesso; uno subisce un torto ingiustamente e poi si vendica”, ecc. O come nel romanzo gotico e horror (“che vende sempre”): “una giovane donna viene assunta in una vecchia cosa e se la fa sotto dalla paura”. Vonnegut parla degli anni della sua formazione: la seconda guerra mondiale e la prigionia a Dresda, dove assisté ai bombardamenti “fin nelle viscere” della città (fonte d’ispirazione per Mattatoio n. 5).
Si leggono con passione le interviste a Billy Wilder e a James Cain, ma è senza dubbio quella a Ernest Hemingway la più affascinante. Siamo nel 1958 nella sua casa di San Francisco de Paula, alla periferia di L’Avana, e l’autore dei Quarantanove racconti (morirà un anno dopo) incanta per l’onestà e lucidità intellettuale, lontana anni luce dai cliché giornalistici. E’ lui l’unico “maestro”, riconosciuto tali da numerosi autori, uomini e donne, ammirati dell’incredibile, apparente semplicità del suo stile. L’intervistatore ne descrive la casa, l’ordine/disordine dei libri, i tavoli, gli oggetti, le abitudini giornaliere (scrittura al mattino dalle sei a mezzogiorno, poi nuoto), e non nasconde le reazioni spesso infastidite di Hemingway (“con domande trite e ritrite come questa, non può che aspettarsi risposte ovvie”). Invitato a dire quale possa essere “la migliore preparazione intellettuale per uno scrittore”, Hemingway risponde: “Diciamo che dovrebbe uscire di casa e impiccarsi, dopo aver preso atto di quanto sia difficile scrivere bene, anzi forse quasi impossibile. Poi, tirato giù da qualcuno privo di compassione, il poveretto dovrebbe sforzarsi a scrivere meglio che può, per tutta la vita. Ma almeno avrebbe la storia dell’impiccagione con cui cominciare”. Parla del passato, della stesura di alcuni suoi racconti, di Parigi, dei suoi romanzi, ma non degli altri scrittori (“non sono bravo coi necrologi, allo scopo ci sono i medici legali, letterari o meno”). Sostiene che lo scrittore non debba spiegare, “organizzare visite guidate nelle zone impervie del suo lavoro”, eppure insegna più di ogni altro che cosa sia lo “stile”: “Quello che taluni critici definiscono ‘stile’ in molti casi non è altro che l’inevitabile stonatura di chi si è cimentato in qualcosa che non era mai stato fatto prima. I nuovi classici non assomigliano mai ai classici delle epoche precedenti. E all’inizio l’unica cosa che la gente nota, non riuscendo ad accorgersi di altro, è proprio quella stonatura”. Come dirlo meglio?
7 commenti:
tra l'altro, la storia dell'impiccarsi, è pure una vincente scelta di marketing, direbbero oggi editor e editori industriali.
ah, dici? :-)
hanno neutralizzato anche la morte, allora - l'unica esperienza...
“Uno scrittore non dovrebbe mai essere giudicato in base alle sue idee, che non sono importanti, ma in base al godimento che produce e alle emozioni che se ne traggono”.Punto. Infatti mi sono goduta da matti questo post...
rossana: :-)
e io, che coltivo dentro di me una decadenza imperdonabile, continuo a pensare a chissà quali scritture magnifiche che nessuno ha mai letto, tranne l'autore. uno che s'era pure impiccato, e poi ha scritto ogni cosa, di quella non-morte. ma nessuno lo sa, nessuno lo saprà. una scrittura assoluta (letteralmente sciolta da ogni legame con i lettori).
sai, anna, ci penso spesso anch'io.
ma è anche questa una delle condizioni della condizione umana (e penso a tutti i manoscritti lasciati dentro le bottiglie, letteralmente, durante l'assedio del ghetto di varsavia, alcni de quali, pochissimi, rinvenuti. e a tutti i manoscritti di tutti i ghetti di varsavia del mondo, anche senza guerra, anche senza ghetto, anche senza manoscritti, anche senza gli altri, lettori o testimoni, nelle infinite umane solitudini del mondo). b.
leggere l'intero blog, pretty good
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