Annuncio per gli amici di Roma e non:
il 3 giugno, giorno del mio compleanno, tutti sono invitati a casa mia, giorno e sera, e ognuno potrà liberamente scegliere e comprare, se vuole, tra tutto quello che possiedo.
Lascerò la casa, e vorrei lasciare quasi tutto - dai libri ai mobili, dai bicchieri ai quadri, ecc. Sono cose belle. Un'amichevole ed elettiva compravendita equosolidale, la festa della mia dissipazione, no, meglio: dissolvimento(nel senso anche dell'I Ching).
Un caro saluto, e grazie (darò l'indirizzo ad personam, comunque è a trastevere, gianicolo).
5/24/2009
5/19/2009
Pagine di diario (1945) di Elsa Morante (grazie a Luca Sossella)
Nel 1998 uscì da Donzelli un libro di Alfonso Berardinelli per molti versi straordinario, si intitola "Autoritratto italiano. Un dossier letterario 1945-1998". Il primo testo, dopo un'introduzione di Berardinelli, è di Elsa Morante, eccone la parte conclusiva. Prova a sostituire M. con un politico italiano del nostro quotidiano, ti viene in mente qualcuno? Come si può facilmente intuire non è l'individuo il problema, ma la comunità in cui l'individuo agisce, se la parte consentita in commedia è sempre la stessa.
[...] Perché il popolo tollerò o favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo. Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel migliore dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani).
Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosiffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo "tornaconto.
Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l'autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po' ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine.
In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano.
Debole in fondo, ma ammiratore della forza, e deciso ad apparire forte contro la sua natura. Venale, corruttibile. Adulatore. Cattolico senza credere in Dio. Corruttore. Presuntuoso. Vanitoso. Bonario. Sensualità facile, e regolare. Buon padre di famiglia, ma con amanti. Scettico e sentimentale. Violento a parole, rifugge dalla ferocia e dalla violenza, alla quale preferisce il compromesso, la corruzione e il ricatto. Facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità, se fa della beneficenza è per questo motivo, oltre che per vanità e per misurare il proprio potere. Si proclama popolano, per adulare la maggioranza, ma è snob, e rispetta il denaro. Disprezza sufficientemente gli uomini, ma la loro ammirazione lo sollecita. Come la cocotte che si vende al vecchio e ne parla male con l'amante più valido, così Mussolini predica contro i borghesi; accarezzando impudicamente le masse. Come la cocotte crede di essere amata dal bel giovane, ma è soltanto sfruttata da lui che la abbandonerà quando non potrà più servirsene, così Mussolini con le masse. Lo abbaglia il prestigio di certe parole: Storia, Chiesa, Famiglia, Popolo, Patria, ecc., ma ignora la sostanza delle cose; pur ignorandole le dìsprezza o non cura, in fondo, per egoismo e grossolanità. Superficiale. Dà più valore alla mimica dei sentimenti, anche se falsa, che ai sentimenti stessi. Mimo abile, e tale da far effetto su un pubblico volgare. Gli si confà la letteratura amena (tipo ungherese), e la musica patetica (tipo Puccini). Della poesia, non gli importa nulla, ma si può commuovere a quella mediocre (Ada Negri) e bramerebbe forte che un poeta lo adulasse. Al tempo delle aristocrazie, sarebbe stato forse un Mecenate, per vanità; ma in tempi di masse, preferisce essere un demagogo. Non capisce nulla di arte, ma, alla guisa di certa gente del popolo, e incolta, ne subisce un poco il mito, e cerca di corrompere gli artisti. Si serve anche di coloro che disprezza. Disprezzando (e talvolta temendo) gli onesti, i sinceri, gli intelligenti poiché costoro non gli servono a nulla, li deride, li mette al bando. Si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, e quando essi lo portano alla rovina o lo tradiscono (com'è nella loro natura), si proclama tradito, e innocente, e nel dir ciò è in buona fede, almeno in parte; giacché, come ogni abile mimo, non ha un carattere ben definito, e s'immagina di essere il personaggio che vuole rappresentare.
[...] Perché il popolo tollerò o favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo. Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel migliore dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani).
Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosiffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo "tornaconto.
Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l'autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po' ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine.
In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano.
Debole in fondo, ma ammiratore della forza, e deciso ad apparire forte contro la sua natura. Venale, corruttibile. Adulatore. Cattolico senza credere in Dio. Corruttore. Presuntuoso. Vanitoso. Bonario. Sensualità facile, e regolare. Buon padre di famiglia, ma con amanti. Scettico e sentimentale. Violento a parole, rifugge dalla ferocia e dalla violenza, alla quale preferisce il compromesso, la corruzione e il ricatto. Facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità, se fa della beneficenza è per questo motivo, oltre che per vanità e per misurare il proprio potere. Si proclama popolano, per adulare la maggioranza, ma è snob, e rispetta il denaro. Disprezza sufficientemente gli uomini, ma la loro ammirazione lo sollecita. Come la cocotte che si vende al vecchio e ne parla male con l'amante più valido, così Mussolini predica contro i borghesi; accarezzando impudicamente le masse. Come la cocotte crede di essere amata dal bel giovane, ma è soltanto sfruttata da lui che la abbandonerà quando non potrà più servirsene, così Mussolini con le masse. Lo abbaglia il prestigio di certe parole: Storia, Chiesa, Famiglia, Popolo, Patria, ecc., ma ignora la sostanza delle cose; pur ignorandole le dìsprezza o non cura, in fondo, per egoismo e grossolanità. Superficiale. Dà più valore alla mimica dei sentimenti, anche se falsa, che ai sentimenti stessi. Mimo abile, e tale da far effetto su un pubblico volgare. Gli si confà la letteratura amena (tipo ungherese), e la musica patetica (tipo Puccini). Della poesia, non gli importa nulla, ma si può commuovere a quella mediocre (Ada Negri) e bramerebbe forte che un poeta lo adulasse. Al tempo delle aristocrazie, sarebbe stato forse un Mecenate, per vanità; ma in tempi di masse, preferisce essere un demagogo. Non capisce nulla di arte, ma, alla guisa di certa gente del popolo, e incolta, ne subisce un poco il mito, e cerca di corrompere gli artisti. Si serve anche di coloro che disprezza. Disprezzando (e talvolta temendo) gli onesti, i sinceri, gli intelligenti poiché costoro non gli servono a nulla, li deride, li mette al bando. Si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, e quando essi lo portano alla rovina o lo tradiscono (com'è nella loro natura), si proclama tradito, e innocente, e nel dir ciò è in buona fede, almeno in parte; giacché, come ogni abile mimo, non ha un carattere ben definito, e s'immagina di essere il personaggio che vuole rappresentare.
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5/17/2009
Giro, faccio cose, vedo gente (festival e fiere)
Ieri ho trovato questo, dove c'è anche una mia foto di sbieco a Piacenza al festival bues, ed è il blog del mio amico Olen Steinhauer, autore di un bellissimo trhriller edito in Italia Da Giano, Il turista.
Oggi su l'Unità, invece della mia rubrica acchiappafantsmi, è uscito invece un fiacco resoconto di ciò che ho visto - e soprattutto non visto - ieri alla Fiera del Libro di Torino ((poiché l'Unità ha chiesto ogni giorno un breve testo a uno scrittore amico che fosse presente alla Fiera, e il sabato è toccato a me). In realtà mi sono divertito, la sera ho cenato in collina in un ristorante di Chiambretti e ho incontrato Piero, già fan del mio HP, con cui mi è piaciuto chiacchierare. E a ritorno a Roma in aereo stamattina sembrava una gita scolastica, perché conoscevo quasi tutti i passeggeri. Arrivato a casa per pranzo, con una corsa in macchina da Fiumicino con Alessandro Haber, il migliore degli attori, e senz'altro il più grande lettore ad alta voce di letteratura. Ma ecco qui di seguito la mia noterella uscita sul giornale:
L’anziano autista volontario, ex dipendente Fiat squisitamente gentile e prodigo di storie, ci ha fatto fare un giro più lungo perché alcune strade di accesso alla Fiera erano bloccate da una manifestazione: di operai della Fiat, appunto, più che allarmati dalle voci fondate di dismissioni e di licenziamenti. E’ un aspetto del mondo di fuori che trapela poco tra le mura e la folla sudaticcia di autori editori agenti letterari lettori e aspiranti scrittori che si aggira tra gli stand e gli spazi di parole pubbliche. Nonostante tra i relatori di ieri ci fosse proprio il manager Sergio Marchionne, laureato in Filosofia. Pare che il suo intervento, sulla sua esperienza umana e professionale tra Italia e Usa sia stato bello e interessante, “tutt’altro che spocchioso”, mi dice un laureando in Filosofia dello staff della Fiera, nonché aspirante precario.
Oggi è stata la giornata, tra i tantissimi incontri, della bicicletta di Marc Augé, dell’ennesima lectio magistralis di Scalfari e un’altra di Magris, dell’ultimo giallo egotico di Faletti (“Io sono Dio”, dopo “Io uccido”), dei racconti di famiglia di Daria Bignardi, e degli incontri con le autrici Letizia Muratori e Melania Mazzucco, e altri 50 incontri. A dare corpo al titolo dell’edizione della Fiera di quest’anno - Io, gli altri (dove la “o” di io è un uovo incrinato), forse si avvicinavano meglio, oggi, Luce Irigaray, Nawal Al-Saadawi, il nobel Pamuk, e Ascanio Celestini con le sue storie di “lotta di classe”. Personalmente però faccio molta fatica ad ascoltare nel rimbombo di voci e brusii, soprattutto dopo essere stato nel festival più bello, quello del Blues di Piacenza, dove nelle piazze all’aperto le voci degli scrittori si confondevano con quelle di cantanti e i suoni delle chitarre. Qui, alla Fiera del Libro, non dimentico un attimo di aggirarmi tra i corridoi di una ex fabbrica. Ma la gente non ci pensa, e cerca l’aspetto umano delle parole dello scrittore preferito: molti oggi erano commossi dal tono dello scrittore israeliano David Grossman. Gremito lo spazio di radio Tre, dove gli scrittori hanno depositato un libro per i terremotati dell’Abruzzo comprato a proprie spese (ho scelto una storia sull’abitare e il sognare: Firmino di Sam Savage). All’aperto, dove si va a fumare una sigaretta o respirare aria, i giornalisti parlano invece con malcelato astio di Marco Travaglio, che parla a sua volta di Pinelli e degli anni Settanta, polemizzando col clima di riconciliazione nazionale.
Poi c’è lo spazio detto Bookstock Village, incontri sul tema della “strada”. Si parla del mondo là fuori, fuori dalle finestre e delle stanze di chi scrive, per esempio. Ho dialogato qui di strade e di panchine col soave fotografo Gianni Berengo Gardin, maestro del guardare. Ma alla domanda dell’intervistatore - “dove vorrebbe posare ora il suo sguardo” - ho risposto: in campagna. Nulla come una fiera del libro in una fabbrica dismessa ti dà voglia di silenzio e spazi vuoti.
Oggi su l'Unità, invece della mia rubrica acchiappafantsmi, è uscito invece un fiacco resoconto di ciò che ho visto - e soprattutto non visto - ieri alla Fiera del Libro di Torino ((poiché l'Unità ha chiesto ogni giorno un breve testo a uno scrittore amico che fosse presente alla Fiera, e il sabato è toccato a me). In realtà mi sono divertito, la sera ho cenato in collina in un ristorante di Chiambretti e ho incontrato Piero, già fan del mio HP, con cui mi è piaciuto chiacchierare. E a ritorno a Roma in aereo stamattina sembrava una gita scolastica, perché conoscevo quasi tutti i passeggeri. Arrivato a casa per pranzo, con una corsa in macchina da Fiumicino con Alessandro Haber, il migliore degli attori, e senz'altro il più grande lettore ad alta voce di letteratura. Ma ecco qui di seguito la mia noterella uscita sul giornale:
L’anziano autista volontario, ex dipendente Fiat squisitamente gentile e prodigo di storie, ci ha fatto fare un giro più lungo perché alcune strade di accesso alla Fiera erano bloccate da una manifestazione: di operai della Fiat, appunto, più che allarmati dalle voci fondate di dismissioni e di licenziamenti. E’ un aspetto del mondo di fuori che trapela poco tra le mura e la folla sudaticcia di autori editori agenti letterari lettori e aspiranti scrittori che si aggira tra gli stand e gli spazi di parole pubbliche. Nonostante tra i relatori di ieri ci fosse proprio il manager Sergio Marchionne, laureato in Filosofia. Pare che il suo intervento, sulla sua esperienza umana e professionale tra Italia e Usa sia stato bello e interessante, “tutt’altro che spocchioso”, mi dice un laureando in Filosofia dello staff della Fiera, nonché aspirante precario.
Oggi è stata la giornata, tra i tantissimi incontri, della bicicletta di Marc Augé, dell’ennesima lectio magistralis di Scalfari e un’altra di Magris, dell’ultimo giallo egotico di Faletti (“Io sono Dio”, dopo “Io uccido”), dei racconti di famiglia di Daria Bignardi, e degli incontri con le autrici Letizia Muratori e Melania Mazzucco, e altri 50 incontri. A dare corpo al titolo dell’edizione della Fiera di quest’anno - Io, gli altri (dove la “o” di io è un uovo incrinato), forse si avvicinavano meglio, oggi, Luce Irigaray, Nawal Al-Saadawi, il nobel Pamuk, e Ascanio Celestini con le sue storie di “lotta di classe”. Personalmente però faccio molta fatica ad ascoltare nel rimbombo di voci e brusii, soprattutto dopo essere stato nel festival più bello, quello del Blues di Piacenza, dove nelle piazze all’aperto le voci degli scrittori si confondevano con quelle di cantanti e i suoni delle chitarre. Qui, alla Fiera del Libro, non dimentico un attimo di aggirarmi tra i corridoi di una ex fabbrica. Ma la gente non ci pensa, e cerca l’aspetto umano delle parole dello scrittore preferito: molti oggi erano commossi dal tono dello scrittore israeliano David Grossman. Gremito lo spazio di radio Tre, dove gli scrittori hanno depositato un libro per i terremotati dell’Abruzzo comprato a proprie spese (ho scelto una storia sull’abitare e il sognare: Firmino di Sam Savage). All’aperto, dove si va a fumare una sigaretta o respirare aria, i giornalisti parlano invece con malcelato astio di Marco Travaglio, che parla a sua volta di Pinelli e degli anni Settanta, polemizzando col clima di riconciliazione nazionale.
Poi c’è lo spazio detto Bookstock Village, incontri sul tema della “strada”. Si parla del mondo là fuori, fuori dalle finestre e delle stanze di chi scrive, per esempio. Ho dialogato qui di strade e di panchine col soave fotografo Gianni Berengo Gardin, maestro del guardare. Ma alla domanda dell’intervistatore - “dove vorrebbe posare ora il suo sguardo” - ho risposto: in campagna. Nulla come una fiera del libro in una fabbrica dismessa ti dà voglia di silenzio e spazi vuoti.
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5/10/2009
Agenda (e appunti sulla "testimonianza")
Sono stato benissimo a Udine - città piena di osterie e bar all'aperto festosi - all'ottima rassegna vicino/lontano, abbinata al premio Tiziano Terzani. Ho parlato di "testimionianza" con la storica Marta Verginella e il giudice Pier Paolo Rivello, coordinati dalla direttrice dell'Archivio di Stato Roberta Corbellini.
Breve ritorno a Roma, e già in partenza per il Festival del Blues a Piacenza ("Dal Mississippi al Po"), organizzato dall'ottimo Seba Pezzani. Dialogo domani e dopodomani coi colleghi Joe Cottonwood, Serge Quadruppani, Olen Steinhauer. Il 13 sarò di nuovo a Roma al convegno "La rosa e il cavolfiore. L'immaginazione al bivio", insomma dedicato alla "terra": al Museo d'Arte Moderna, salone dell'Ercole, viale Belle Arti, Roma. Ditemi "buoni viaggi"...
(qui di seguito, alcuni miei scarni appunti sulla "testimonianza" sviluppati all'incontro a Udine dal titolo "Passaggi di testimone", usciti su l'Unità dell'8 maggio):
Il Novecento è stato L’era del testimone, titolava un suo libro la storica Annette Wievorka: epoca dell’irruzione dei “sopravvissuti” nella Storia (quelli della Shoah, e prima ancora della prima guerra mondiale), cioè i testimoni. Memoria e parola vive hanno introdotto una storia al presente e del presente, spesso in conflitto con gl storici di professione, con la loro versione dei fatti meno arida e più soggettiva. La testimonianza ha influenzato anche la filosofia e le arti, promuovendo una contaminazione feconda col genere detto “documentario” e una nuova nozione di “archivio”. Ma la testimonianza è anche luogo di problematicità intensa, come mostra lo stupendo film di Claude Lanzmann, Shoah, quasi nove ore di interrogazioni a testimoni oggi dello sterminio degli Ebrei di ieri, che non esita a tenere conto anche del cielo azzurro e il sole sopra Auschwitz quando venivano bruciate duemila persone al giorno. Emancipata dallo stretto ambito sacro-giuridico, che ne faceva un sinonimo di “prova”, la testimonianza si caratterizza non solo per la soggettività empatica e l’attenzione alle singolarità, in opposizione alle astrazioni universali; il suo essere sostanzialmente linguaggio ci ricorda che la nostra vita, il nostro essere soggetti e persone, si radicano nel linguaggio.
L’etimologia della parola (testis, superstes, cioè superstite) insegna che testimoniare è facoltà della superstitio (superstizione), sorta di “dono della presenza”, quasi una divinazione, ossia la possibilità di assistere ad eventi lontani come se avvenissero davanti ai nostri occhi. La possibilità di testimoniare non riguarda quindi solo i testimoni oculari, quelli che sono (stati) presenti lì, in quel momento; ma anche chi da un evento è coinvolto a distanza, nello spazio o nel tempo. E’ il senso etico e narrativo del tramandare, della trasmissione, del “passaggio” del testimone.
Resta almeno un’altra domanda vertiginosa: che cosa è importante testimoniare, cioè affermare e far vedere. Cosa è giusto prelevare dal flusso ininterrotto di eventi che accade di continuo. Nell’era della saturazione mediatica la responsabilità diviene cruciale, se è vero che testimoniare non è (più) informare sugli eventi, ma crearli, un dire che fa gli eventi di cui pretende riferire. La testimonianza è un enunciato performativo alla base della democrazia: dire è fare.
Breve ritorno a Roma, e già in partenza per il Festival del Blues a Piacenza ("Dal Mississippi al Po"), organizzato dall'ottimo Seba Pezzani. Dialogo domani e dopodomani coi colleghi Joe Cottonwood, Serge Quadruppani, Olen Steinhauer. Il 13 sarò di nuovo a Roma al convegno "La rosa e il cavolfiore. L'immaginazione al bivio", insomma dedicato alla "terra": al Museo d'Arte Moderna, salone dell'Ercole, viale Belle Arti, Roma. Ditemi "buoni viaggi"...
(qui di seguito, alcuni miei scarni appunti sulla "testimonianza" sviluppati all'incontro a Udine dal titolo "Passaggi di testimone", usciti su l'Unità dell'8 maggio):
Il Novecento è stato L’era del testimone, titolava un suo libro la storica Annette Wievorka: epoca dell’irruzione dei “sopravvissuti” nella Storia (quelli della Shoah, e prima ancora della prima guerra mondiale), cioè i testimoni. Memoria e parola vive hanno introdotto una storia al presente e del presente, spesso in conflitto con gl storici di professione, con la loro versione dei fatti meno arida e più soggettiva. La testimonianza ha influenzato anche la filosofia e le arti, promuovendo una contaminazione feconda col genere detto “documentario” e una nuova nozione di “archivio”. Ma la testimonianza è anche luogo di problematicità intensa, come mostra lo stupendo film di Claude Lanzmann, Shoah, quasi nove ore di interrogazioni a testimoni oggi dello sterminio degli Ebrei di ieri, che non esita a tenere conto anche del cielo azzurro e il sole sopra Auschwitz quando venivano bruciate duemila persone al giorno. Emancipata dallo stretto ambito sacro-giuridico, che ne faceva un sinonimo di “prova”, la testimonianza si caratterizza non solo per la soggettività empatica e l’attenzione alle singolarità, in opposizione alle astrazioni universali; il suo essere sostanzialmente linguaggio ci ricorda che la nostra vita, il nostro essere soggetti e persone, si radicano nel linguaggio.
L’etimologia della parola (testis, superstes, cioè superstite) insegna che testimoniare è facoltà della superstitio (superstizione), sorta di “dono della presenza”, quasi una divinazione, ossia la possibilità di assistere ad eventi lontani come se avvenissero davanti ai nostri occhi. La possibilità di testimoniare non riguarda quindi solo i testimoni oculari, quelli che sono (stati) presenti lì, in quel momento; ma anche chi da un evento è coinvolto a distanza, nello spazio o nel tempo. E’ il senso etico e narrativo del tramandare, della trasmissione, del “passaggio” del testimone.
Resta almeno un’altra domanda vertiginosa: che cosa è importante testimoniare, cioè affermare e far vedere. Cosa è giusto prelevare dal flusso ininterrotto di eventi che accade di continuo. Nell’era della saturazione mediatica la responsabilità diviene cruciale, se è vero che testimoniare non è (più) informare sugli eventi, ma crearli, un dire che fa gli eventi di cui pretende riferire. La testimonianza è un enunciato performativo alla base della democrazia: dire è fare.
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5/06/2009
Papi satan aleppe (frammenti di un dialogo con mio figlio)
Frammenti di dialogo con mio figlio. E’ una vicenda privata, dice. Privata di cosa? E il melenso invio fotografico dal titolo “Una storia italiana”, che ogni famiglia di elettori ricevette anni fa? E’ sul privato che si è fatto eleggere politico. Tempo fa a notte fonda in un night di Milano si vantava con dei ragazzi delle sue bravate sessuali (non ricordo se prima o dopo il Family day). Ma il fatto è un altro, come dice la sua aspirante ex moglie: che Paese è quello in cui una minorenne (o maggiorenne non importa) manda il suo book di foto al primo ministro per trovare un posto da velina? Non importa il privato del padrone delle tv spazzatura, quello del primo ministro sì. E’ sempre il cosiddetto (in modo troppo asettico) “conflitto di interessi”. E le telefonate a Saccà (se non è ormai vietato citarle)? Compravendita di senatori per mezzo di raccomandazioni spettacolar-sessuali, mercato di carne umana. Non è solo l’abnorme potere, ma il suo vergognoso abuso. Ha rimbambito per anni gli italiani con una tv cinica e deficiente, ha aizzato popolazioni dal documentato analfabetismo di ritorno ad aspirare a mostrare il culo o la faccia in tv, unica realtà. Ci ha solo messo su il cappello quando è sceso in politica. Ostacoli? Nessuno, la sinistra ha condiviso agenda e parametri culturali. Voleva guidare un Paese, non ha saputo fare una cordata per metter su una tv alternativa (la 7 era in vendita). Ovunque spuntavano cortigiani, fino al consenso sovietico attuale. Tutti a concorrere al banchetto del potente, ignari di parteciparci come panettoni. Papi? Fa ridere. Anzi no, per niente. Papi satan, papi satan aleppe: è il balbettio demoniaco che Dante evoca all’Inferno. Didascalia della nostra Italia, con tanto di Vespa a tormentarci (come nel girone degli ignavi). Tanto per loro, l’Inferno, non è che un interminabile eppiàuar.
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5/03/2009
Firmino legge Ariosto (al festival dell'eternità di Reggio Emilia) [acchiappafantasmi]
Si parla del tempo in questi giorni a Reggio Emilia, cioè di quell’umana troppo umana percezione che ci distrae dalla coscienza dell’eterno: il tempo non c’è, come non c’è qualcosa prima del tempo e dopo il tempo. L’eternità, tema del Festival della Fotografia europea che si svolge appunto a Reggio, è nell’istante, come l’infinito è in una siepe. O in un bicchiere, nel volto di una ragazza sulla spiaggia di Rimini, sul vetro ghiacciato di una finestra o in un canale d’irrigazione, come mostrano alcuni eroi dell’eterno in mostra al festival: Franco Vimercati, Claude Nori, Josef Sudek, Jean Baudrillard, Luigi Ghirri.
Poi l’altra notte, dalla finestra della storica dimora a due passi dal Duomo in cui sono alloggiato, ho visto un topo uscire dalla porta di fronte. Esitante, si è affacciato sulla soglia più volte, e altrettante si è ritratto, impaurito dalla minima eco di passi e di voci, finché ha disceso i due scalini di pietra ed è ruzzolato via sgambettando raso terra e raso muro. Non amo i topi in città, li trovo anch’io perturbanti. Ma il palazzo in stato di inspiegabile abbandono da cui usciva il topo è Palazzo Malaguzzi, dove abitava la madre di Ludovico Ariosto. Una targa lo ricorda, e l’altorilievo di un angelo. E nel palazzo alle mie spalle abitava un altro grande scrittore reggiano, Silvio D’Arzo (alias Ezio Comparone), l’autore di Casa d’altri. Affacciato alla finestra, sparito il topo, ho ricordato Firmino, il topo lettore di Sam Savage, eroe della non appartenenza votato alla sublimazione nella letteratura e nell’arte; che, disadattato come pochi, sognava una vita come quelle che si leggono nei libri. Ariosto fu il cantore di quella condizione umana che si chiama desiderio, anelito all’infinito e all’eterno. E i topi, si sa, abitano sempre “in casa d’altri”. Firmino ha letto Ariosto, ne sono certo. Anche questa è un’immagine dell’inaccessibile, da sempre abitata, eternità.
(uscito su l'Unità del 3 maggio 2009, rubrica "acchiappafantasmi")
Poi l’altra notte, dalla finestra della storica dimora a due passi dal Duomo in cui sono alloggiato, ho visto un topo uscire dalla porta di fronte. Esitante, si è affacciato sulla soglia più volte, e altrettante si è ritratto, impaurito dalla minima eco di passi e di voci, finché ha disceso i due scalini di pietra ed è ruzzolato via sgambettando raso terra e raso muro. Non amo i topi in città, li trovo anch’io perturbanti. Ma il palazzo in stato di inspiegabile abbandono da cui usciva il topo è Palazzo Malaguzzi, dove abitava la madre di Ludovico Ariosto. Una targa lo ricorda, e l’altorilievo di un angelo. E nel palazzo alle mie spalle abitava un altro grande scrittore reggiano, Silvio D’Arzo (alias Ezio Comparone), l’autore di Casa d’altri. Affacciato alla finestra, sparito il topo, ho ricordato Firmino, il topo lettore di Sam Savage, eroe della non appartenenza votato alla sublimazione nella letteratura e nell’arte; che, disadattato come pochi, sognava una vita come quelle che si leggono nei libri. Ariosto fu il cantore di quella condizione umana che si chiama desiderio, anelito all’infinito e all’eterno. E i topi, si sa, abitano sempre “in casa d’altri”. Firmino ha letto Ariosto, ne sono certo. Anche questa è un’immagine dell’inaccessibile, da sempre abitata, eternità.
(uscito su l'Unità del 3 maggio 2009, rubrica "acchiappafantasmi")
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