8/29/2008

Ozio e lavoro. Lo scrittore delle panchine e il ministro dei fannulloni...

Sono in pieno trasloco (altro che ozio), ho giusto il tempo di linkare qui l'intervista col ministro Renato Brunetta che ho fatto poco tempo fa a Ravello, uscita oggi su Venerdì. Avrei molte cose da aggiungere, e lo farò, anche perché mi è appena arrivato un libro edito da Elliot che si intitola Perché il lavoro fa schifo..., scritto da due americane di buon senso. Insomma, è paradossale ma non ho il tempo... di scrivere qualcosa a favore del tempo. A presto.

8/26/2008

Storie di politica, panchine e palloncini

Domenica scorsa (24 agosto) è uscito su Repubblica questo mio articolo che aspettava da tempo, sui Palloncini, e che vi invito a leggere. Parla di Casalvieri e delle sue fabbriche di palloncini (leader mondiali), del mio amico artista Elmerindo Fiore che abita lì, di Marcel Duchamp, perfino di Stephen King, e mi è molto intimo. Tutto sommato, oltre che estetico, per me è anche politico - come poteva essere politico Ariosto, non Machiavelli. Idea che la politica (ma in fondo tutti noi) è fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i palloncini... (nella foto, Duchamp con palloncini tenuti col filo).
Forse lo sento in particolar modo stanotte, dopo una serata al festival dell'Unità, pardon alla Festa Democratica (nazionale) di Firenze, dove sono stato invitato a presentare Panchine (sono tuttora a Firenze, in un hotel niente male dove passo la notte), che mi ha lasciato sensazioni diverse, ma la cui tonalità dominante è malinconica. Nel frattempo, all'Unità, quella vera, è arrivato il nuovo direttore, Concita De Gregorio, il cui editoriale di oggi 26 agosto era semplicemente bellissimo. Tanto che d'impulso ho scritto questa lettera al giornale:

Cara Unità, cara Concita: leggendo il tuo primo editoriale di martedì confesso di essermi emozionato. Esco così dal riserbo per scriverti i miei più sentiti auguri per questo nuovo capitolo del giornale e della tua carriera - e, spero, dell’opposizione ed elaborazione politica e culturale in Italia. Ho usato apposta una parola desueta, “carriera”, che significava al tempo dei nostri padri quello che è, una semplice strada di campagna, comunque sia un percorso (oggi per il lavoro si dice job, come un pezzo di ricambio). Credo che quella parola dall’aria antica sia appropriata sia per farti gli auguri che per salutare il contenuto del tuo editoriale, che affronta il tema della memoria e quindi del futuro, della politicità della vita, e quello enorme della precarietà. Perché, più ancora che un lavoro scarso e non garantito, la precarietà descrive la perdita di futuro e le derive individuali e collettive di chi non sa più organizzare narrativamente la propria vita, anche fuori dal lavoro. Di chi non sa dedicarsi in profondità a nulla. Non è quello che accade anche ai politici? Non basta più dire che, per la prima volta, i figli sono più poveri dei loro genitori; ma le stesse vite dei loro genitori risulteranno ai nuovi precari incomprensibili, votate com’erano a obiettivi a lungo termine la cui linearità poteva in parte compensare i sacrifici: voltandosi indietro o guardando in avanti, la vita poteva assumere un senso narrativo, e non è poco. Ecco qualcosa che riguarda i poveri come i ricchi. La frammentazione delle esperienze che si riflette in una frammentazione dell’io, la cooperazione superficiale, l’intensificazione del presente come unico tempo disponibile (l’unico futuro che c’è si offre come futuro di questo presente), la superficialità delle relazioni sociali, tutte queste attitudini in perfetto spirito aziendale stanno forgiando un tipo antropologico che assomiglia molto alla dannazione: un’eternità senza tempo e senza storia. Dove tutto manca e continua a mancare anche a chi si crede berlusconiano e felice – l’ansia del consumismo, anche dei più giovani, che sfocia nelle più diverse tossicodipendenze. Ecco, cara Concita, il mio auspicio è che l’Unità, oltre a tutto quello che hai scritto, sia un esempio anche di questo, di un cercare di rendere più narrative le nostre vite e il nostro sguardo sul mondo.

8/20/2008

Calendario


Breakfast, 1989, olio su carta intelata, 150x100, di Cathy Josefowitz (copyright Cathy Josefowitz)

Calendario

(L'anno comincia in settembre, quando finisce ricomincia da capo)

... Alla fine di settembre sono inquieto e mi metto a scrivere poesie, perché mi accorgo che sono rimasto solo. Vorrei avere un vitalizio e leggermi tutto Proust, in campagna.

In ottobre, da solo, guardo le vetrine della città e scrivo un diario. Passo il tempo sul letto a dormire con gli occhi aperti. Leggo libri gialli. Poi romanzi classici, soprattutto Stendhal.

In novembre sono ubriaco fradicio. E' per via di quello che ho bevuto in ottobre. Eppure ho un contegno. Non faccio niente e vado a letto tardi. Scrivo lettere malinconiche, soprattutto la domenica.

In dicembre, poiché non cerco, trovo una donna per l'inverno. Lei è molto appassionata, dice che si sente rinascere. Faccio anche molti chilometri. Lei mi scrive delle lettere nel periodo di Natale. A volte mi telefona di sorpresa, quando non ci penso.

All'inizio di gennaio mi innamoro di lei. Lei mi viene a prendere alla stazione. Finito l'amore guardiamo gli aerei alla finestra. Mi sento autosufficiente. Lavoro, e mi sembra di essere una persona importante. In un pomeriggio di luce sento la primavera e vado al cinema. Mi sento in vantaggio e perdo terreno.

In febbraio leggo e studio molto. La mia donna, di cui sono pazzamente innamorato, mi guarda come uno della famiglia.

In marzo faccio di solito progetti per il futuro. E' il mio argomento di conversazione preferito.

Ciò che in aprile diventa motivo di ansia, in ispecie nelle lunghe passeggiate. Lei mi racconta degli strani sogni. Di solito mangio molti dolci.

In maggio sono pieno di fantasmi. Di solito vorrei scrivere dei romanzi, litigo con la mia donna e penso che il mio problema sia il mondo degli uomini. Litigo anche da solo e mi viene paura. Sono molto innamorato. Minaccio di lasciarla. Vorrei vivere per sempre con lei.

In giugno compio gli anni e sono molto nervoso. E' un periodo di grande confusione pratica. Ci lasciamo due o tre volte per finta. Problemi economici acuti. Faccio una cura omeopatica che dura tutto il mese. Poi vado ad abitare da un amico.

In luglio vorrei fuggire con la mia donna in un altro Paese. Non ci credo tanto, vado a tutte le feste e mi ubriaco. Una strana rassegnazione, leggermente euforica. Mi piace fare l'amore e sudare, per poi uscire a prendere la cioccolata fredda nei bar. Non ho niente da fare, tranne scrivere romanzi. Le domeniche assolate mi commuovono molto, e mi sento in vena di raccontare la mia vita.

In agosto sento che presto sarò solo. Non ci bado, leggo fumetti. Tutti hanno programmi migliori dei miei, mi fanno venire nostalgia. Cerco una casa in un posto lontano per passarci l'anno a venire con la donna che amo. Mi stanco molto e sudo. Ho paura che quasi tutto sia sbagliato.

Arriva settembre, in generale aspetto, nella nuova casa. Agli amici, parlando della mia donna, dico che sarà qui da un giorno all'altro...

[Il testo, scritto nel 1984, è tratto da: Beppe Sebaste, Café Suisse e altri luoghi di sosta, Feltrinelli 1992 (ma è da anni esaurito, potete trovarne notizia scorrendo qui). In copertina c'era un particolare del quadro di Cathy Josefowitz riportato sopra. Indicazioni di lettura: finito il testo, occorrerebbe rileggerlo dall'inizio, almeno fino all'inizio di novembre, e lasciarlo sfumare...]

8/13/2008

Per dirla meglio - Ascoltando Barenboim a Ravello

Sono a Ravello, la cui speciale bellezza viene dall’incrocio e sedimentazione di culture e stili diversi – civiltà greca, romana, araba, siculo-normanna, ma anche giardini romantici all’inglese. E’ una piccola capitale dell’ozio creativo, il cui ormai famoso Festival ne è celebrazione. Sono nel giardino di Villa Rufolo, là dove Wagner, uno dei tanti viaggiatori, riconobbe in toni esclamativi il giardino di Klingsor che andava cercando. L’evento “fuori programma” – “evento” nel senso vero della parola – è il concerto sinfonico diretto da Daniel Barenboim con la sua West-Eastern Divan Orchestra. Il nome goethiano è eloquente: la raccolta di poesie Divano occidentale orientale (1819), frutto dello studio di Goethe della poesia araba e persiana, è tappa preziosa nella storia dei rapporti tra Oriente e Occidente. E Goethe dichiarò che per lui “la patria è ovunque e in ogni luogo”. La Divan Orchestra - fondata dal palestinese Edward Said, filosofo e studioso di letteratura, e dall’ebreo israeliano, ma con anche passaporto palestinese, Daniel Barenboim, sublime pianista e direttore d’orchestra tra i più insigni del mondo - pratica e incarna quella pace, coesistenza e cooperazione necessaria tra i popoli, conoscenza reciproca, inter-dipendenza. I suoi componenti, musicisti giovanissimi e di grande talento, sono palestinesi e israeliani, cui si aggiungono siriani, egiziani e andalusi (la sede dell’Orchestra è a Siviglia).
Mi colpisce, ascoltando il primo dei concerti (trasmesso in diretta dalla tv franco-tedesca Arte) la modernità assoluta della musica di Wagner. Brilla ancora il sole sui monti Lattari dietro il palcoscenico, sul mare e la costa del Cilento in fondo all’orizzonte, quando attacca l’Ouverture dei Maestri cantori di Norimberga. Poi il Preludio e morte di Isotta (da Tristano e Isotta), con quel "la" spettrale che nasce dal silenzio, mentre il mare è argento vivo e immobile: quella nota su cui ha scritto osservazioni semplici e geniali lo stesso Barenboim nel suo La musica sveglia il tempo (Feltrinelli), e che contiene un suspens che, a me spettatore viziato dal cinema, ricorda Hitchcock. Il buio arriva con l’Atto primo de La Valchiria. Non si tratta solo di un’ironia della sorte: vedere arabi e israeliani suonare insieme Wagner superando lo storico tabù (Barenboim ha già diretto Wagner in Israele); si tratta di riscattare un’opera geniale (e che forse prefigurava proprio il cinema come arte totale), non tanto o non solo dal suo antisemitismo europeo, ma dalla funesta associazione colla “notte dei cristalli”, ha dichiarato Barenboim.
Sono nell’anfiteatro colmo anche la sera dopo, martedì 12. Il mare e il cielo trascolorano lungo le note della Sinfonia concertante in Si bemolle Maggiore, Hob.I n.105 di Franz Joseph Haydn prima, della rigorosissima “Arte della fuga dell’era dodecafonica” delle Variazioni per orchestra op. 31 di Arnold Schoenberg poi; e infine, quando tutto è immerso nel buio, risuona l’inquieta e vigorosa malinconia della Sinfonia n. 4 in Mi minore op. 48 di Johannes Brahms, l’anti-Wagner.
La mescolanza che definisce l’orchestra non è solo di culture e nazionalità, ma montaggio di idee. Il concetto stesso di “orchestra” assume un senso metodologico: crogiuolo e concatenamento di idee e forme, armonie e disarmonie, “paralleli e paradossi” (titolo di un libro a quattro mani di Said e Barenboim), come fu il metodo del compianto Edward Said, che ovunque cercava l’apertura e il movimento - si trattasse di un conflitto politico, un concetto filosofico, un romanzo di Melville, una sinfonia di Wagner o John Cage, o un’esecuzione al piano di Glenn Gould. E’ quanto proseguirà la Divan Foundation, mi assicura la vedova di Edward, Mariam Said. Che, inseparabile da Barenboim e dall’orchestra, mi descrive la condivisione di letture e seminari di opere del marito da parte dei giovani concertisti, parte integrante del loro impegno “orchestrale”. “Svegliare il tempo”, per parafrasare il libro di Barenboim. Ma anche la condizione dell’intellettuale, libero da appartenenze, che scorre nell’ultima, bellissima raccolta di saggi di Edward Said ora in traduzione italiana: Sotto il segno dell’esilio (Feltrinelli).
E forse Ravello (anticamente Rebellum) è anche questo: il luogo utopico del non-esilio, dove sentirsi insieme, paradossalmente, sradicati e residenti.
(in uscita su l'Unità, domani 14 agosto)

8/12/2008

Il luogo del non esilio

Dopo viaggi alpini, sono in questi giorni a Ravello, dove ho ascoltato ieri sera un magnifico concerto sinfonico diretto da Daniel Barenboim con la sua The West-Eastern Divan Orchestra (il nome è mutuato da Goethe, dalla sua raccolta di poesie Il Divano Occidentale Orientale), con lo scenario incredibile del golfo, del mare. Conoscete Ravello, sopra Amalfi, con terrazze di limoni digradanti verso il mare, ecc. ecc. ? Amo questo luogo, e due anni fa ne avevo scritto qui. Forse vale la pena (ri)leggerlo: ci credo ancora, e Ravello non è cambiata. E' il posto, oltre che della bellezza, dell'ozio creativo contrapposto al neg-ozio (questo, però, non so quanto durerà).
L'orchestra di Barenboim, che dirigerà un altro concerto stasera (Brahms, contrapposto al Wagner di ieri sera), sempre all'ora del tramonto (invece, la notte tra il 10 e l'11, ce n'è stato un altro in attesa dell'alba, con l'Orchestra Scarlatti: pure sinestesie) è composta di musicisti israeliani e palestinesi, giovanissimi e di grande talento. Porta lo stesso nome goethiano della Fondazione fondata con Edward Said, il grande filosofo e intellettuale palestinese morto nel 2003, di cui è uscita quest'anno da Feltrinelli una raccolta di bellissimi saggi tra letteratura, filosofia e arte: Nel segno dell'esilio. La musica sveglia il tempo è invece il titolo di un libro geniale di Barenboim (anch'esso edito da Feltrinelli). Forse Ravello (dal latino Rebellum) è, anche, il luogo del risveglio e del non-esilio.

8/04/2008

Siamo tutti dei "fu Mattia Pascal"

Oggi su l'Unità c'è questa mia recensione al libro di Paolo Di Paolo, Raccontami la notte in cui sono nato. Naturalmente mi è piaciuto... Ma mi interessa lasciare qui traccia delle riflessioni che mi ha suscitato, e che mi riguardano, cioè riguardano anche libri che ho scritto (almeno penso).
Siamo tutti dei "fu Mattia Pascal"
Ci sono libri che non si possono riassumere in una trama, pur appartenendo all’ambito della narrativa, perché la loro scrittura non ne è il veicolo, il nastro trasportatore della storia, ma la storia stessa. C’è una narrativa non di genere, non immediatamente riconoscibile, identificabile, senza per questo essere meno ricca di suspens, anzi. Ci sono racconti e romanzi che intrattengono un rapporto così intenso e sottile con la vita (di chi legge, di chi scrive) da non aver bisogno di farli evadere e trasportarli in un mondo di stereotipi virtuali, di metafore. Racconti e romanzi che producono stupore e fascinazione anche elencando le cose della vita ordinaria, che suscitano attese narrative col potere incantatorio delle parole che nominano la vita e si confondono in essa. E’ il caso dell’ultimo libro del giovanissimo Paolo Di Paolo, che si interroga sulla vita della scrittura e sulla scrittura della vita con la limpida, vertiginosa intenzionalità che si annuncia nel titolo: Raccontami la notte in cui sono nato.
E’ un romanzo - anche se di esso, appunto, non vale dire la trama. Alle sue origini, pare, c’è la suggestione della vicenda, rimbalzata dal sito Internet di aste eBay, del ventiquattrenne australiano (stessa età dell’autore) che ha messo in vendita la propria vita. Domanda: di che cosa è composta una vita? Che cosa c’è? O anche: che cosa è importante dire, notare, annotare, di una vita, magari della propria? Ora, l’estensore di questa recensione sa bene che si tratta della domanda (etica) che dovrebbe sovrintendere ogni narrazione, anzi ogni atto di scrittura. L’inesauribilità della sua risposta, che è misura della responsabilità (o taglio narrativo, o stile) dello scrittore, è tra le definizioni stesse della letteratura. Più intenso è poi il lavoro dello scrittore – che è sempre affare di fantasmi, cioè di sopravvivenza, in una parola di archivio e archiviazione –, più profondo è lo scavo, e più appare magro e inconsistente il bottino, evanescente e ineffabile, perché l’essenziale è sempre ciò che ci sfugge. Ragione per cui si continua a scrivere, e si scrive in prosa – continua ricerca di una parola giusta, della frase giusta. E’ quanto anche suggerisce la citazione di Georges Perec (uno dei numi tutelari di Di Paolo, il cui spirito lo accompagna in corso d’opera) riportata in postfazione dall’autore: “Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”. Ma Raccontami la notte in cui sono nato è anche altro (e nominerò alla fine, solo alla fine, un altro illustre, a mio avviso, nume o ascendente letterario di Di Paolo).
Nonostante la ritrosia conclamata di un Bartleby (“preferirei di no”), Paolo Di Paolo gioca, molto delicatamente, con un inventario di riferimenti artistici e letterari che denotano una nostalgia tutta technicolor per uno spazio letterario per lui mitico, quello grossomodo degli anni Sessanta e dintorni, forse del Pop. Ma lo sviscerarsi di questo arcipelago mitico, di questo spazio letterario, indica a contrario con impietoso nitore il deserto della nostra epoca quasi senza Storia, post-postmoderna; il nostro “spazio sfinito”, per usare la bella formula di Tommaso Pincio. Anche per questo, come ha notato Angelo Guglielmi su questo giornale, i libri di Paolo Di Paolo (e vorrei ricordare almeno Come un’isola, Perrone 2006), “non sono tanto contenitori di sapienza, quanto depositi di realtà”, che “agiscono restituendo ciò che non c’è più”. Salvo che, alla consapevolezza dei fatti della Storia, della Realtà condivisa, trasmessa e depositata negli archivi per i posteri, occorre ad esempio “aggiungere pioggia e anche vento, ogni tanto, lungo via Mameli. E dappertutto.”
Infine: questo confondere la scrittura e la vita, si badi, non è un’operazione leggera. E’ un’operazione dolorosa. Come nascere. Scrivere come anamnesi, come confessione. Rivivere, raccontandola, la propria nascita. E’ quanto il lettore non mancherà di notare alla fine del romanzo di Di Paolo, che si ricongiunge col titolo, colla propria origine. Nello stesso tempo il lettore avrà la sensazione di avere letto – ed ecco l’altro nume tutelare - una variante de Il fu Mattia Pascal, con la consapevolezza attualissima che ogni vita, la più straordinaria come la più ordinaria, è degna di un problematico racconto di Pirandello; e che siamo tutti, volenti o nolenti, dei “fu Mattia Pascal”.