8/13/2008

Per dirla meglio - Ascoltando Barenboim a Ravello

Sono a Ravello, la cui speciale bellezza viene dall’incrocio e sedimentazione di culture e stili diversi – civiltà greca, romana, araba, siculo-normanna, ma anche giardini romantici all’inglese. E’ una piccola capitale dell’ozio creativo, il cui ormai famoso Festival ne è celebrazione. Sono nel giardino di Villa Rufolo, là dove Wagner, uno dei tanti viaggiatori, riconobbe in toni esclamativi il giardino di Klingsor che andava cercando. L’evento “fuori programma” – “evento” nel senso vero della parola – è il concerto sinfonico diretto da Daniel Barenboim con la sua West-Eastern Divan Orchestra. Il nome goethiano è eloquente: la raccolta di poesie Divano occidentale orientale (1819), frutto dello studio di Goethe della poesia araba e persiana, è tappa preziosa nella storia dei rapporti tra Oriente e Occidente. E Goethe dichiarò che per lui “la patria è ovunque e in ogni luogo”. La Divan Orchestra - fondata dal palestinese Edward Said, filosofo e studioso di letteratura, e dall’ebreo israeliano, ma con anche passaporto palestinese, Daniel Barenboim, sublime pianista e direttore d’orchestra tra i più insigni del mondo - pratica e incarna quella pace, coesistenza e cooperazione necessaria tra i popoli, conoscenza reciproca, inter-dipendenza. I suoi componenti, musicisti giovanissimi e di grande talento, sono palestinesi e israeliani, cui si aggiungono siriani, egiziani e andalusi (la sede dell’Orchestra è a Siviglia).
Mi colpisce, ascoltando il primo dei concerti (trasmesso in diretta dalla tv franco-tedesca Arte) la modernità assoluta della musica di Wagner. Brilla ancora il sole sui monti Lattari dietro il palcoscenico, sul mare e la costa del Cilento in fondo all’orizzonte, quando attacca l’Ouverture dei Maestri cantori di Norimberga. Poi il Preludio e morte di Isotta (da Tristano e Isotta), con quel "la" spettrale che nasce dal silenzio, mentre il mare è argento vivo e immobile: quella nota su cui ha scritto osservazioni semplici e geniali lo stesso Barenboim nel suo La musica sveglia il tempo (Feltrinelli), e che contiene un suspens che, a me spettatore viziato dal cinema, ricorda Hitchcock. Il buio arriva con l’Atto primo de La Valchiria. Non si tratta solo di un’ironia della sorte: vedere arabi e israeliani suonare insieme Wagner superando lo storico tabù (Barenboim ha già diretto Wagner in Israele); si tratta di riscattare un’opera geniale (e che forse prefigurava proprio il cinema come arte totale), non tanto o non solo dal suo antisemitismo europeo, ma dalla funesta associazione colla “notte dei cristalli”, ha dichiarato Barenboim.
Sono nell’anfiteatro colmo anche la sera dopo, martedì 12. Il mare e il cielo trascolorano lungo le note della Sinfonia concertante in Si bemolle Maggiore, Hob.I n.105 di Franz Joseph Haydn prima, della rigorosissima “Arte della fuga dell’era dodecafonica” delle Variazioni per orchestra op. 31 di Arnold Schoenberg poi; e infine, quando tutto è immerso nel buio, risuona l’inquieta e vigorosa malinconia della Sinfonia n. 4 in Mi minore op. 48 di Johannes Brahms, l’anti-Wagner.
La mescolanza che definisce l’orchestra non è solo di culture e nazionalità, ma montaggio di idee. Il concetto stesso di “orchestra” assume un senso metodologico: crogiuolo e concatenamento di idee e forme, armonie e disarmonie, “paralleli e paradossi” (titolo di un libro a quattro mani di Said e Barenboim), come fu il metodo del compianto Edward Said, che ovunque cercava l’apertura e il movimento - si trattasse di un conflitto politico, un concetto filosofico, un romanzo di Melville, una sinfonia di Wagner o John Cage, o un’esecuzione al piano di Glenn Gould. E’ quanto proseguirà la Divan Foundation, mi assicura la vedova di Edward, Mariam Said. Che, inseparabile da Barenboim e dall’orchestra, mi descrive la condivisione di letture e seminari di opere del marito da parte dei giovani concertisti, parte integrante del loro impegno “orchestrale”. “Svegliare il tempo”, per parafrasare il libro di Barenboim. Ma anche la condizione dell’intellettuale, libero da appartenenze, che scorre nell’ultima, bellissima raccolta di saggi di Edward Said ora in traduzione italiana: Sotto il segno dell’esilio (Feltrinelli).
E forse Ravello (anticamente Rebellum) è anche questo: il luogo utopico del non-esilio, dove sentirsi insieme, paradossalmente, sradicati e residenti.
(in uscita su l'Unità, domani 14 agosto)

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