8/04/2008

Siamo tutti dei "fu Mattia Pascal"

Oggi su l'Unità c'è questa mia recensione al libro di Paolo Di Paolo, Raccontami la notte in cui sono nato. Naturalmente mi è piaciuto... Ma mi interessa lasciare qui traccia delle riflessioni che mi ha suscitato, e che mi riguardano, cioè riguardano anche libri che ho scritto (almeno penso).
Siamo tutti dei "fu Mattia Pascal"
Ci sono libri che non si possono riassumere in una trama, pur appartenendo all’ambito della narrativa, perché la loro scrittura non ne è il veicolo, il nastro trasportatore della storia, ma la storia stessa. C’è una narrativa non di genere, non immediatamente riconoscibile, identificabile, senza per questo essere meno ricca di suspens, anzi. Ci sono racconti e romanzi che intrattengono un rapporto così intenso e sottile con la vita (di chi legge, di chi scrive) da non aver bisogno di farli evadere e trasportarli in un mondo di stereotipi virtuali, di metafore. Racconti e romanzi che producono stupore e fascinazione anche elencando le cose della vita ordinaria, che suscitano attese narrative col potere incantatorio delle parole che nominano la vita e si confondono in essa. E’ il caso dell’ultimo libro del giovanissimo Paolo Di Paolo, che si interroga sulla vita della scrittura e sulla scrittura della vita con la limpida, vertiginosa intenzionalità che si annuncia nel titolo: Raccontami la notte in cui sono nato.
E’ un romanzo - anche se di esso, appunto, non vale dire la trama. Alle sue origini, pare, c’è la suggestione della vicenda, rimbalzata dal sito Internet di aste eBay, del ventiquattrenne australiano (stessa età dell’autore) che ha messo in vendita la propria vita. Domanda: di che cosa è composta una vita? Che cosa c’è? O anche: che cosa è importante dire, notare, annotare, di una vita, magari della propria? Ora, l’estensore di questa recensione sa bene che si tratta della domanda (etica) che dovrebbe sovrintendere ogni narrazione, anzi ogni atto di scrittura. L’inesauribilità della sua risposta, che è misura della responsabilità (o taglio narrativo, o stile) dello scrittore, è tra le definizioni stesse della letteratura. Più intenso è poi il lavoro dello scrittore – che è sempre affare di fantasmi, cioè di sopravvivenza, in una parola di archivio e archiviazione –, più profondo è lo scavo, e più appare magro e inconsistente il bottino, evanescente e ineffabile, perché l’essenziale è sempre ciò che ci sfugge. Ragione per cui si continua a scrivere, e si scrive in prosa – continua ricerca di una parola giusta, della frase giusta. E’ quanto anche suggerisce la citazione di Georges Perec (uno dei numi tutelari di Di Paolo, il cui spirito lo accompagna in corso d’opera) riportata in postfazione dall’autore: “Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”. Ma Raccontami la notte in cui sono nato è anche altro (e nominerò alla fine, solo alla fine, un altro illustre, a mio avviso, nume o ascendente letterario di Di Paolo).
Nonostante la ritrosia conclamata di un Bartleby (“preferirei di no”), Paolo Di Paolo gioca, molto delicatamente, con un inventario di riferimenti artistici e letterari che denotano una nostalgia tutta technicolor per uno spazio letterario per lui mitico, quello grossomodo degli anni Sessanta e dintorni, forse del Pop. Ma lo sviscerarsi di questo arcipelago mitico, di questo spazio letterario, indica a contrario con impietoso nitore il deserto della nostra epoca quasi senza Storia, post-postmoderna; il nostro “spazio sfinito”, per usare la bella formula di Tommaso Pincio. Anche per questo, come ha notato Angelo Guglielmi su questo giornale, i libri di Paolo Di Paolo (e vorrei ricordare almeno Come un’isola, Perrone 2006), “non sono tanto contenitori di sapienza, quanto depositi di realtà”, che “agiscono restituendo ciò che non c’è più”. Salvo che, alla consapevolezza dei fatti della Storia, della Realtà condivisa, trasmessa e depositata negli archivi per i posteri, occorre ad esempio “aggiungere pioggia e anche vento, ogni tanto, lungo via Mameli. E dappertutto.”
Infine: questo confondere la scrittura e la vita, si badi, non è un’operazione leggera. E’ un’operazione dolorosa. Come nascere. Scrivere come anamnesi, come confessione. Rivivere, raccontandola, la propria nascita. E’ quanto il lettore non mancherà di notare alla fine del romanzo di Di Paolo, che si ricongiunge col titolo, colla propria origine. Nello stesso tempo il lettore avrà la sensazione di avere letto – ed ecco l’altro nume tutelare - una variante de Il fu Mattia Pascal, con la consapevolezza attualissima che ogni vita, la più straordinaria come la più ordinaria, è degna di un problematico racconto di Pirandello; e che siamo tutti, volenti o nolenti, dei “fu Mattia Pascal”.

2 commenti:

zambrius ha detto...

Gentilissimo Beppe, domenica mattina me ne stavo seduto su una panchina a leggere il suo libro sulle panchine (e anche su un sacco di altre cose). Mentre lo leggevo pensavo: "questo libro piacerebbe a Paolo di Paolo, gli scriverò una mail per dirgli se lo ha già letto". Poi, arrivato in fondo al libro, scopro con emozione e sorpresa che Paolo è presente fra i ringraziamenti dell'autore... E' propio vero che i libri (e certi scrittori) si chiamano e si parlano fra loro. Grazie per una delle letture (delle soste) più belle dell'estate.
Giovanni

Anonimo ha detto...

grazie di questo gentilissimo intervento. è vero che la comunicazione, o quanto meno (e forse meglio) la concatenazione, esiste ed è all'opera anche malgrado noi... beppe s.