Ultimo giorno di luglio, e io sono tornato in città. Roma. Un caldo bestiale e un sacco di penseri (uno tra tutti: un trasloco da fare entro settembre). Sembra l'inferno, spero che sia solo il purgatorio. Prossimi spostamenti: presentazione di libri (HP e Panchine insieme) a Courmayeur il 7 agosto, e il 10 le Panchine alla rassegna Pralibri, sopra Torino, a cura della libreria del Gruppo Abele. Per il resto sempre qui, a Roma - lo dico agli amici superstiti, tipo messaggio nella bottiglia. Spero nelle piscine e nelle arene estive...
Ma per dirla in modo più serio, pare davvero che le città siano piene e popolate, come se non fosse estate. Il motivo è semplice e drammatico: siamo tutti poverissimi. A questo proposito un signore incontrato ieri sera, che si intende, e molto, di rifiuti e smaltimenti, mi ha detto che i cassonetti delle città sono praticamente vuoti rispetto al passato: specchio dell'attuale miseria degli Italiani. Ancora, sempre sotto questa luce, si possono interpretare in un modo diverso le ultime vicende del governo, come l'abnorme proliferazione di soldati nelle città, stile Spagna franchista, di cui stupisce che nessun giornale si stupisca, che nessuno protesti. Quindi, oltre a fomentare la paura, oltre a usare armi e uniformi dei soldati come "armi di distrazione di massa" (contro chi, del resto? gli zingari? i lavavetri? i giudici?), e per presunti motivi di prevenzione del crimine, nell'ossessione securitaria attuale, si tratterebbe di prevenire future rivolte eventuali di cittadini, esasperati e forse affamati. "Prove di antinsurrezione": così si intitola un' e-mail ragionato e inquietante che sta circolando in questi giorni su Internet. In questo scenario, auguro comunque un buon agosto a tutti.
7/31/2008
7/30/2008
Sguardi d'artista sul pianeta Terra
Ho già parlato, anche qui, del bellissimo libro - testi e fotografie - di Giorgio Messori e Vittore Fossati, Viaggio in un paesaggio terrestre. Ho avuto modo alla fine di giugno di parlarne a Milano, in occasione dell'apertura di una mostra di Vittore Fossati a Castello Sforzesco, dove sono esposti in una bacheca anche gli appunti e i brogliacci del libro, quando era un lavoro in corso. E ho avuto modo di parlare, più di una volta, della mia amicizia con Giorgio Messori, scrittore, scomparso due anni fa (le mie Panchine, intese come libro, sono intimamente dedicate a lui). Su il manifesto di ieri è apparsa questa bella intervista al fotografo Vittore Fossati, che riporto qui integralmente:
Sguardi d'artista sul pianeta Terra
Parla il fotografo Vittore Fossati, in mostra a Milano. In un'esposizione al Castello Sforzesco, «Viaggio in un paesaggio terrestre», quaranta immagini di Fossati, che fanno parte di un progetto sulle tracce dei luoghi raffigurati dai grandi pittori, realizzato insieme allo scrittore Giorgio Messori scomparso l'anno scorso
Roberto Maggiori
La mostra fotografica Vittore Fossati, Giorgio Messori - Viaggio in un paesaggio terrestre, allestita al Castello Sforzesco di Milano fino al 21 settembre, deriva direttamente da un libro che porta lo stesso titolo e che è uscito per Diabasis lo scorso anno, un libro illustrato davvero sui generis in cui racconto scritto e fotografia si sviluppano insieme, interagiscono e si influenzano a vicenda senza gerarchie prestabilite. Ma soprattutto un work in progress, un viaggio che lo scrittore emiliano scomparso nel 2006 e il fotografo piemontese hanno compiuto sulle tracce dei luoghi cari agli artisti e dei paesaggi resi celebri dalle loro rappresentazioni. Ecco allora succedersi la Val Bregaglia cara a Giacometti, e Ornans, paese natale di Courbet, in cui il pittore realizzò molti dei suoi dipinti realisti. E ancora Fontaine-de-Vaucluse, dove Petrarca compose tanti sonetti e la montagna Sainte Victoire che Cézanne ritrasse più e più volte durante l'arco della sua vita, via via fino alla Delft di Vermeer (in cui anche Werner Herzog filmò alcune scene del suo Nosferatu), o alle rovine del monastero di Eldena in Pomerania dove Friedrich ambientò le sue visioni. Un viaggio allora dove si guarda al «paesaggio» e al tempo stesso si riflette sull'atto del guardare e sulle sue sedimentazioni culturali, facendo di volta in volta riferimento a quegli autori, da Merleau-Ponty a John Berger, che si sono interrogati sui linguaggi della percezione. A Vittore Fossati, le cui fotografie «terrestri» bene si coniugano con gli aspetti più «teorici» del progetto,abbiamo chiesto di raccontare la genesi di questa singolare esperienza.
Come è nata l'idea e poi la realizzazione di questo libro?
Nell'agosto 1997 Giorgio Messori aveva preso un appartamento in affitto in una località dell'Appennino reggiano e mi aveva invitato a passare qualche giorno da lui. Siccome eravamo tutti e due abbastanza sfaccendati, gli ho proposto di andare in giro per quei luoghi per vedere cosa veniva fuori mettendo insieme le sue descrizioni e le mie osservazioni. A volte fingevamo di essere alieni capitati un po' maldestramente sulla Terra con il compito di fare una relazione su ciò che compone il paesaggio del pianeta. Da qui deriva il titolo di quello che sarebbe diventato il primo capitolo del libro: «Paesaggio terrestre attorno a Villa Minozzo». Negli anni successivi avremmo poi compiuto altri viaggi, corrispondenti agli altri otto capitoli, e questa volta in località scelte appositamente, seguendo un ordine narrativo che, partendo da un luogo «anonimo», «qualsiasi», ci ha condotti sino ai «luoghi» della pittura di Friedrich dove il libro, nel nostro progetto, avrebbe dovuto trovare la conclusione.
Quale autonomia possono avere queste fotografie al di fuori del libro per cui sono state concepite e con cui interagiscono?
Il nostro non è uno di quei volumi fotografici tradizionali dove parole e immagini rappresentano parti separate nel corpo dell'opera, ma un libro illustrato, nel quale le fotografie vanno di pari passo con il testo. Libri come questo non si realizzano facilmente, anche perché non capita spesso di incontrare una persona, un amico, con cui condividere viaggi, parole, pensieri e lavoro per tanto tempo. Detto questo, per la mostra al Castello Sforzesco ho stampato quaranta fotografie, scelte fra quelle che hanno una maggiore autonomia visiva. A nove di loro, una per capitolo, è affiancato un passo del testo corrispondente. Inoltre per l'esposizione - su richiesta di Silvia Paoli, conservatrice del Civico Archivio Fotografico, e dopo averne discusso anche con Pierangelo Cavanna - ho sistemato nelle bacheche qualche menabò, prove, appunti: materiali che documentano alcuni momenti di «lavorazione» del libro.
Il libro si basa su tempi lunghi: il tempo lungo di un viaggio che parte dagli Appennini per arrivare in Pomerania e poi indietro fino a Capri e al Mediterraneo, il tempo lungo della narrazione, e anche il tempo lungo dell'immagine fotografica che si concede e ci concede il lusso di farsi osservare senza limiti temporali. Una modalità che permette al fruitore momenti di riflessione sempre più rari nella frenesia mediatica degli ultimi decenni. Ce ne può parlare?
Giorgio Messori non era un cronista e io non sono un reporter. Oltretutto, nessuno ci aveva chiesto di fare questo lavoro e quindi, tantomeno, non ci erano stati imposti dei tempi di consegna. Se Giorgio non fosse scomparso in un anfratto del paesaggio terrestre, probabilmente a quest'ora saremmo in giro a raccogliere parole e immagini per un altro capitolo. Era il nostro modo per stare insieme, incontrare gli amici, sentire la musica in auto, visitare un museo, spedire una cartolina. «Nessuna fretta di voler essere o voler diventare», per dirla con le parole che ha adoperato Beppe Sebaste in un suo recente ricordo di Messori.
A un certo punto del viaggio si arriva a Borgonuovo in Val Bregaglia, paese natale di Alberto Giacometti, e viene citato lo stesso artista che in un'intervista aveva dichiarato come la solitudine non sia una questione psicologica, ma esista nello spazio che ci isola. Gli oggetti sarebbero dunque in natura irrimediabilmente separati l'uno dall'altro. La fotografia individua questi oggetti e dà loro un ordine, una relazione, oppure intensifica il loro isolamento?
Per un pittore o per uno scultore l'esperienza estetica dello spazio è diversa da quella di un fotografo. Lo spazio è discontinuo, e tutto vi è distribuito in modo ineguale, compresa la nostra attenzione e sensibilità alle cose, a quanto avviene negli spazi che di volta in volta abitiamo, anche con lo sguardo. Poi, non tanto diversamente da quello che succede in altri momenti della vita, anche le fotografie ci appaiono spesso senza capo né coda. Difatti, come dei tranci, «stanno in mezzo»: tra un prima e un dopo, un sotto e un sopra, fra qualcosa che sta a sinistra e una cosa che continuerebbe a destra ma che però è stata «tagliata» e perciò nella foto non si vede. Quindi va da sé che le foto mostrino una porzione isolata di «realtà». Il vantaggio è che l'occhio può cogliere forse meglio, all'interno della scena inquadrata, alcuni rapporti fra le cose. Già, ma quali relazioni e fra quali cose? A questo punto, con grande sollievo, mi viene in mente che Cesare Zavattini, che aveva visto all'opera Paul Strand, lo ricordava così: «Quando fotografa un albero, quell'albero non è mai solo, Strand è l'altro albero».
In questo viaggio si torna all'aria aperta, alla natura non corrotta dalla «civiltà», alla ricerca di un «limite boschivo» (per dirla con Thomas Bernhard), fuori da ogni giurisdizione. Di cosa esattamente siete andati in cerca?
Rispondendo con una battuta, direi che almeno qualche volta abbiamo cercato posti che fossero davvero «fuori da ogni giurisdizione», nel senso di posti dove poter lasciare l'automobile e andare a fare una passeggiata senza il pensiero di beccarsi una multa.
È possibile leggere in chiave ambientalista quello che Messori scrive nella premessa quando afferma che questo viaggio e questo libro sono un'esercitazione a osservare il mondo che abbiamo intorno, e quindi una terapia per non perdere la sensibilità verso ciò che ci è prossimo?
Prima di andare in Uzbekistan, dove ha fatto per cinque anni il lettore di italiano all'università di Tashkent, Giorgio Messori insegnava lettere in un istituto superiore di Reggio Emilia. Qui aveva composto un «Piccolo decalogo per un corso scolastico di scrittura creativa». Al punto 5 dava questi suggerimenti: «Non essere mai astratto, scrivi sempre di cose concrete, vere, che ti sono vicine. È più interessante scrivere di una pozzanghera, o di ciò che vedi in una passeggiata sotto il sole, che non della minaccia nucleare che incombe sul mondo. Fra l'altro (anche se è un po' difficile da capire) fai un miglior servizio alla causa contro il pericolo nucleare scrivendo di cose molto concrete che non ripetendo frasi rimasticate di discorsi già fatti da altri». Quello che posso dire è che nel nostro libro abbiamo cercato di non fare troppo diversamente da quello che lui stesso consigliava ai suoi studenti.
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7/28/2008
Impunità, immunità - una modesta proposta
Qui di seguito un breve "corsivo" che meditavo da giorni, ma mi mordevo la lingua come Palomar per continuare a tacere. Ma visto che nessuno ci ha ancora pensato, l'ho scritto e dato all'Unità (uscirà domani o dopo). Per il resto, palme, mirti, vento, spiaggia, mare turchese pieno di sfumature di altri colori di cui non so nemmeno i nomi, insomma Salento (ritardo il mio rientro a Roma). Un saluto a tutti...
L’enorme disparità giuridica creata dal cosiddetto lodo Alfano è ormai nota a tutti. Il primo ministro Silvio Berlusconi è come un sovrano assoluto (ab-soluto, cioè assolto dall’obbligo di sottomettersi alle Leggi), e a differenza di noi cittadini-sudditi gode di un’immunità, ovvero impunità, totali. Tutti sanno anche che, benché tale assoluta immunità valga anche per altre cariche dello Stato, la si è concepita per Lui solo, che non da ieri deve e ha dovuto affrontare vari processi e inchieste non proprio consone al profilo di uno statista, anzi spesso infamanti, e dalle quali talvolta è stato assolto, talaltra, ostacolando i giudizi, ha goduto della prescrizione pur non essendo stato riconosciuto innocente. Ma questo lo sappiamo tutti, benché la gravità del fatto non è da tutti riconosciuta allo stesso modo.
Vorrei invece porgere una modesta proposta che, lungi dal riequilibrare la disparità di trattamento e di potere, possa almeno un po’ alleviare a noi sudditi questa mortificante disparità. La penso da giorni, e avrei voluto tacere, ma vedo nessuno finora l’ha presentata. Neanche gli esponenti della satira (che in Italia, e non per colpa loro, hanno preso il posto lasciato vuoto dalla politica). L’idea, in una parola, è di conferire anche ai sudditi una piccola porzione di immunità, un’impunità reciproca.
Se il Premier è per definizione immune e sottratto alla Legge e al giudizio, se a differenza di ognuno di noi, milioni di Italiani, non è più oggetto di azioni civili e penali, allora che Egli non sia nemmeno più soggetto di azioni civili e penali. Che non sia più soggetto giuridico: che Egli non possa denunciare, diffidare, criminalizzare, né intraprendere alcuna azione legale nei confronti dei suoi sudditi. Che ognuno di noi, milioni di Italiani, possa dire quello che vuole al Suo indirizzo impunemente, senza timore di infrangere la legge sotto il profilo dell’ingiuria o della diffamazione. Che il Re, come un vero sovrano, possa essere deriso dal Buffone senza che incomba su quest’ultimo la minaccia dell’impiccagione.
E’ poca cosa, lo so, ma pur sempre una piccola consolazione per i sudditi: diventare anche noi, per un pizzico, irresponsabili: nei Suoi confronti. Che sia almeno possibile impunemente “diffamarlo”, definizione giuridica che comprende il giudizio anche sommario o l’epiteto colorito - per esempio, ed è un’ormai storica citazione, “buffone”, oppure “imbroglione” (gli esempi ispirati alla cronaca non mancano). Naturalmente i cittadini-sudditi non si limiteranno allo sberleffo, ma estenderanno la loro facoltà all’inchiesta, all’intercettazione, al giudizio etico e morale (questo sì, imperscrittibile) e, naturalmente, politico (poiché tutto è politica per un sovrano, anche la vita privata).
(Tra parentesi: ci sarebbe forse da riflettere sul fatto che, qualcuno che non sia destinatario di azioni giuridiche, in quanto immune ed esentato (ab-soluto) dal giudizio, possa ancora ritenersi un soggetto dotato di facoltà giuridiche, e non magari da dichiararsi interdetto. L’interdizione sarebbe forse, a rigore, la soluzione giuridica più adeguata per qualcuno che, assolto, ab-soluto, per definizione, è a tutti gli effetti irresponsabile. Di fatto, solo noi cittadini, milioni di Italiani che non godono di nessuna immunità, siamo per ora responsabili delle nostre azioni, cioè perseguibili civilmente e penalmente).
Resta che il reato di “vilipendio”, che si riserva alle istituzioni e alle alte cariche dello stato, dovrebbe essere mantenuto. In effetti, per rispetto alle alte cariche, la proposta è stata pensata inizialmente solo per il primo Ministro. Ma avendo saputo di una denuncia per diffamazione indirizzata dall’immune e assoluto Presidente del Senato Schifani al comune cittadino e giornalista Marco Travaglio, forse è il caso di non limitare questa impunità “reversibile” al solo Premier. La nostra modesta proposta non intende privare le Istituzioni dello Stato del loro prestigio e valore. Mi sembra anzi che siano altri ad infangarle. Anche (ma non solo) col lodo Alfano.
L’enorme disparità giuridica creata dal cosiddetto lodo Alfano è ormai nota a tutti. Il primo ministro Silvio Berlusconi è come un sovrano assoluto (ab-soluto, cioè assolto dall’obbligo di sottomettersi alle Leggi), e a differenza di noi cittadini-sudditi gode di un’immunità, ovvero impunità, totali. Tutti sanno anche che, benché tale assoluta immunità valga anche per altre cariche dello Stato, la si è concepita per Lui solo, che non da ieri deve e ha dovuto affrontare vari processi e inchieste non proprio consone al profilo di uno statista, anzi spesso infamanti, e dalle quali talvolta è stato assolto, talaltra, ostacolando i giudizi, ha goduto della prescrizione pur non essendo stato riconosciuto innocente. Ma questo lo sappiamo tutti, benché la gravità del fatto non è da tutti riconosciuta allo stesso modo.
Vorrei invece porgere una modesta proposta che, lungi dal riequilibrare la disparità di trattamento e di potere, possa almeno un po’ alleviare a noi sudditi questa mortificante disparità. La penso da giorni, e avrei voluto tacere, ma vedo nessuno finora l’ha presentata. Neanche gli esponenti della satira (che in Italia, e non per colpa loro, hanno preso il posto lasciato vuoto dalla politica). L’idea, in una parola, è di conferire anche ai sudditi una piccola porzione di immunità, un’impunità reciproca.
Se il Premier è per definizione immune e sottratto alla Legge e al giudizio, se a differenza di ognuno di noi, milioni di Italiani, non è più oggetto di azioni civili e penali, allora che Egli non sia nemmeno più soggetto di azioni civili e penali. Che non sia più soggetto giuridico: che Egli non possa denunciare, diffidare, criminalizzare, né intraprendere alcuna azione legale nei confronti dei suoi sudditi. Che ognuno di noi, milioni di Italiani, possa dire quello che vuole al Suo indirizzo impunemente, senza timore di infrangere la legge sotto il profilo dell’ingiuria o della diffamazione. Che il Re, come un vero sovrano, possa essere deriso dal Buffone senza che incomba su quest’ultimo la minaccia dell’impiccagione.
E’ poca cosa, lo so, ma pur sempre una piccola consolazione per i sudditi: diventare anche noi, per un pizzico, irresponsabili: nei Suoi confronti. Che sia almeno possibile impunemente “diffamarlo”, definizione giuridica che comprende il giudizio anche sommario o l’epiteto colorito - per esempio, ed è un’ormai storica citazione, “buffone”, oppure “imbroglione” (gli esempi ispirati alla cronaca non mancano). Naturalmente i cittadini-sudditi non si limiteranno allo sberleffo, ma estenderanno la loro facoltà all’inchiesta, all’intercettazione, al giudizio etico e morale (questo sì, imperscrittibile) e, naturalmente, politico (poiché tutto è politica per un sovrano, anche la vita privata).
(Tra parentesi: ci sarebbe forse da riflettere sul fatto che, qualcuno che non sia destinatario di azioni giuridiche, in quanto immune ed esentato (ab-soluto) dal giudizio, possa ancora ritenersi un soggetto dotato di facoltà giuridiche, e non magari da dichiararsi interdetto. L’interdizione sarebbe forse, a rigore, la soluzione giuridica più adeguata per qualcuno che, assolto, ab-soluto, per definizione, è a tutti gli effetti irresponsabile. Di fatto, solo noi cittadini, milioni di Italiani che non godono di nessuna immunità, siamo per ora responsabili delle nostre azioni, cioè perseguibili civilmente e penalmente).
Resta che il reato di “vilipendio”, che si riserva alle istituzioni e alle alte cariche dello stato, dovrebbe essere mantenuto. In effetti, per rispetto alle alte cariche, la proposta è stata pensata inizialmente solo per il primo Ministro. Ma avendo saputo di una denuncia per diffamazione indirizzata dall’immune e assoluto Presidente del Senato Schifani al comune cittadino e giornalista Marco Travaglio, forse è il caso di non limitare questa impunità “reversibile” al solo Premier. La nostra modesta proposta non intende privare le Istituzioni dello Stato del loro prestigio e valore. Mi sembra anzi che siano altri ad infangarle. Anche (ma non solo) col lodo Alfano.
7/18/2008
Ogni volta la fine del mondo
Ho un amico scrittore che conosco da tempo (ci siamo incontrati la prima volta a Parigi, vari anni fa), ma vedo solo ogni tanto, a Roma, dove abitiamo entrambi. Lui è sempre, quando lo incontro, per esempio a Trastevere, sbarbato e docciato, e mi mette allegria, con quel suo modo timido e sornione. Oppure ci vediamo in situazioni tipo inaugurazioni - come all'ultima mostra di Giosetta Fioroni, su cui lui ha scritto un articolo per l'Unità - oppure a "Colori di Roma" all'Auditorum, organizzato da Repubblica, dove eravamo entambi coinvolti come autori, oppure ancora in una casa dove si festeggiava il mio amico Jean Echenoz. In questi posti lui è maestro nel consigliarmi il vino migliore (quando si può scegliere) tra quelli che offrono al buffet. Gli piace bere, questo è vero, ma ha gusti estremamente raffinati. E' squattrinato, proprio come me, ma come me ha conosciuto bene anche la vita agiata. Siamo coetanei, sebbene lui abbia tre anni meno di me. Insegna Lettere a Rebibbia, alle carcerate. Mi ha parlato spesso di questo lavoro, invitandomi a provarlo. In proposito, potete leggere una sua bella intervista. Comunque sia, non abbiamo, che io ricordi, mai parlato di letteratura, intendendo con questo i suoi o i miei libri. E non ho mai avuto dubbio, forse anche per questo, che per lui scrivere (e leggere) sia una cosa molto seria, importante e insieme non importante (non oggetto di chiacchiere): un affare di vita, della vita (e del suo senso). E quindi è strano che non parli, parlando di lui, dei suoi romanzi dai titoli moraviani, densi e forti, pubblicati da Feltrinelli all'inizio, poi da Mondadori. Pare che l'ultimo sia in uscita, come ho appena letto su questo blog che non conoscevo, e del cui post non conosco la firma.
Rocco Carbone (è il suo nome) è morto ieri notte, o questa mattina presto. Si è schiantato con la sua moto. La notizia mi ha schiantato per un po' oggi pomeriggio E' giunta al telefono da un altro amico, Andrea Di Consoli, mentre bevevo un caffè sul mare, anzi mangiavo anche un panino, guardavo le barche e la spiaggia, un'isoletta al largo, i colori tremolanti al sole, un paesaggio presto diventato abbacinante. Sant'Isidoro, vicino a Porto Cesareo, in Salento. Rocco era nato a Reggio Calabria, a proposito.
Diceva Derrida che la morte di ogni suo amico era per lui, ogni volta, la fine del mondo. Credo voglia dire che ogni morte è la morte di sé, e quindi del mondo. E penso che sia vero, assolutamente.
Non sono pochi, i miei morti. Ma non ci si abitua mai. Va bene, non rivedrò più Rocco Carbone a Trastevere, e nemmeno ai vernissages dell'amica Giosetta Fioroni, e nemmeno... Oggi non riuscivo a ricordare il nome di un vino bianco che mi aveva fatto conoscere Rocco al buffet dell'Auditorium, buonissimo. Rivedo solo il suo sorriso, uno di quei sorrisi veri fatti col minimo sforzo, cogli occhi. La sua faccia sbarbata nell'uscita serale, all'ora dell'aperitivo. Un'allegra malinconia, molto italiana, senza nessuna posa, il che è ben poco italiano. Ok, leggiamolo, leggetelo, cercate i suoi romanzi nei siti che ne parlano, nelle librerie, è importante leggere gli scrittori vivi, e forse è ancora più importante leggere gli scrittori morti.
Rocco Carbone (è il suo nome) è morto ieri notte, o questa mattina presto. Si è schiantato con la sua moto. La notizia mi ha schiantato per un po' oggi pomeriggio E' giunta al telefono da un altro amico, Andrea Di Consoli, mentre bevevo un caffè sul mare, anzi mangiavo anche un panino, guardavo le barche e la spiaggia, un'isoletta al largo, i colori tremolanti al sole, un paesaggio presto diventato abbacinante. Sant'Isidoro, vicino a Porto Cesareo, in Salento. Rocco era nato a Reggio Calabria, a proposito.
Diceva Derrida che la morte di ogni suo amico era per lui, ogni volta, la fine del mondo. Credo voglia dire che ogni morte è la morte di sé, e quindi del mondo. E penso che sia vero, assolutamente.
Non sono pochi, i miei morti. Ma non ci si abitua mai. Va bene, non rivedrò più Rocco Carbone a Trastevere, e nemmeno ai vernissages dell'amica Giosetta Fioroni, e nemmeno... Oggi non riuscivo a ricordare il nome di un vino bianco che mi aveva fatto conoscere Rocco al buffet dell'Auditorium, buonissimo. Rivedo solo il suo sorriso, uno di quei sorrisi veri fatti col minimo sforzo, cogli occhi. La sua faccia sbarbata nell'uscita serale, all'ora dell'aperitivo. Un'allegra malinconia, molto italiana, senza nessuna posa, il che è ben poco italiano. Ok, leggiamolo, leggetelo, cercate i suoi romanzi nei siti che ne parlano, nelle librerie, è importante leggere gli scrittori vivi, e forse è ancora più importante leggere gli scrittori morti.
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7/09/2008
Piazza Navona
Ieri ero a Piazza Navona. C'era una bella brezza e il cielo azzurrissimo. Ho anche mangiato un gelato. Salutato un mucchio di amici. E, a parte Beppe Grillo che non c'entrava una mazza, in diretta telefonica, ho sentito discorsi civilissimi, e altri irresistibilmente comici (non c'era bisogno che Sabina Guzzanti (vedi intervista con lei di qualche anno fa) si mettesse un naso finto, magari rosso, per capire che la sua era satira, con tanto di variazioni di voci e di tono). Oggi, dopo la lettura dei giornali, sono rimasto di stucco. Sconvolto che ci si indigni, ancora una volta, contro la società civile invece che con l'inciviltà del governo. Ho scritto frettolosamente questo pezzo che dovrebbe uscire, domani o dopo, su l'Unità:
La società civile dei cosiddetti girotondi, quella stessa che svegliò dal torpore il centrosinistra di sei anni fa (incerto come oggi se essere in concorrenza o in opposizione), e portò alle primarie per Prodi, ha gremito martedì scorso Piazza Navona per rivendicare essenzialmente due cose: legalità, e difesa della democrazia e della Costituzione. Le parole di Moni Ovadia, Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri, Rita Borsellino, Furio Colombo, tra gli altri, erano inequivocabili. Come quelle di Marco Travaglio, quando spiega per l’ennesima volta che ciò che viene tacciato di “giustizialismo” altro non è che “legalità”. Poi c’è stato – unico elemento “berlusconiano”, ovvero dettato da ragioni esclusivamente spettacolari – l’intervento qualunquista di Beppe Grillo. A riprova che il morbo spettacolar-pubblicitario spazia ovunque.
Poi, ancora, c’è stato il monologo satirico di Sabina Guzzanti, demonizzato dai giornali di ieri in un coro unanime. La critica della volgarità e della barbarie di chi ci governa si ritorce su chi la denuncia. La satira, pare, si è sporcata le mani. Ma quanto sporche sono le nostre, che nello spettacolo del governo abbiamo la turpitudine tutti i giorni sotto gli occhi senza scandalizzarci, e ci scandalizziamo quando qualcuno lo dice con chiarezza?
Sabina Guzzanti ha sempre usato il suo talento per denunciare il regime in cui viviamo: regime linguistico, quasi una satira autoreferenziale permanente; ma anche regime politico, perché dire è fare, e dalle manipolazioni sulle parole prendono avvio quelle sulle persone e le istituzioni. E’ però inquietante che in Italia la satira abbia preso il posto della politica, che pare latitante. Di fronte a un populismo demagogico guidato da un pubblicitario di mestiere, il cui governo sta realizzando una a una tutte le più fascistizzanti chiacchiere da bar (fino alla riproposta delle leggi razziali), l’opposizione sembra condividere il linguaggio e l’agenda della destra, rinunciando a dire e vedere che “il re è nudo”. Se i monologhi di Sabina Guizzanti sembrano allora poco satirici è perché, in una realtà già in sé deformata dalla volgarità, diventano descrizioni di cose e fatti. Oggi il re non è solo nudo, ma la sua nudità è di uno squallore che corrode le regole stesse della convivenza civile. Quale altro Paese ha un premier che non solo fa le corna e racconta barzellette a sproposito agli altri capi di Stato, ma mima un mitra contro una giornalista russa, parla al telefono di compravendita di persone, di donne, con un funzionario della tv pubblica, ecc. ecc.? Ma si discute di come vietare le intercettazioni e la loro divulgazione, non della moralità e della legalità del Premier. Satira, in questi anni, è stato paradossalmente rappresentare la realtà spogliata dalle barocche deformazioni della menzogna. Ricordo anni fa che a un certo punto del suo spettacolo Sabina Guzzanti citava Pier Paolo Pasolini. E si capisce che nel suo retroterra stilistico-morale c’è anche quel celebre gesto di “giustizia poetica” che Pasolini affidò a un testo degli anni Settanta: “Io so. Io so chi sono i mandanti delle stragi. Lo so anche se non ho le prove. Lo so perché sono un intellettuale...” La denuncia senza prove giuridiche viene sostenuta da una responsabilità intellettuale e morale. E’ questa eresia che oggi, purtroppo, prende il posto della politica, preoccupata sopratutto di smorzare e negare i conflitti. Cari politici di centrosinistra, non sparate sui comici: restituiteli al loro mestiere, e fate politica, che è anche e sopratutto moralità, cultura, senso proprio delle parole, come quando la sinistra era vincente anche senza essere di governo.
La società civile dei cosiddetti girotondi, quella stessa che svegliò dal torpore il centrosinistra di sei anni fa (incerto come oggi se essere in concorrenza o in opposizione), e portò alle primarie per Prodi, ha gremito martedì scorso Piazza Navona per rivendicare essenzialmente due cose: legalità, e difesa della democrazia e della Costituzione. Le parole di Moni Ovadia, Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri, Rita Borsellino, Furio Colombo, tra gli altri, erano inequivocabili. Come quelle di Marco Travaglio, quando spiega per l’ennesima volta che ciò che viene tacciato di “giustizialismo” altro non è che “legalità”. Poi c’è stato – unico elemento “berlusconiano”, ovvero dettato da ragioni esclusivamente spettacolari – l’intervento qualunquista di Beppe Grillo. A riprova che il morbo spettacolar-pubblicitario spazia ovunque.
Poi, ancora, c’è stato il monologo satirico di Sabina Guzzanti, demonizzato dai giornali di ieri in un coro unanime. La critica della volgarità e della barbarie di chi ci governa si ritorce su chi la denuncia. La satira, pare, si è sporcata le mani. Ma quanto sporche sono le nostre, che nello spettacolo del governo abbiamo la turpitudine tutti i giorni sotto gli occhi senza scandalizzarci, e ci scandalizziamo quando qualcuno lo dice con chiarezza?
Sabina Guzzanti ha sempre usato il suo talento per denunciare il regime in cui viviamo: regime linguistico, quasi una satira autoreferenziale permanente; ma anche regime politico, perché dire è fare, e dalle manipolazioni sulle parole prendono avvio quelle sulle persone e le istituzioni. E’ però inquietante che in Italia la satira abbia preso il posto della politica, che pare latitante. Di fronte a un populismo demagogico guidato da un pubblicitario di mestiere, il cui governo sta realizzando una a una tutte le più fascistizzanti chiacchiere da bar (fino alla riproposta delle leggi razziali), l’opposizione sembra condividere il linguaggio e l’agenda della destra, rinunciando a dire e vedere che “il re è nudo”. Se i monologhi di Sabina Guizzanti sembrano allora poco satirici è perché, in una realtà già in sé deformata dalla volgarità, diventano descrizioni di cose e fatti. Oggi il re non è solo nudo, ma la sua nudità è di uno squallore che corrode le regole stesse della convivenza civile. Quale altro Paese ha un premier che non solo fa le corna e racconta barzellette a sproposito agli altri capi di Stato, ma mima un mitra contro una giornalista russa, parla al telefono di compravendita di persone, di donne, con un funzionario della tv pubblica, ecc. ecc.? Ma si discute di come vietare le intercettazioni e la loro divulgazione, non della moralità e della legalità del Premier. Satira, in questi anni, è stato paradossalmente rappresentare la realtà spogliata dalle barocche deformazioni della menzogna. Ricordo anni fa che a un certo punto del suo spettacolo Sabina Guzzanti citava Pier Paolo Pasolini. E si capisce che nel suo retroterra stilistico-morale c’è anche quel celebre gesto di “giustizia poetica” che Pasolini affidò a un testo degli anni Settanta: “Io so. Io so chi sono i mandanti delle stragi. Lo so anche se non ho le prove. Lo so perché sono un intellettuale...” La denuncia senza prove giuridiche viene sostenuta da una responsabilità intellettuale e morale. E’ questa eresia che oggi, purtroppo, prende il posto della politica, preoccupata sopratutto di smorzare e negare i conflitti. Cari politici di centrosinistra, non sparate sui comici: restituiteli al loro mestiere, e fate politica, che è anche e sopratutto moralità, cultura, senso proprio delle parole, come quando la sinistra era vincente anche senza essere di governo.
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7/05/2008
"Pronto?"
Beh, sarebbe ora di rinnovare un po' il blog, mi pare, fermo da un mese a parte i commenti (un grazie a tutti gli amici e i lettori, anche quelli che che mi hanno mandato comunicazioni private - sulle "panchine"). Nel frattempo il mio compleanno, il caldo, alcuni giri, anche a Parma - dove mi sono sentito come un dissidente russo di trent'anni fa (pare che lì l'amministrazione non mi ami, come ricorda questa intervista a un giornale locale, firmata da Massimiliano Brunetti) -; e, diciamolo, lo facelo intorno dell'Italia e degli Italiani, la loro immondizia morale.
Mercoledì prossimo, il 9 luglio - lo dico per chi sta a Roma - c'è una presentazione di Panchine alla Casa delle Letterature (Piazza dell'Orologio), nel cortile-giardino, con Marino Sinibaldi di Fahrenheit. Poi al mare, in Puglia.
L'idea era quella di postare un mio vecchio racconto dal titolo "Calendario". Dice un mio spaesamento sempre attuale. Non avendolo più nel computer né trovandosi in Internet, mi tocca riscriverlo. Rimando alla prossima volta, magari domani. C'è caldo, moderare i gesti (l'8 però alla manifestazione ci vado). Valgano queste righe come "funzione fàtica" (direbbero i linguisti), ovvero a garantire il "contatto" ("Pronto? Ci sei?").
La cosa più importante: oggi è il compleanno di mio figlio, in questo momento alla prova di se stesso in un kibbutz nel deserto. Auguri, Pierre!, con un abbraccio.
Mercoledì prossimo, il 9 luglio - lo dico per chi sta a Roma - c'è una presentazione di Panchine alla Casa delle Letterature (Piazza dell'Orologio), nel cortile-giardino, con Marino Sinibaldi di Fahrenheit. Poi al mare, in Puglia.
L'idea era quella di postare un mio vecchio racconto dal titolo "Calendario". Dice un mio spaesamento sempre attuale. Non avendolo più nel computer né trovandosi in Internet, mi tocca riscriverlo. Rimando alla prossima volta, magari domani. C'è caldo, moderare i gesti (l'8 però alla manifestazione ci vado). Valgano queste righe come "funzione fàtica" (direbbero i linguisti), ovvero a garantire il "contatto" ("Pronto? Ci sei?").
La cosa più importante: oggi è il compleanno di mio figlio, in questo momento alla prova di se stesso in un kibbutz nel deserto. Auguri, Pierre!, con un abbraccio.
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