3/03/2008

Incontro (2003) con Marjane Satrapi - ed elogio dei fumetti

L'altro giorno ho passato una giornata con Nick Bertozzi e Marco Petrella, entrambi fumettari (anzi, cartoonists). Di Petrella e dei suoi Racconti per ascensore ho già parlato, di Nick invece no. E' l'autore, fra l'altro, di The Salon, tradotto in italiano col titolo Chi vuole uccidere Picasso, un'avvincente storia "poliziesca" nella Parigi del 1907, col fantasma di Gauguin che incombe sul gruppo di artisti sballati (Satie, Apollinaire, Picasso e Braque che intanto inventano il cubismo), nel salotto di Gertrude Stein. E' stato divertente e istruttivo chiacchierare insieme per il pubblico del festival Minimondi (a Parma), e mi è rimasta impressa la sua entusiastica apologia del fumetto: "la maggiore, la più bella, la più tutto... forma di espressione che ci sia". Allora mi sono ricordato che già un'altra volta mi sono trovato benissimo in compagnia di un autore, anzi un'autrice, di fumetti.
Ai primi di settembre del 2003, al festival di Mantova dove eravamo entrambi ospiti, feci infatti la conoscenza di Marjane Satrapi, di cui era appena uscito il suo primo libro (Persepolis) in italiano. Scattò subito un'amicizia complice - complici soprattutto due o tre sbronze che ci siamo prese insieme ai tavoli dei ristoranti dove a Mantova si passano i momenti più belli di quel festival della letteratura in cui c'è sempre il cielo azzurro, come nei quadri di Mantegna. Lei era ed è, nella sua allegria e energia, una forza della natura. Comunque il 5 settembre feci uscire su l'Unità questo pezzo su di lei, frutto di una parte minima delle nostre chiacchierate. Ora che Marjane Satrapi è conosciuta anche per la versione cinematografica del suo principale fumetto, mi sembra giusto riproporla.
"Nella babele del Festival, o nei discorsi in genere sulla letteratura e il narrare, è raro imbattersi in storie come Persepolis, autobiografia a fumetti della bellissima trentaquattrenne iraniana (residente a Parigi) Marjane Satrapi. Quello che ognuno di noi si sforza di dire sul dovere della memoria e della testimonianza, sulla felicità del narrare e il suo potere salvifico, sull’infanzia durevole del linguaggio, lei lo esemplifica in un miracolo di forma, dove ciò che si dice e il modo in cui è detto coincidono con grazia naturale. Storia di un’infanzia - questo il sottotitolo del libro di cui Sperling & Kupfer pubblica la traduzione del primo tomo (la storia di Marjane Satrapi arriva in realtà fino a oggi) – fonde romanzo di formazione e documentario sulla storia politica di un Paese, la tragedia dell’Iran vista attraverso gli occhi di una bambina. Ho sempre sospettato che il genere del documentario offra le forme più libere e liriche di narrazione, e non credo all’oggettività delle storie.
Marjane Satrapi (il nome si pronuncia con la g dolce) va oltre: la soggettività è per lei un valore assoluto, espressione di una sincerità trascinante.
«Vengo da una cultura priva di fumetti, che ho cominciato a leggere a Parigi, nel ’96, dopo gli studi artistici a Strasburgo e a Teheran. Mi sembrava folle e ossessivo lo sforzo enorme dietro alle tavole di fumetti, il dispendio di energia. Il passo l’ho fatto quando mi sono accorta di avere una storia da raccontare. Nessuno in Europa conosceva la verità sull’Iran, e ho voluto narrarla pur non essendo una storica né una politica. L’oggettività non esiste, siamo noi a dare forma agli eventi. Ho assunto la mia soggettività raccontando l’Iran attraverso la mia storia personale e famigliare.
Avevo nove anni quando iniziò la rivoluzione. La coscienza politica, del resto, passa attraverso le stesse fasi della crescita personale: all’inizio è come l’infanzia, quando un evento, anche politico, accade, e lo si accetta per vedere che cos’è e come andrà a finire; poi c’è la fase della reazione, come l’acne adolescenziale, irritazione e ribellione; segue uno stato di calma in cui si cerca di fare una specie di “psicanalisi della famiglia”, della propria storia allargata all’ambiente; finché si arriva a una comprensione piu ampia. Ho usato lo stesso metodo, scoprendo un parallelismo tra la mia storia personale e quella del mio Paese. Era importante anche raccontare la storia della moltitudine di sinistra, gli oppositori dello Scià massacrati senza lasciare tracce, e a cui venne perfino rimproverato di avere avviato quella rivoluzione che anelava alla democrazia e degenerò in una teocrazia che tolse anche le libertà primarie. Anche la mia famiglia era piuttosto di sinistra…».
La soggettività rende le storie universali. Commuove in Marjane Satrapi la libertà, fatta di forza e insieme tenerezza, che alterna la gravità scabrosa degli eventi allo humour beatificante delle piccole cose della vita; che osserva la Storia con gli occhi di chi per età, poi per scelta e destino, gioca con le storie; di chi ad esempio vorrebbe giocare a Monopoli coi genitori estenuati dalle lunghe e pericolose manifestazioni, di chi si vanta colle proprie compagne di scuola di avere parenti più torturati di altri, ovvero più eroici. Il racconto della Satrapi è infine universale perché la sua storia è intercambiabile a quella di altre tragedie, l’identificazione è possibile con altre testimonianze di fascismi. Perché testimonia il sopraggiungere del totalitarismo e l’inesorabilità della sua ascesa, il cui schema si ripete sempre, dice Marjane. Perfino nei democratici Stati Uniti, dove è tradotta (e paragonata ad Art Spiegelman), ma dove ha ritrovato con sgomento il lessico del fondamentalismo (il Bene contro il Male). Mi racconta il suo amore per il cinema italiano, in particolare quello di Pasolini, di cui ha rivisto più volte con trepidazione l’ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma: «l’unico, dice, capace di mostrare lo splendore nero e disgustoso del vero fascismo ». «La sofferenza riguarda sempre e soltanto la gente normale, eppure la storiografia racconta solo i nomi dei dirigenti, non di chi fa davvero la storia. In Francia hanno scritto della mia presunta passione per la politica. È falso, non ne ho nessuna passione, è la politica a distruggere le vite, esiliarle, estirparle, è stata la politica a interessarsi a me e cambiare la mia vita, quindi ho dovuto raccontarla. Quanto al mio humour, dico questo: ci si lamenta, anche politicamente, quando si è sempre entro i limiti del sopportabile. Ma quando si esce da quei limiti, quando si vive l’insopportabile, allora o ci si uccide o si ride…»."

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