2/14/2013

"L'inferno sta salendo a voi"




“L’inferno sta salendo da voi…”
(Un’intervista a Furio Colombo sulla sua ultima intervista a Pier Paolo Pasolini, trent’anni dopo - l’Unità, 1 novembre 2005 - e che rileggo e pubblico qui sette anni dopo che avergliela fatta)


   Nell’emozionante collage di testi di Pier Paolo Pasolini portato in scena da Fabrizio Gifuni (‘Na specie de cadavere lunghissimo, con la regia di Giuseppe Bertolucci), alcune delle frasi cruciali provengono dall’ultima intervista rilasciata dal poeta a Furio Colombo l’1 novembre 1975, ovvero l’ultimo giorno di vita di Pasolini. E’ un’intervista dura e intensa, con frasi che suonano inevitabilmente testamentarie. Non è l’unica ragione per cui ho proposto a Furio Colombo di commentare l’unanime, forse troppo unanime commemorazione di Pier Paolo Pasolini a trent’anni dal suo assassinio. Furio Colombo ha rappresentato in questi anni una evidente “scomodità”, condivisa del resto col giornale da lui diretto fino a qualche mese fa (un giornale di Cassandre, come ha detto qualcuno).
   Parliamo della plurinvocata “mancanza” di Pasolini oggi, che dovrebbe presupporre una diagnosi severa sulla distorsione della nostra democrazia. Perché così tanti, anche quelli pienamente organici alla “società dei consumi” (che Pasolini chiamava barbarie), e alla sua espressione ultima (il berlusconismo, diciamo pure) scrivono che “manca” Pasolini? Cosa c’è dietro questo coro?
   “Se dovessi rispondere con una scena, ne illuminerei tre. La prima scena è questa: l’assenza o mancanza di Pasolini è quella illustrata da Nanni Moretti quando, allegro, giovane e disincantato, faceva dire al suo personaggio: “mi si noterà di più se vado o se non vado?” Ovvero, mi si noterà di più se sono presente o se sono assente? Egli notava cioè come la realtà si stesse trasformando in puro atto di presenza. In questa scena si invoca quindi la mancanza di una figura che ha occupato un ruolo di grande rilievo nella storia del Paese, così come l’assenza di qualcuno a un party. La sua assenza viene “notata”, ma il vuoto o la mancanza avvertita dai commentatori è superficiale e mondana, è un’assenza sociale. Sulla seconda scena di questa”mancanza”, come dici tu invocata, compare invece l‘intellettuale importante, l’autore di successo, con la sua valigia di valori originali, con quelle caratteristiche immortalate da Giorgio Gaber: non è di destra e non è di sinistra. Qualcuno che crede in un mondo fondato da lui stesso, da cui può uscire e andarsene in vacanza. Se sulla prima scena c’era un’assenza sociale, qui si tratta di un’assenza culturale. Ma Pasolini non si concedeva mai vacanze, e anzi aveva una tendenza e una concezione dell’impegno che oggi, molti, definirebbero ossessiva. La terza scena è occupata da coloro che pensano che farsi notare sia dire sempre la cosa inaspettata, che stupisce. Se sei di sinistra, dire una cosa di destra (il caso contrario è molto raro, d’altronde quelli di destra non hanno molte cose da dire). Per gli altri si tratta di parole che meritano attenzione, e su cui riflettere. Così si sente la “mancanza” per contrasto. Ma Pasolini diceva sì l’inaspettato, ma lo faceva pagando un prezzo molto alto. Un prezzo che lo allontanava un po’ di più da tutti e non lo avvicinava a nessuno. Qui invece si tratta di osservare un rigoroso sistema della moda: ‘io voglio essere quello che dice sempre cose interessanti, anche (o meglio) contro la sua parte’. Ecco come interpreterei la “mancanza” di Pasolini: un triplo vuoto, nel quale si sente all’improvviso e quasi come un capogiro la mancanza del fortissimo senso di responsabilità che Pasolini si portava addosso. Lui che era e viveva fuori dalle strutture della società organizzata e dell’establishment per bene, parlava come se avesse la responsabilità di governare, invece di andare in televisione come se avesse tempo libero da buttare.”
   Anche se molti lo accusavano di nostalgia, la denuncia di Pasolini della “trasformazione (degradazione) antropologica della ‘gente’” era frutto di un’attenzione acuta allo stemperarsi delle differenze, al livellamento di idee e comportamenti, cosa molto attuale. Cosa ne pensi?
   “Nel denunciare lo stemperarsi delle differenze Pasolini era molto più profetico di quanto si credesse e si dicesse, ben oltre quel senso di nostalgia che gli si attribuiva incorniciandolo in una definizione dell’antiquato, di una società arcaica, del paesaggio coi mulini o delle lucciole, ecc. Quella rappresentazione della nostalgia pasoliniana conteneva un’intuizione profetica che sfuggiva anche ai più intelligenti, mai capita a suo tempo nemmeno da noi che eravamo nel Gruppo ’63, che pure lo ritenevamo un maestro anche se lo discutevamo polemicamente in nome di un maggior dinamismo. Ovvero l’aver capito che lo sfaldamento delle intelligenze stava portando non a delle successive trasformazioni e promozioni sociali, ma a quello che è successo: il contadino che non è più niente, l’operaio che non è più niente, il quadro di fabbrica che non è più niente, il dirigente d’azienda che non è più niente, un annullamento generale dove resta soltanto un’unica, barbara e drammatica modalità di identificazione sociale: il povero e il ricco, chi è sopra e chi è sotto. Con in mezzo i cortigiani (quelli che stanno nelle tv), gli avventurieri (per esempio gli immobiliaristi) e tutti gli altri, sottomessi e spaventati, nel lavoro precario. E non trovi più nulla per distinguere una persona da un’altra perché nessuno è nessuno, salvo i ricchissimi. Pasolini ha rimpianto le lucciole prima che le differenze tra l’uomo più ricco e l’uomo più povero nello stesso Paese (stiamo parlando del mondo industriale avanzato) si moltiplicasse all’improvviso per mille volte. Vorrei inserire qui, se me lo permetti, un ricordo personale del tempo in cui, molto giovane, ho lavorato con Adriano Olivetti. Poiché lo assistevo per la questione del personale, nel periodo in cui stavo a Ivrea lui mi chiedeva di raccomandare ai contadini diventati operai di non vendere la loro terra; se necessario era disponibile a fare loro dei prestiti, affinché il contadino diventato operaio restasse anche contadino. In questo caso, nei momenti difficili avrebbe avuto altre risorse. Quando stavo in America e avevo la responsabilità del personale americano di quell’azienda, ricordo questo ammonimento: il più alto in grado di noi non deve guadagnare più di dieci volte dell’ultimo entrato nella fabbrica, altrimenti si perde ogni legame umano. Ecco, se Pasolini era un nostalgico, lo era di questo mondo”.
   Vorrei ragionare con te sul senso di “letteratura civile”, fatta di attenzione alla memoria, di un farsi “parte civile”, cioè testimoniare affinché certi crimini non cadano mai in prescrizione. La “mancanza” di Pasolini è spesso alibi per non riconoscere l’esistenza di altri scrittori civili, altri testimoni oggi attivi…
   “Sì, ma non vorrei che ci avventurassimo in classifiche sulla presenza degli scrittori civili, cosa che apparterrebbe all’effimero televisivo. Nel cinismo e opportunismo che attraversano il presente, incoraggiati dalle convenienze, succedono ancora cose esemplari. Per esempio dare il premio Nobel a Dario Fo, oppure darlo a Harold Pinter. Vuol dire – ed è un’anomalia grandissima e benefica – non solo che esistono i Dario Fo e gli Harold Pinter, ma che c’è chi, lontanissimo dai loro luoghi, se ne accorge e vuole prenderne atto. Pinter è l’unico scrittore di teatro che si sia accorto dei desaparecidos, dei crimini spaventosi del fascismo argentino e cileno, che non vengono messi in alcun conto, né hanno accreditato alcun “libro nero”. Gente che veniva gettata viva da aerei in volo affinché tacessero per sempre, opposizioni che venivano stroncate uccidendo giovani madri e dando i loro bambini in regalo a gerarchi del tempo. Ecco, il fatto che ci siano stati scrittori che di cose del genere si sono fatti testimoni, ci rassicura. Le voci civili non sono mai una folla, ma ci sono sempre. Il fatto che in momenti successivi e non lontani alcuni professori se ne accorgano, le riconoscano e le premiano, ci dice che su questa strada disselciata la civiltà va avanti, e nonostante il cinismo e l’opportunismo, gli indici di gradimento e la forza della pubblicità, cose che contano e che lasciano il segno accadono ancora. Nel nostro stretto panorama Italia, c’è chi ha pagato e continua  a pagare prezzi alti per non rinunciare a rendere testimonianza, benché continui a essere sconveniente e rischioso come nel tempo e nel destino di Pasolini”.
   Analizzando la situazione politica italiana, poi parlando di sé, nella tua intervista disse Pasolini: “Perché dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità? Voglio dirvelo fuori dai denti: io scendo all’inferno e vedo cose che – per ora – non disturbano la vostra pace. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi…” Al che gli chiedesti che cosa sarebbe stato ancora possibile fare per difendersi dall’inferno. Pasolini disse che ci avrebbe riflettuto, e ti promise una risposta per il giorno dopo. Quella notte morì.
   “Io non credo che Pasolini avrebbe risposto con una formula di salvezza. Se c’era una cosa in cui un uomo come lui non avrebbe creduto, se c’era una predicazione da cui si sarebbe astenuto, scartato, se c’era una formula rituale di cui avrebbe avuto orrore, sarebbe stata certamente quella di una formula di salvezza.  Ma questo non significa affatto che Pasolini sarebbe stato un intellettuale del pessimismo e della condanna. Al contrario la sua poesia, la sua scrittura, e anche in parte il suo cinema, erano una predicazione con un alto contenuto non solo di rappresentazione delle cose così come sono, non solo del mettere in guardia, ma anche del dire con fermezza almeno una cosa: ‘questo è il pericolo, ma non è necessario che esso si realizzi in tutta la sua forza, e che noi si assista e si subisca inutili e impotenti’. Abbiamo parlato di molte cose in cui Pasolini credeva. Ecco una cosa in cui non credeva: mettersi sottovento, accettare le cose così come stanno, e poi sperare che l’uno o l’altro di noi in qualche modo se la cavi. Lui immaginava un destino, un’epoca, e un modo in cui quell’epoca può divenire barbara o può invece essere un’altra cosa. La martellante denuncia che nei frammenti di Petrolio diventa molto più esplicita e non più solo indiziaria come negli Scritti corsari, ci dice di un progetto o almeno di un chiaro oggetto verso il quale avremmo dovuto tentare di dirigerci. Qualcosa che ha a che fare con la dignità, con l’integrità e con la capacità di non perdere un doppio prezioso contatto - che lui ci indica continuamente - con noi stessi e con la Storia, con ciò che siamo e che possiamo essere, e con tutti gli altri. Strano caso di artista quello di Pasolini, che non parla mai di una persona sola o di un destino solo, ma parla di tutti. Che non immagina niente per se stesso, ma immagina per una generazione, e poi per un’altra, e un’altra ancora. Ecco, io non so che cosa mi avrebbe detto in quella risposta mancante, ma credo di sapere che quella risposta che manca si sarebbe ambientata in questo percorso, perché corrisponde a tutto il suo scrivere e a tutto il suo vivere”.
(uscita su l'Unità del 1° novembre 2005, prima pagina e pagina 22)

1/13/2013

Il plus-umano dell'animale. "Doglands" di Tim Willocks

(Tim Willocks con un greyhound)
   In un brano particolarmente intenso di Che cos’è la filosofia?, a proposito della vergogna e della sofferenza dell’uomo (non solo nelle situazioni estreme descritte da Primo Levi ma anche nelle condizioni di insignificanti bassezza e volgarità che pervadono le nostre “democrazie di mercato”), Deleuze-Guattari scrivevano: “per sfuggire all’ignobile, non resta che fare come gli animali (ringhiare, scavare, sogghignare, contorcersi): il pensiero stesso è talvolta più vicino all’animale che muore che non all’uomo vivo, anche se democratico”. Questo brano (che di sicuro ammicca alle contorsioni linguistiche della prosa narrativa di Franz Kafka, dove gli animali abbondano), mi è venuto in mente leggendo un piccolo recente capolavoro narrativo interamente dedicato alla sofferenza animale, più precisamente quella dei cani: Doglands, dell’inglese Tim Willocks, prolifico autore di thriller e romanzi storici, o forse in realtà soprattutto di western, intendendo con questa parola l’epica contemporanea per eccellenza, nonché il più esistenziale tra i generi di romanzo. Anche Doglands (letteralmente “Terre dei cani”) è un western, storia appassionante di ribellione e di liberazione che è già un classico. E non parla solo di cani, in effetti, ma della triviale civiltà e del crudele stile di vita di noi umani, visti attraverso la soggettiva dello sguardo (e del linguaggio narrativo) di un cane.
   Non è vero allora, ho pensato, che dell’animalità negli ultimi anni si siano occupati soltanto i filosofi. Oltre a Gilles Deleuze ci sono stati, è vero, gli studi di Giorgio Agamben sulla “vita nuda”, che proseguivano le ricerche bio-politiche di Michel Foucault, poi esplicitamente dedicate a una fenomenologia dell’animalità (soprattutto in L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri). Mentre la filosofa francese Elizabeth de Fontenay (curatrice tra l’altro dei “Trattati sugli animali” di Plutarco), osservava come nel ‘900 autori ebrei e perseguitati - Kafka, Singer, Canetti, Adorno - iscrivendo con insistenza l’animale nelle loro opere in funzione di denuncia di quell’umanesimo razionalista da cui discende il nazismo stesso, “hanno presentito negli animali altre vittime, paragonabili fino a un certo punto a se stessi e ai loro prossimi. Hanno fatto spazio, nella loro scrittura, a quell’altro disastro che costituisce il paradosso della modernità, e che consiste nella dismisura del dominio esercitato dall’uomo sulla natura, su tutto ciò che è”. Nulla illustra meglio la spietatezza di questo dominio economico della descrizione degli allevamenti di carne nelle straordinarie poesie di Ivano Ferrari, Macello (Einaudi, serie bianca), e nell’inchiesta narrativa dello scrittore Jonathan Safran Foer Se niente importa. Perché mangiamo gli animali (la prefazione era del nobel J. M. Coetzee, autore di una raccolta di testi dal titolo La vita degli animali).
   Ricordo poi un insolito libro di racconti di Arthur Bradford (Dogwalker, Einaudi) in cui, accanto a ciechi, bambini poveri e caratteriali, vecchi, alcoolizzati e handicappati, appaiono cani a tre zampe, gatti, molluschi, e tantissimi cani, le cui storie si intrecciano con gli umani (era dai romanzi di Philip K. Dick che non apparivano personaggi così, o appunto dai racconti di Kafka). E mentre scopriamo che la letteratura, non solo quella “per l’infanzia”, si popola di animali, ci accorgiamo che nella nostra epoca la sofferenza animale getta di riflesso molte ombre sui tanto proclamati diritti dell’uomo. Ma scopriamo anche che, nonostante la cesura, matrice di ogni ulteriore discriminazione, che segna il confine nel vivente tra “l’umano” e “l’animale”, la vita quando è nuda e offesa non presenta molte dissomiglianze, e l’inermità dell’animale lo rende paradossalmente più umano dell’uomo, forse plus-umano, se non troppo umano. Un po’ come l’affamato, scriveva Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia, che è più uomo degli altri uomini.
   Il magistrale romanzo Doglands è l’ultimo in ordine di tempo: storia di fughe, lotte, ribellioni, sacrifici e agnizioni, dove i personaggi sono esclusivamente cani in conflitto con umani malvagi, cani che combattono per la propria salvezza. L’eroe è Furgul, cucciolo all’inizio della storia, nato a Dedbone’s Hole, allevamento o campo di prigionia per levrieri (greyhounds) destinati alle corse. La mamma, una campionessa, ha amato un cane libero, un “fuorilegge”, da cui è nato Furgul, non quindi di pura razza; e senza questo requisito lì i cani vengono uccisi e gettati in fosse comuni. E’ così che, aiutati dalla madre, Furgul e le sue sorelline scappano avventurosamente dal campo. La storia è il romanzo di formazione di un cane in un mondo ostile, alla ricerca delle mitiche doglands dove “si corre con il vento”, ma soprattutto alla ricerca del padre, di se stesso, di un senso. Nel suo apprendistato alla vita, Furgul sfoglia come una cipolla la nostra civiltà coi suoi puri occhi di cane che ci incantano. In un canile municipale, nelle gabbie, incontra il padre, che prima di lasciarsi uccidere con gli aghi (il suo sacrificio provocherà una risolutiva insurrezione civile di tutti gli altri cani), dà al figlio gli ultimi insegnamenti sui “Grandi”, cioè gli uomini: “Quello che devi capire è che non si tratta solo di noi cani. I Grandi sfruttano tutti gli animali. Tutti noi abbiamo qualcosa che interessa loro. Sfruttano ogni risorsa della natura, e credono che la Terra sia stata creata solo per loro. Prendono e usano tutto ciò che vogliono, e quando si consuma o si annoiano a usarlo si limitano a buttarlo via. Tra tutte le forme di vita, i Grandi sono quella più avida, più spietata, più egoiosta, più traditrice. E la verità più terribile è che si trattano gli uni con gli altri con crudeltà, disonestà e stupidità ancora maggiori di quelle che riservano a noi cani. Ci rendono innocui con museruole, collari e catene, sì, ma le catene che gli uomini legano gli uni agli altri - e a se stessi - sono più resistenti delle sbarre di queste prigioni”.
   Confesso di essermi commosso più volte leggendo d’un fiato questo libro, e di avere riso altrettante volte per lo humour con cui il nostro mondo viene osservato e messo a nudo nelle sue catene dallo sguardo del cane che diventa se stesso, e dall’ironia della scrittura di Tim Willocks che inventa un linguaggio e uno sguardo canini non esattamente facile da tradurre, ed efficacissimi nella rappresentazione dell’inautenticità sociale degli umani. (Che io sappia, a parte certo racconti di Tolstoj, c’era riuscito solo Stephen King in un breve capitolo di Il gioco di Gerald, dove si mostra la soggettiva di un famelico cane randagio). In Francia Doglands ha appena vinto il primo premio per il miglior romanzo europeo 2012 per gli adolescenti, pur essendo i cani di Tim Willocks immuni da qualsiasi pedagogismo e agli antipodi dell’antropomorfismo più o meno disneyano, e preservando intatta la loro alterità animale.
   Inno alla libertà, in Doglands i cani intonano dei canti che raccontano la loro mitologia e la loro mistica: “se corri nel vento da vivo, dopo la morte, come ci dice la canzone, ti unirai al vento. Diventerai il vento…” “Un cane libero non muore mai”, dicono, “continua a correre”. Mi è capitato di immaginarli nella loro favolosa e pacifica terra ascoltando la voce nasale di Bob Dylan (amato, lo so, anche da Tim Willocks) cantare proprio upon the beach where hound dogs bay at ships with tattooed sails...”, “sulla spiaggia dove i segugi abbaiano verso navi con vele tatuate, dirette verso i cancelli dell’Eden”. La canzone, naturalmente, è Gates of Eden.


(articolo uscito su l'Unità di domenica 13 gennaio 2013)





12/27/2012

"Brucia tutto ciò che puoi" (per Ledo Ivo, tradotto da Carlo Bordini)

La persona della fotografia qui a fianco è Carlo Bordini, grande poeta e grande amico, ritratto mentre sta leggendo per me una anzi due poesie di un poeta brasiliano che altrimenti avrei continuato ad ignorare. Si chiama Ledo Ivo. Le due poesie le traduceva impromptu Carlo stesso, dopo averle a lungo assaporate, suppongo. Ero così toccato dalle poesie, ma anche dall'offerta di Carlo (eravamo a tavola nel mio ristorante preferito a Monteverdevecchio, era giugno ed ero da poco stato dimesso dalla riabilitazione in seguito a un'operazione di "chirurgia maggiore"), che l'ho fotografato. Carlo dal canto suo leggendole si era letteralmente, fisicamente commosso mentre le leggeva.

Mentre mi trovo in India, ricevo la notizia della morte del poeta Ledo Ivo, del quale così scrive Carlo in un e-mail agli amici: "è considerato uno dei massimi poeti contemporanei del Brasile. Di lui è stato pubblicato in italiano Requiem (un poemetto ed altre poesie) per l'editrice Besa, nella traduzione di Vera Lucia De Oliveira. Io l'ho conosciuto quest'anno a Lima, al primo festival di poesia di quella città. Era amato da tutti e circondato da un'aura di sacralità. Mi ha regalato un libro di poesie tradotte in spagnolo pubblicato da un editore cileno. Ne ho tradotte un paio che vi mando".

Ecco, non voglio farla lunga, anche se un ricordo tira l'altro (e questo senso di epifania del ricordo, l'idea che ogni istante è già storico, è una delle definizioni del senso di scrivere poesie). Ecco la folgorante, bellissima poesia Brucia, tradotta da Carlo Bordini: ricopiarla e offrirla qui, da dove mi trovo ora, mi fa un ulteriore effetto, come un irradiarsi e prolungarsi di altri sensi, perché non posso dimenticare quanto il bruciare sia qui così importante da riguardare il corpo stesso del poeta, le sue spoglie. Bruciare, sinonimo di "dire la verità". Ringrazio il forte raffreddore che mi ha costretto in una stanza (fortunatamente dotata di wifi) per avermi dato il modo e l'occasione di testimoniare questa poesia, questi poeti, questa verità che (si) brucia.


BRUCIA (poesia di Ledo Ivo, traduz. di Carlo Bordini)

Brucia tutto ciò che puoi:
le lettere d'amore
le bollette telefoniche
la lista dei vestiti sporchi
le scritture e certificati
le confidenze di colleghi risentiti
la confessione interrotta
il poema erotico che ratifica l'impotenza e annunzia l'arteriosclerosi
i ritagli antichi e le fotografie ingiallite.
Non lasciare agli eredi famelici
nessun ricordo di carta.

Sii come i lupi: vivi in una caverna
e mostra alla canaglia delle strade soltanto i denti affilati.
Vivi e muori chiuso come una chiocciola.
Dì sempre di no alla scoria elettronica.

Distruggi le poesie interrotte, i bozzetti, le varianti e i frammenti
che provocano l'orgasmo tardivo dei filologi e glossatori.
Non lasciare ai raccogliori della spazzatura letteraria nessuna briciola.
Non confidare a nessuno il tuo segreto.
La verità non può essere detta.

e questo è Ledo Ivo:

12/22/2012

Buone Feste, Season's Greetings, Nathar Puthu Varuda Valthukkal, Shub Naya Baras, Feliz Navidad etc.



Domani, massimo dopo domani mattina, l'impatto sarà con questi colori, più o meno. E' qui comunque che mi troverò, a Chennai (Madras). Camminare, riposarsi, scrivere, pregare. Ridere, guardare. 
                      

Dopodomani dovrei condividere questa pace, sulla spiaggia di Mamallapuram (Mahabalipuram) - pace che dedico a tutti con tantissimi auguri:

Buone Feste, Season's Greetings, Nathar Puthu Varuda Valthukkal, Shub Naya Baras, Feliz Navidad, Merry Keshmish, Mo'adim Lesimkha, Chena tova, Joyeux Noel et bonne année, Milad Majid, Vesele Vanoce, Kala Christouyenna! etc. etc.



12/21/2012

Il souvenir, Tartaglia, il caimano

Il souvenir: praticamente è un'anticipazione, poiché si tratta di frammenti di uno scritto in corso pubblicati sul Venerdì di Repubblica di oggi, 21 dicembre 2012, un bel numero della rivista dedicato alla "fine della fine del mondo". Dunque eccola.


"Quando il signor nessuno ferì il corpo del re"

   Ricordo il primo istante in cui vidi l’immagine: Berlusconi colla bocca insanguinata e lo sguardo truce, come un pugile ferito. Sembrava un fotomontaggio, la parodia di un film di zombi. Cliccai su un giornale on-line per trovare conferma, e rividi quel primo piano che era già un’icona pop, un evento estetico prima che politico e di cronaca. Abituati al flusso continuo di pose, studiate e intinte di cerone, il volto offeso e per questo inaudito dell’uomo più potente d’Italia, intriso di sofferenza e di odio, e soprattutto di sangue rosso e comune, ci colpiva più della più stramba installazione d’arte, più del meteorite di Maurizio Cattelan che schianta e mette in ginocchio papa Woytila, o del cavallo conficcato nel muro. Il volto di Berlusconi era per una volta nudo, un volto che soffre (s’offre), utopia di una comprensione (una conversione?) che non sarebbe ahimè mai avvenuta. Anzi, la paura che provai guardando quelle foto era per la violenza ulteriore che quel volto sembrava promettere, paura di scorgere nella smorfia della sofferenza un soffio algido di vendetta. (Più tardi mi fece paura il non riuscire a esprimere liberamente il flusso di pensieri e associazioni di idee che quella sequenza di immagini mi suscitava, paura della mia autocensura; come se la politica e soprattutto il pensiero, forieri di conflittualità, dovessero cessare in forza di quell’evento).
   Abbinata a quella del potente insanguinato cogli occhi stretti a fessura, anche dell’aggressore dilagò in tutto il mondo una foto che ne fissava i lineamenti bonari stravolti dallo spasmo per divincolarsi dalla folla, gli occhi atterriti - da sé, dal proprio atto, ma anche dall’altro, come se fosse al cospetto della Medusa. Alla fine di un comizio gremito, nonostante le guardie del corpo, un uomo assolutamente ordinario aveva gettato in faccia a Berlusconi un souvenir (!) del Duomo di Milano. Sotto il peso e la pressione dei corpi che lo sommersero, quando gli agenti lo portarono via salvandolo dalla piazza, l’uomo aveva ripetuto una frase indimenticabile: “Non sono niente, io non sono nessuno”.
   Lessi che era un ingegnere di 42 anni (in realtà aveva solo il diploma di perito elettronico), in cura da anni per problemi psichici, e che quindici anni prima aveva avuto un momento di relativa notorietà per aver brevettato dei “quadri musicali”: “Coniugando la passione per l’elettronica con il gusto per l’arte astratta, M. T. realizzò piccoli quadri che si illuminavano di luce colorata diversa ogni volta che nella stanza in cui erano appesi si ascoltava della musica”. Che l’aggressore avesse rapporti con l’arte astratta - quella che il fido ministro dei Beni culturali Bondi, come aveva ripetuto spesso, e a volte addirittura con candore, non capiva e disprezzava - era forse un’aggravante. Malgrado la sua arma improvvisata a me sembrava inerme, mi sembrava anzi la vittima assoluta.


   Tre anni dopo cammino a Milano nella piazza del Duomo, che non è solo il davanti sterminato invaso dai piccioni, quello di Totò e Peppino col colbacco nel famoso film, ma è anche il lato sinistro col severo Arcivescovado, il lato destro colle vetrine della Rinascente e degli stilisti, e si chiama Piazza del Duomo anche lo spazio sul retro, dove l’antica chiesa di S. Maria Annunziata in Camposanto fronteggia l’abside del Duomo. Mi siedo qui, in un caffè fighetto ma riscaldato, vicino al negozio di articoli sportivi e magliette delle squadre di calcio, Milan compreso, tra il negozio Intimissimo e la libreria San Paolo, dove sotto l’insegna FOOTBALL TEAM Silvio Berlusconi la sera del 13 dicembre 2009 stava in piedi con la faccia ferita tra le auto della scorta a scrutare nel buio. In questa parte di piazza arrivano nuvole di suoni ovattati che ricordano il brusio delle spiagge d’estate: è la folla solitaria dell’ininterrotto shopping nella luce livida di un sabato d’inverno, dispersa in mille rivoli di solitudini ma omogenea nei consumi; e penso alla folla adorante che si radunò quella sera di dicembre ad ascoltare Berlusconi alla festa del Popolo della libertà. Fu un comizio intenso e aggressivo, inaspettatamente contestato da un gruppetto di giovani: anche nella folla più uguale possono esserci variabili “impazzite”. Quando il presidente scese dal palco sul retro, dove si formò il capannello di intimi e audaci, nel brulichio di braccia e di corpi spuntò per caso Massimo Tartaglia, che si trovò di fronte al Presidente. Il modellino del Duomo l’aveva comprato lungo la strada…
   Sappiamo come è andata: Massimo Tartaglia è colui che ha lanciato contro il re un giocattolo, come un bambino contro il padre o la madre. A questo si riducono la protesta politica e la critica? Il fatto che, come qualcuno scrisse, “siamo tutti Massimo Tartaglia”, penso che non significasse propensione alla violenza, ma la messa al bando della politica. Si è infantili oppure malati, e ai bambini si danno le sculacciate, ai matti le pasticche: così, da anni, viene gestito il conflitto, o quel poco che emerge, mentre la politica abdica a se stessa e alla conflittualità. Ma ogni tanto trovo su Internet questa domanda carica di dietrologie: “che fine ha fatto Massimo Tartaglia?” Nessuna fine, ma una quotidianità umile e ordinaria, fatta di rinunce, libertà vigilata, degenza e cura in una comunità terapeutica, dichiarazione di “pericolosità sociale”, obbligo di residenza in un comune dell’hinterland milanese (i “domiciliari”), frequentazione obbligatoria di un centro diurno psichiatrico. Nel frattempo (Galeotto fu Tartaglia), a causa del suo gesto Berlusconi ha incontrato alla clinica San Raffaele, dove si curava la bocca l’igienista dentale Nicole Minetti, che ha intrapreso da allora una certa carriera politica e dalla quale consegue parte delle vicende che hanno portato allo scandalo della prostituzione minorile, alla rivelazione del bunga-bunga e al processo per concussione del presidente, forse addirittura alle sue dimissioni. E al suo conseguente recentissimo revenir, come in francese si dice dei fantasmi: revenant, colui che ritorna (mi piacerebbe molto intervistarlo su questo).
   In effetti non sono andato a Milano soltanto sul luogo raffreddato del delitto, ma per far visita a Massimo Tartaglia a Cesano Boscone, paese per certi versi struggente alla periferia di Milano, dove lui vive. La sua storia mi ha distratto, per empatia, dalla stesura finale di un romanzo horror, dandomi il desiderio di raccontarla. (Poi ho pensato che in fondo non sono opere dissimili – entrambe, l’horror soprattutto, descrivono l’iperrealtà del nostro presente).
   Assolto il 29 giugno 2010 perché giudicato non imputabile, Massimo Tartaglia sta ora molto meglio, e dice di sé: “nella malinconia e nelle mie restrizioni, io sto bene”. La sua condizione di libertà vigilata e di “pericolosità sociale” mi avevano impedito di incontrarlo. Ci siamo scambiati lettere sui suoi quadri (“stile Pollock”, come dice lui), sulla mostre che visitavo io e quelle che visitava lui col centro diurno (“Renoir a Pavia, poi pranzo in un agriturismo”), sulla speranza di abbassare il dosaggio dei suoi farmaci, sui laboratori che frequenta, dalla lavorazione della creta alla psicoterapia di gruppo. L’ultima udienza ha sancito che il sabato e la domenica è libero di girare nel comune di Milano e in quello di Cesano Boscone (tutto il resto della provincia, e del mondo, escluso).
   Eccomi con Massimo Tartaglia in via Dante, nell’unica strada pedonale e lastricata di porfido del minuscolo centro storico di Cesano, silenziosa come una domenica svizzera, in un bar che offre una varietà di caffè con la cioccolata che beviamo parlando di fronte a due vetrine, quella dell’estetista “Le vie del benessere”, col manifesto che reclamizza “L’alba della bellezza”; e quella del negozio di abiti e confezioni con dei cappotti grigi appesi. C’è un sole pallido da qualche parte, come la voce pacata di Massimo, sfibrato dai farmaci, che parla con parsimonia, nessuna parola inutile. Non ha mai fatto politica. Ma nel periodo precedente al suo gesto “sentiva di vivere come un film nella realtà, un film della realtà”: serate passate a indignarsi davanti ai talk-show politici in tv. Riteneva come tanti che il responsabile della spettacolarizzazione della politica fosse lui, Berlusconi, un leader immorale che faceva cose indegne del suo ruolo istituzionale e internazionale, come certe battute contro le donne, le offese agli Italiani quando diede dei ‘coglioni’ a chi non lo votava. Era come se il successo, la ricchezza, l’arroganza e il disprezzo delle regole che Berlusconi ostentava, lo avessero sfregiato, perché Massimo Tartaglia è, all’opposto, un onesto e talentuoso perdente la cui vita è costellata di insuccessi, dal voto minimo alla maturità (per problemi di salute), al non trovare lavoro.
   Verso i trent’anni costituì con un amico una società di assemblaggio elettronico che si occupava anche di riparazioni di macchine timbra biglietti, nastri inchiostrati, schede elettroniche, con la supervisione del padre. Nel 2005 registrò il brevetto italiano di invenzione industriale coi suoi “quadri musicali”, esteso nel 2006 all’Europa: “il peggiore investimento della mia vita”, dice. Oggi quei brevetti sono scaduti, ma considera i suoi quadri musicali “una pacchianata superata dalla tecnologia: non so nemmeno come ho fatto a crederci tanto allora, forse per via del riconoscimento avuto dall’Obiettivo ICT (del Politecnico di Milano), che mi selezionò dandomi l’input per proseguire, ma senza investitori è stato tutto fumo e niente arrosto”.
   In dicembre 2009 aveva abbandonato la “presa della Pastiglia”, scherza Tartaglia, era quindi scoperto e ipersensibile. Quel giorno era nuvoloso, e lui depresso e nervoso, la ragazza conosciuta da poco gli aveva dato buca, era andata in montagna con un altro. Seppe dalla tv dell’adunata per il tesseramento del Popolo della Libertà, e quasi senza accorgersene si incamminò verso il centro. C’era una musica a volume altissimo che intontiva, come nelle vendite multilevel che aveva conosciuto frequentando corsi e incontri di tecniche di vendita, le stesse adottate nei comizi. Ma si stufò presto di ascoltare, stava per andarsene alla metro facendo il giro del Duomo quando lo richiamarono le urla dei contestatori. Tornò passando dietro al palco, di fianco all’abside del Duomo. “Non l’avessi mai fatto: c’era la macchina del Presidente già disposta per andarsene, e Berlusconi giù dal palco a farsi un bagno di folla, dare la mano alla gente, proprio verso di me; e io, lì in mezzo alla folla, la musica che inneggiava al Popolo della Libertà portata all’apice, io mi sono suicidato…”
   Tartaglia scrisse in seguito una lettera di scuse a Berlusconi, dicendo tra l’altro di avere compiuto quel gesto come atto simbolico nei confronti di una persona che avrebbe potuto essere suo padre. “Una sorta di suicidio rivolto alla causa presunta dei miei problemi”.
   Sulla main street di Cesano Boscone, che sfocia sulla Vigevanese, una strada trafficata e rumorosa coi marciapiedi larghi, supermercati con parcheggio e grandi pizzerie, Massimo mi confida il suo sogno di fare volontariato al Centro Recupero Animali Selvatici del WWF: “dare un aiuto ai più deboli, a chi è in difficoltà, per esempio aiutare a restare nella natura un rapace sparato a cui abbiano rotto una zampa”. Il problema è che è ancora in libertà vigilata, e il servizio sarebbe in un bosco fuori dal suo comune di residenza. Mi parla di un’aquila reale a cui un cacciatore aveva sparato alle ali, che “invece di essere stata soppressa è nella gabbia didattica, come un pollo, senza un’ala, anche se le zampe e gli artigli sono ancora robusti”.
   Nel nuovo parco Pertini, una grande distesa d’erba cinta da alberi che mi ricorda il parco di Blow up, mentre i bambini giocano sui prati Massimo continua a raccontarmi: “Subito dopo il mio gesto, i nostri sguardi si sono incrociati una volta, quello di Berlusconi era molto minaccioso…” “…In Questura ho ripetuto che non ero nessuno, poi sono scoppiato a piangere”... 

Venerdì di Repubblica, 21-12-2012, Beppe Sebaste (frammento di un romanzo in corso)

11/06/2012

Le infinite cornici del mondo

   “La fotografia, al di là di tutte le spiegazioni critiche e intellettuali, al di là di tutti gli aspetti negativi che pure possiede, penso che sia un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi” (Luigi Ghirri). “Ogni mia opera, per estensione, è una fotografia: implica un’ottica fotografica, anche quando non lo è materialmente (nel senso che fotografa un gesto, una distanza o perfino un’assenza), tende cioè ad illustrare il momento di eternità dell’immagine. Fotografia e disegno sembrano insomma condividere l’attitudine - che vorrei chiamare vocazione - a far trasparire: la trasparenza non ha fine, tende all’infinito, non fa ‘immagine’ ma  fa ‘immaginare’, vedere sempre al di là del limite contingente” (Giulio Paolini).
   Luigi Ghirri, fotografo reggiano che l’anno prossimo avrebbe settant’anni (ma è morto nel 1992), e Giulio Paolini, artista quasi coetaneo, genovese trapiantato a Torino, non ebbero mai l’occasione di conoscersi, e ora per la prima volta si incontrano, e felicemente, in una mostra a Milano, La soglia dell’invisibile”, nell’appena inaugurata galleria Repetto Projects, via Senato 24 (fino al 17 novembre).
   Le citazioni riportate sopra, suggerite del curatore Daniele De Lonti (già assistente di Luigi Ghirri), guidano il visitatore: 12 fotografie di Ghirri tratte dal ciclo Kodachrome (1978), suo primo libro (di cui si annuncia una nuova edizione), si combinano sapientemente, rivelando allusioni “casuali” e illuminanti, con 12 collages di Paolini, sia recenti che degli anni ’70. Il non ultimo senso di questo incontro, per noi ammirati spettatori, è anche nel ricordare e affermare, oggi, la comune origine concettuale, d’avanguardia, dei due artisti. In un’epoca di eclissi del pensiero, dove tutto è possibile a patto che sia superficiale e senza impegno, sul modello di fluidità narrativa della fiction, la loro rigorosa riflessione linguistica sull’immagine è più che salutare: necessaria. La loro pensosità - più nota ed evidente in Paolini, occultata dal successo e dal retorico cliché che ha fatto di Ghirri un fotografo del “paesaggio” – denuncia in modi non dissimili l’omologazione del visibile e quella del territorio (nessuno è più capace di vedere niente del mondo esterno, diceva Ghirri alla fine degli anni ’80).  
  La mostra è un dialogo tra due artisti che non esitano a interrogare e trasformare di continuo sia i propri tradizionali strumenti di lavoro che la storia dell’arte, la storia delle immagini del mondo, travalicando i confini di fotografia e pittura. Due maestri del vedere, nel senso stretto e autentico della parola, due maestri del dire e immaginare mondi, d rendere cioè infinito il mondo nella finitezza dell’immagine. Entrambi amici di scrittori (di Paolini ricordo il bellissimo libro einaudiano anni ’70, Idem, col testo di Italo Calvino, e il recente L'autore che credeva di esistere, edito da Johan & Levi), proprio come la scrittura inquadrano e racchiudono pezzi di mondo nelle loro opere-cornici, sapendo che esse stesse sono mondo. “Non c’è nulla fuori dal testo”, enunciava con serissima ironia Jacques Derrida nel 1971: per quanto fare arte sia fare cornici, non c’è un fuori dell’immagine, come non c’è un fuori testo, e l’infinito è lì, se lo sai vedere, appeso a una parete o nella pagina di un libro. 
(articolo pubblicato su l'Unità di domenica 4 novembre 2012)

10/26/2012

Per Tim Willocks, e per i suoi Re macchiati di sangue


   Quella che segue è la versione appena più lunga del pezzo uscito oggi 26-10-2012 su Venerdì di Repubblica ("Il mio western da veri duri che combatte il male a colpi di tenerezza", dedicata a Tim Willocks).

   Ha scritto Linwood Barclay che non si è mai pronti a leggere un romanzo di Tim Willocks più di quanto lo si possa essere prima di salire sulle montagne russe, e questo vale soprattutto per Re macchiati di sangue, appena uscito per Revolver (trad. di Katia Bagnoli,  pag. 432, euro 14,50). Anch’io sono un ammiratore di Tim Willocks. Lo sono non perché lui sia autore di polizieschi e thriller (Bad city blues, Il fine ultimo della creazione), romanzi storici (Religion, primo di una trilogia), ma perché ne evade i confini per rifondare un’epica contemporanea con una lingua contemporanea. Se dovessimo poi definire un genere, credo che la parola “western”, nella sua ambiguità, sia la più idonea a descrivere i romanzi di Tim Willocks.
   L’eroe dunque di questo western contemporaneo che è Re macchiati di sangue e si svolge in Louisiana, è uno strano doc, uno psichiatra depresso e fuori posto che, tra esplosioni di cieca violenza umana e fiumi di sangue, trova il tempo di ricucire le orecchie di un enorme cane lupo del quale è l’unico a non avere paura, e dalla cui amicizia sarà ricompensato. Come nei migliori romanzi sono infatti le pause e gli interstizi dell’azione che più ci emozionano. Il male è esattamente ciò che vuole cancellare “la beatitudine della tenerezza”. Per togliere il sangue rappreso sul volto di un uomo ferito a morte “dovette inumidire il fazzoletto con la saliva, proprio come faceva il padre con lui da piccolo”. Un po’ come l’eroe di quel capolavoro che è Religion, che nel bel mezzo della guerra più cruenta mai raccontata (l’assedio di Malta del 1565), ferito e febbricitante si perde a guardare le infinite sfumature di rosa nell’ordito di un tessuto, e in quel rosa riscopre le connessioni universali di tutto con tutto, e sarà questo a salvagli la vita.
   Tutte le storie di Willocks ridonano senso a parole come bene, male, eroe, padre, madre, figlio, guerra, amore, odio. Non vi si descrive solo la banalità del male, incarnato da temibili personaggi, ma la futilità della sofferenza, l’illogicità della violenza e della pretesa di capirla. A volte si spera in un ordine superiore (“Hai ragione, c’è troppo odio nel mondo. Ma dovrà pure servire a qualcosa, altrimenti non esisterebbe”). E c’è infine la qualità della scrittura. Mentre oggi i romanzi “di genere” sembrano sceneggiature, scritte goffamente “con” delle parole, la lingua di Tim Willocks è ricca, duttile, e coprotagonista delle storie. Sa raccontare i gesti di un fabbro che costruisce un coltello, descrivere una battaglia disperata e un amore struggente come musica jazz. E il pacifico paesaggio delle pianure alluvionali del fiume Ohopee, prima che esploda la violenza.
   Inglese di Manchester, cintura nera di karate, Tim Willocks scriveva già racconti durante gli studi in medicina, sfociati nella professione di psichiatra specializzato in dipendenze da droga. E’ un lavoro che ha lasciato alle spalle, così come la permanenza negli Usa dove lavorò come sceneggiatore con, tra gli altri, Spielberg, Michael Mann e Dennis Hopper, e da cui è tornato portandosi addosso la fama di una love story con Madonna (ciò di cui gli amici parlano rigorosamente alle sue spalle), e di essere stato coautore del Discorso per il Nuovo Millennio di Bill Clinton. Vive in un posto isolato dell’Irlanda, ma per fortuna (nostra) viene spesso anche in Italia, a Roma e soprattutto al festival del blues di Piacenza, dove si trovano ogni anno musicisti e scrittori che-non-se-la-tirano, e che amano appunto il blues. Ed è lì che ci siamo conosciuti anni fa...