11/20/2013

Preferisco Witttgenstein, e Thomas Bernhard [Letteratura: allargare la coscienza non è un gioco a premi]

   Provavo già disagio anni fa vedendo in edicola la pubblicità di dispense, vendute coi maggiori quotidiani, che istigavano a scrivere, anzi a diventare scrittori, con testimonial di prestigio come Roberto Saviano; i quali si dimenticavano però di dire che non si scrive per diventare scrittori, ma per diventare altro, per spogliarsi, non per addobbarsi di qualcosa, e forse soprattutto perché è rischioso farlo, non perché si è incoraggiati e premiati.
   Non c’è poi nulla di innocente nell’istigare a scrivere se la valorizzazione della letteratura, ammesso che si possa ancora chiamare così, non è che il pretesto intercambiabile con altri per affermare i valori già dominanti del successo sùbito, del profitto economico e del potere dato dall’apparire. Quello stesso apparire enunciato come massimo precetto da Lele Mora e Fabrizio Corona (due delle cozze, forse nemmeno le peggiori, abbarbicatesi agli scogli del berlusconismo) nell’agghiacciante affresco della nostra epoca che è il film Videocracy di Erik Gandini.
   Ma, dopo anni di conclamato degrado morale e antropologico, tutto continua a essere fatto della stessa pasta. L’estetizzazione della realtà modellata sullo spettacolo televisivo, dopo aver fatto della politica una corsa alla ricchezza e al potere personali, dopo aver trasmutato le idee in merci di consumo che, prima di essere proposte al pubblico, devono essere verificate da sondaggi di mercato (sic!), ha dilagato come un blob sradicando ogni opposizione culturale. Chi ha la responsabilità e il privilegio di rivolgersi al grande pubblico si guarda bene dall’andare contro i valori e i codici dominanti (ciò che invece fa ogni giorno, suo malgrado, qualsiasi insegnante di lettere a scuola). Ma che gli stessi metodi possano contaminare l’ultimo spazio gratuito di pensosità e di autonomia, quello della letteratura, che è in sé un’opposizione culturale per natura, è un’idea triste, come un ennesimo guasto ecologico.
   Trent’anni fa Gilles Deleuze descriveva la “giornalistizzazione” degli intellettuali e il “pensiero da tv”, e nel suo ultimo romanzo (Qualcosa di scritto) Emanuele Trevi accenna alla recente riduzione di tutta la letteratura alla sola narrativa, ma la realtà è più violenta: un radicale assoggettamento di ogni scrittura alla “comunicazione”, ovvero alla pubblicità. L’influenza, il senso di accerchiamento è tale che anche scrivendo un commento su un giornale mi sembra a volte di cedere alla generale corruzione delle parole orientate a uno scopo, che offuscano la coscienza. Scrivere, fare letteratura (come altre arti) non significa invece, come ricordava Allen Ginsberg, “allargare l’area della coscienza” – la propria e, se possibile, quella degli altri? Essere scrittori significa, credo, preservare, affermare nuovi spazi, sperimentare usi affrancati della lingua, forme irriducibili al dominio economico-pubblicitario. Sottomettere ogni ideologia al rischio della verità della letteratura, non il contrario.
   Alcuni anni fa, dialogando in pubblico con Christian Salmon, fondatore del Parlamento degli scrittori di cui fu presidente anche Salman Rushdie, ci si chiese come possa la banalità del potere fagocitare e banalizzare a sua volta “l’atto solitario più indipendente e sovrano, il più autentico, il meno soggetto alla pressione sociale, alle convenzioni, alla morale”. Non pensavamo allo scrittore engagé, ma a una resistenza diversa e irriducibile, vicina all’intransigenza di Flaubert e al mutismo di Beckett. O, oggi da noi, alla postura etica e all’invisibilità di Gianni Celati.
   Per questo, dopo che mi hanno raccontato la trasmissione-spettacolo sugli aspiranti scrittori fatta da scrittori già “aspirati” (uno dei quali un amico), inauguratasi domenica sera su Rai Tre, ho sentito il bisogno di rileggere tutto d’un fiato un librino a portata di mano, l’ottima traduzione di Goethe muore di Thomas Bernhard, così, per immergermi in una sintassi irriducibile, delirante e risanatrice - la storia dell’impossibile incontro, così lontano dall’oggi, tra il grande romantico tedesco e il filosofo Ludwig Wittgenstein, per discutere insieme “il dubitabile e il non-dubitabile”.

(articolo uscito il 20 novembre 2013 su l'Unità)

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