Provavo già disagio anni fa vedendo in edicola la pubblicità di
dispense, vendute coi maggiori quotidiani, che istigavano a scrivere, anzi a
diventare scrittori, con testimonial di prestigio come Roberto Saviano; i quali
si dimenticavano però di dire che non si scrive per diventare scrittori, ma per
diventare altro, per spogliarsi, non per addobbarsi di qualcosa, e forse
soprattutto perché è rischioso farlo, non perché si è incoraggiati e premiati.
Non c’è poi nulla di innocente nell’istigare a scrivere se la
valorizzazione della letteratura, ammesso che si possa ancora chiamare così,
non è che il pretesto intercambiabile con altri per affermare i valori già
dominanti del successo sùbito, del profitto economico e del potere dato
dall’apparire. Quello stesso apparire enunciato come massimo precetto da Lele
Mora e Fabrizio Corona (due delle cozze, forse nemmeno le peggiori,
abbarbicatesi agli scogli del berlusconismo) nell’agghiacciante affresco della
nostra epoca che è il film Videocracy di Erik Gandini.
Ma, dopo anni di conclamato degrado morale e antropologico,
tutto continua a essere fatto della stessa pasta. L’estetizzazione della realtà
modellata sullo spettacolo televisivo, dopo aver fatto della politica una corsa
alla ricchezza e al potere personali, dopo aver trasmutato le idee in merci di
consumo che, prima di essere proposte al pubblico, devono essere verificate da
sondaggi di mercato (sic!), ha dilagato come un blob sradicando ogni
opposizione culturale. Chi ha la responsabilità e il privilegio di rivolgersi
al grande pubblico si guarda bene dall’andare contro i valori e i codici
dominanti (ciò che invece fa ogni giorno, suo malgrado, qualsiasi insegnante di
lettere a scuola). Ma che gli stessi metodi possano contaminare l’ultimo spazio
gratuito di pensosità e di autonomia, quello della letteratura, che è in sé
un’opposizione culturale per natura, è un’idea triste, come un ennesimo guasto
ecologico.
Trent’anni fa Gilles Deleuze descriveva la “giornalistizzazione”
degli intellettuali e il “pensiero da tv”, e nel suo ultimo romanzo (Qualcosa
di scritto) Emanuele Trevi accenna alla recente riduzione di tutta la letteratura
alla sola narrativa, ma la realtà è più violenta: un radicale assoggettamento di ogni
scrittura alla “comunicazione”, ovvero alla pubblicità. L’influenza, il senso
di accerchiamento è tale che anche scrivendo un commento su un giornale mi
sembra a volte di cedere alla generale corruzione delle parole orientate a uno
scopo, che offuscano la coscienza. Scrivere, fare letteratura (come altre arti)
non significa invece, come ricordava Allen Ginsberg, “allargare l’area della
coscienza” – la propria e, se possibile, quella degli altri? Essere scrittori
significa, credo, preservare, affermare nuovi spazi, sperimentare usi
affrancati della lingua, forme irriducibili al dominio economico-pubblicitario.
Sottomettere ogni ideologia al rischio della verità della letteratura, non il
contrario.
Alcuni anni fa, dialogando in pubblico con Christian Salmon,
fondatore del Parlamento degli scrittori di cui fu presidente anche Salman Rushdie,
ci si chiese come possa la banalità del potere fagocitare e banalizzare a sua
volta “l’atto solitario più indipendente e sovrano, il più autentico, il meno
soggetto alla pressione sociale, alle convenzioni, alla morale”. Non pensavamo
allo scrittore engagé, ma a una resistenza diversa e irriducibile,
vicina all’intransigenza di Flaubert e al mutismo di Beckett. O, oggi da noi,
alla postura etica e all’invisibilità di Gianni Celati.
Per
questo, dopo che mi hanno raccontato la trasmissione-spettacolo sugli aspiranti
scrittori fatta da scrittori già “aspirati” (uno dei quali un amico),
inauguratasi domenica sera su Rai Tre, ho sentito il bisogno di rileggere tutto
d’un fiato un librino a portata di mano, l’ottima traduzione di Goethe muore
di Thomas Bernhard, così, per immergermi in una sintassi irriducibile,
delirante e risanatrice - la storia dell’impossibile incontro, così lontano
dall’oggi, tra il grande romantico tedesco e il filosofo Ludwig Wittgenstein,
per discutere insieme “il dubitabile e il non-dubitabile”.
(articolo uscito il 20 novembre 2013 su l'Unità)
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