1/27/2012

La macchina del tempo di Stephen King


Recensione a 22/11/63 di Stephen King apparsa oggi su l'Unità.

Tralascio il piacere e la gioia di sprofondare, ogni volta, in un romanzo di Stephen King. So che è un’esperienza molto condivisa.
   Nel suo ultimo romanzo Stephen King affronta, senza pensarci troppo su, la questione del viaggio nel tempo. Non si sofferma cioè sui temi tradizionali della fantascienza e delle sue logiche raffinate e paradossali (anche se le sorprese non mancheranno, perché “il passato è inflessibile”), ma inventa e sfrutta fin dall’inizio una situazione narrativa ideale, fecondissima di disagio e di perturbamento: il viaggio nel tempo è un dispositivo per divenire alieni nel proprio mondo, nella propria terra e lingua, nel proprio stesso ambiente. Basta infatti una piccola sfasatura temporale a renderci irrimediabilmente altri, extracomunitari; basta canticchiare una canzoncina dei Rolling Stones nel 1962 o ’63 per stranire chi ci sta vicino.
   Il viaggio clandestino nel passato di Jack Epping, insegnante di lettere divorziato e stanco, avviene attraverso un varco rivelatogli nel 2011 dal vecchio Al nella dispensa della sua tavola calda (per questo dunque il prezzo degli hamburger di Al era così basso: non era carne di gatto, come malignavano alcuni, ma ottimo manzo macinato che comprava coi prezzi di cinquant’anni prima). La rivelazione della “buca del coniglio”, oltre la quale ci si trova sempre immancabilmente nel piazzale di una fabbrica alle ore 11,58 del 9 settembre 1958, si accompagna a un passaggio di consegne da parte di Al, che sta per morire: cercare di salvare la vita al presidente John Kennedy, assassinato a Dallas dallo squilibrato Lee Oswald il 22/11/’63 (è il titolo del romanzo). E’ “un momento spartiacque” della Storia: se questo non salverà il mondo, salverà almeno il fratello Bob e Luther King, eviterà le rivolte razziali e forse gli innumerevoli morti della guerra nel Vietnam...
   Alfred Hitchcock definirebbe “McGuffin” questo motore della storia e della trama: un pretesto per narrare le avventure del viaggio in sé, il soggiorno di un adulto nel mondo vintage dei propri nonni - un mondo dall’aria più pura e dai modi più svagati, dove tutti fumano allegramente e mangiano colesterolo senza timori o pensieri; dove la gente non pensa più di tanto alla Russia e al cosiddetto divario missilistico, e la vita (per i bianchi) scorre con allegro ottimismo (ma c’è l’apartheid per i neri). Stephen King deve essersi divertito non poco a studiare la vita quotidiana dell’epoca, e realizzare narrativamente ciò di cui è maestro: la descrizione della vita ordinaria, il flusso quotidiano degli eventi, l’umanità di un bar, un emporio, un negozio di ferramenta o di abiti, una sala di scommesse o un college. E inserire qui e là, nella normalità degli eventi banali, una pennellata minima, da calligrafo, di inquietudine e insondabile malvagità, crepe sottili e per questo scabrose sulla superficie liscia delle cose: come, en passant, l’incontro a Derry coi commoventi personaggi adolescenti di It, cui Jack insegna a ballare lo swing nel parco, ma anche le vibrazioni demoniache che si irradiano dal rifugio, appunto, di It.
   Jack Epping (che nel passato si fa chiamare George Amberson, come il personaggio del film di Orson Welles) giunge a Dallas, e si accorge che questa città, proprio come la Derry nel Maine di molti romanzi horror di Stephen King, ha qualcosa di “sbagliato”, sinistro e maligno. Per studiare e prepararsi al proprio compito (Oswald vive a Dallas, dove fu assassinato Kennedy) s’installa allora in una non lontana deliziosa cittadina del Texas, dove svolge il lavoro che sa meglio fare, insegnare lettere un college. Ed è da qui che il romanzo diventa almeno duplice, sicuramente plurale.
   Da una parte l’affresco storico col pathos del clandestino si fa carico della biografia minuziosa di un uomo ordinario, il disadattato Lee Oswald - complesso di madre e filosovietico per nevrosi border line. Jack ne spia e testimonia la vita come in un libro-verità, come nella recente letteratura che imita l’arte e il cinema documentari. Dall’altra la finzione romanzesca comprende una storia d’amore e di rinascita, meravigliosa svolta e parabola di un destino insperato e possibile – senza dimenticare le crepe che serpeggiano qui e là ad inquietare l’ordine e l’idillio. Non aggiungo altro, salvo dire che ci si commuove a iosa, al suono dello swing e del primo rock di Little Richard.

   Chissà come si è divertito, ho pensato con un pizzico di invidia, l’amico Wu Ming 1, traduttore di Stephen King che succede al pur bravissimo Tullio Dobner. Se già la lettura di ogni romanzo di King vale molto di più di un corso di scrittura creativa, chissà tradurlo. Perché, anche questo va detto, se nei suoi ultimi romanzi King mostra di saper giocare con le strutture narrative più colte e raffinate, in questo si diverte pagina dopo pagina a tematizzare le tecniche di composizione di una storia, a scrivere sullo scrivere. La storia di George Amberson è naturalmente raccontata da Jack Epping, e i viaggi nel tempo (forse l’abbiamo sempre saputo) sono prima di tutto viaggi nel tempo del racconto, viaggi nei mondi possibili della narrativa. Ogni vita è una storia. Ogni storia, in fondo, è un metaromanzo.

[su Stephen King vedi anche in questo sito:
http://beppesebaste.blogspot.com/2009/11/una-dittatura-piuccola-piccola-under.html
http://beppesebaste.blogspot.com/2009/09/il-1989-le-creature-del-buio-e-lhappy.html
http://www.beppesebaste.com/articoli/buick8.html

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