3/26/2011

La guerra, il flipper...

   Confesso di non sapere se sono favorevole o contrario alla guerra contro la Libia di Gheddafi, e rivendico la mia incertezza. Penso anche che la politica sarebbe bella se le posizioni in campo fossero solo queste – far ricorso alla guerra solo per proteggere le popolazioni contro i dittatori, o ripudio assoluto, perché una guerra giusta è come uno sciopero della fame contro l’anoressia. Ma nella coalizione di chi bombarda c’è chi ha condiviso fino a oggi valori e stile di vita del dittatore e anzi lo rimpiange, e tra i più volonterosi trapela dietro lo slancio democratico un conflitto di interessi coloniale. Marx ci insegnò a leggere il motore materiale della Storia, le strutture economiche che si ammantano di sovrastrutture ideologiche e religiose. Eppure sarebbe anche bello se la religione, qualunque sia, si opponesse alla realtà in nome dei suoi valori irriducibili, invece che adeguarsi all’esistente. “Speriamo che si svolga tutto rapidamente, in modo giusto ed equo”, ha detto l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, prendendo atto dei primi bombardamenti. Frase che mi ha fatto dolorosamente pensare (lo dico da laico) al rischio di eclissi di quel sublime mistero che la religione preserva, e che in definitiva è l’etica, quella delle prescrizioni non negoziabili, quella del “non uccidere”. Se la politica, le umane gesta e gli umani gesti, non deve coincidere con essa (lo Stato etico è il fascismo), non dimentico il bellissimo striscione delle donne all’epoca di quelli, banalmente maschili, contro la Nato – “Fuori la guerra dalla Storia” - e sento la mancanza di una critica vertiginosa, quale quella teologica, senza di cui il reale è deprivato non solo di alterità, ma di orizzonti: il mondo come un immenso flipper di cui siamo le palline che rimbalzano, tra fondamentalismi e terrorismi, tra dottor Stranamore e miliardari for ever.

(rubrica "acchiappafantasmi" per l'Unità di domenica 27 marzo 2011)

3/23/2011

Creature: per Marion Greenstone


Domani 24 marzo a Venezia, a Palazzo Zenobio (Collegio Armeno) si inaugura la mostra antologica di Marion Greenstone (1925-2005). Durerà fino al 18 maggio.
Ho scoperto da poco la sua opera, grazie alla sorella Cora e all'amico Marco Agostinelli, autore di un film documentario su di lei. Ne sono stato affascinato e coinvolto. Alla sua opera ho dedicato alcune frasi e riflessioni, di cui offro qui un sunto in forma di breve articolo che dovrebbe uscire (salvo imprevisti), su l'Unità del 24 marzo (mentre scrivo un imprevisto c'è già stato che può scardinare la programmazione delle pagine di un giornale: la morte di Liz Taylor). Comunque sia ecco il mio breve testo.

Creature, colori, bellezza. Per Marion Greenstone

Tutti, quando incontriamo per la prima volta le opere di Marion Greenstone, restiamo esterrefatti. I comodi riferimenti che di solito aiutano e indirizzano la nostra percezione ed esperienza estetica nei riguardi di un pittore (cioè la condizionano parandone l’impatto) vengono a franare. Non è né questo né quello, pare che diciamo, non rientra neppure nella categoria degli artisti senza categoria - pensiamo - ancora incerti se si tratti di una qualità. E ci sfugge il fatto clamoroso, l’unico che abbia importanza, che stiamo facendo una nuova esperienza. Scopriamo non solo che i quadri di Marion Greenstone sono pieni di bellezza, ma che sono anche un evento - estetico, cioè sensoriale e cognitivo - di cui non immaginavamo la possibilità. Pop, espressionismo astratto, neocubismo, astrattismo, informale – etichette che servono per rassicurare i critici e i compilatori, non lo sguardo e i gesti di chi fa opere – e lei, Marion Greenstone, scavalcava e debordava ogni classificazione: “Il mio scopo è creare bellezza”, ha scritto di sé. Anche Marion insisteva spesso sulla parola “esperienza”, sua e di chi le guarda. “Esperienza” significa che l’avventura di ogni sua singola opera, qualunque cosa possa raffigurare o far pensare, è sempre un evento, e prima di tutto lo era per lei. Per questo occorre approfittare dell’occasione veneziana, la prima e vera antologica di Marion Greenstone, nella splendida cornice di Palazzo Zenobio, a cura di Marco Agostinelli, che alla Greenstone ha dedicato un documentario.

   Nata nel 1925 e vissuta la maggior parte del tempo a Brooklyn (New York), pur avendo moltissimo viaggiato e abitato anche a Roma negli anni ’50, Marion fu allieva di Norman Lewis e di Vaclav Vytlacil (maestro anche di Twombly, Rauschenberg, Rosenquist e Louise Bourgeois), e per anni docente di pittura e disegno al Pratt Institute. Il fatto che abbia condiviso il periodo pop evitando ogni compromissione e deriva verso la pubblicità, è l’ulteriore e notevole paradosso di una donna che si consacrò alla pittura senz’altra fede o ambizione che il dipingere, in un mondo di uomini con molte ambizioni e pochissima fede.
   I suoi collages, l’uso di diverse carte, il debordare limiti e misure, lavorando per accostamenti e giustapposizioni, insomma il collage come metodo fino a un’invenzione originalissima di polittici che è quasi un’arte dell’affresco, si fonde con una pittura che sembra mostrarci reperti salvati di qualcosa di più grande, zoomate di paesaggi creaturali, da Genesi, genesi del mondo e della forma, genesi della pittura - poiché è proprio di ogni vero pittore reinventare il dipingere. Marion Greenstone osservava la natura per trarne meraviglia e conoscenza: la sua contemplazione amorosa di foglie, fiori e frutta, ma anche cieli, terre, arcipelaghi, formazioni geologiche, oltre a una grande bellezza ci regala una lezione magistrale che ricorda in questo Bruno Munari: trovare negli oggetti dell’arte la naturalezza delle cose prodotte dalla natura stessa; imitarne non le forme finite ma i sistemi costruttivi, la struttura che le determina. Il collage come metodo è allora strumento di un’ecologia mente prima che della materia. Istantanee della vita, della sorgente della vita, i quadri di Marion Greenstone allargano la nostra coscienza e ci fanno diventare migliori. E volentieri nuotiamo e ci immergiamo nel gorgo di forme e colori, oceano di petali, corolle, o semplici, creaturali cose. Cosa chiedere di più a un pittore?

3/19/2011

La vita contro la morte (o "cronache del dopobomba")

   In questi tragici giorni di risveglio ho preferito alla lettura dei giornali la rilettura dei classici, da La Ginestra di Giacomo Leopardi a Hiroshima mon amour (sceneggiatura di Marguerite Duras del film di Alain Resnais), fino allo stupendo Cronache del dopobomba di Philip K. Dick. Le news sul governo italiano di fronte alla catastrofe nucleare in Giappone erano così sconce e imbarazzanti (il ministro dell’Ambiente Prestigiacomo: “Il programma italiano sul nucleare va avanti. Le centrali che noi abbiamo programmato sono modernissime, molto più sicure di quelle giapponesi’”) che ho avuto la certezza che la lotta politica fosse ormai quella de “la vita contro la morte”. Era il titolo, molti lo ricorderanno, di un libro di Norman Brown (sottotitolo: Il significato psicoanalitico della storia), dedicato al conflitto tra pulsione di vita e pulsione di morte che fa della Storia della civiltà la storia di una nevrosi. Brown vi introdusse anche l’etimologia, suggestiva ma falsa, della parola latina amor: a-mors, a-morte, “toglimento di morte”. Di fatto, il geniale film del 1964 di Stanley Kubrick, Il dottor Stranamore, ovvero Come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, era un didascalico commento tra horror e humour a quanto scritto da Norman Brown in La vita contro la morte: col conflitto nucleare, o con l’energia nucleare tout court, la morte totale poteva (può) “finalmente” realizzarsi. Ora, per tornare alla politica, non sembra anche a voi che la sua forma attuale (come quella degli incubi del personaggio femminile di Hiroshima mon amour) sia quella del girare attorno al nucleo dei problemi senza mai affrontarli direttamente, proprio come le particelle roteano attorno al nucleo dell’atomo prima che si inneschi la fatale reazione nucleare? Un’altra politica, di vita e non di morte, come le energie alternative, è possibile o no? Che aspettiamo?
(rubrica domenicale "acchiappafantasmi", l'Unità del 20 marzo 2011)

3/13/2011

Essere italiano (risposte a un questionario)


Il nuovo numero monografico della rivista Nuovi Argomenti è dedicato a un questionario sull'essere e sentirsi italiani indirizzato a un gran numero di scrittori (italiani). Io sono uno di loro, e riporto qui di seguito le mie risposte alle loro domande, resistendo alla tentazione di ritoccarle. faccio però una piccola premessa.
All'epoca delle mie frettolose risposte (qualche mese fa) non si immaginava una performance come quella di Benigni sull'Inno di Mameli a Sanremo, o almeno non la immaginavo io, né avevo percepito che oggi la nuova destra in Italia non fosse nemmeno più portatrice dell'idea (del valore? della retorica?) di "patria" e "nazione". Come è potuto accadere? Una risposta ce l'ho (e l'ho capita proprio guardando Benigni a Sanremo). Che "nazione" è forse l'ultimo esempio o avatar rimasto di "cosa pubblica", o "comune", di valore o bene "collettivo", insomma come si dice lo spazio pubblico, la scuola pubblica, la Re-pubblica, il parco pubblico o le panchine. E nella volontà di scardinare, estirpare alle radici questi valori, questi beni comuni, la nuova destra ha perfino fatto piazza pulita di questa idea. Inimmaginabile fino a qualche tempo fa, soprattutto per le mie origini e la mia formazione, senz'altro più "anarchiche" e cosmopolite che non nazionali. Comunque sia, continuo a non sentirmi molto in pace con i miei connazionali. Come si evince dalle mie risposte alle seguenti domande, che presento senza nessuna correzione.

1) Lei si sente italiano? E, se sì, in che modo?
   Quando si compilano i formulari alla frontiera (in un aeroporto americano, per esempio) alla casella “religione” c’è chi potrebbe sbandierare la propria confessione di ateismo e non appartenenza. Ma se si tratta di un italiano non ebreo, figlio e nipote di italiani e cresciuto in Italia, una risposta così è una risibile omissione. Rientra nel nostro Dna essere bianchi, europei, italiani, cristiani e cattolici. Da queste pre-determinazioni (o condizionamenti) si eredita lo sguardo con cui percepiamo il resto del mondo: meglio esserne consapevoli. Allo stesso modo so di essere italiano, e mi sento spesso italiano, anche se non sono i momenti di cui vado più orgoglioso: quando cerco di convincere il vigile o il poliziotto a non farmi la multa, il commerciante a tirar su la saracinesca o a riaprire il negozio, l’oste o il ristoratore a farmi fumare al tavolo nonostante i divieti, “visto che non c’è più nessuno”. Non ho mai parcheggiato sulle strisce pedonali e negli spazi per gli invalidi, ma ho citato fin troppo volentieri la petrarchesca caducità della vita, e “cosa siamo noi di fronte all’eternità”, per giustificare retoricamente i miei atti ed evitare sanzioni.
   D’istinto, non sapendo definire un’identità italiana, mi viene in mente così una serie di parole alla rinfusa, che rispondono in parte anche alla domanda 2: commedia, farsa, farla franca, darsi di gomito, presunzione, impunità, immunità, trasformismo, paura, attaccamento, senso di inferiorità, senso di superiorità, ipocrisia, esagerazione, superstizione, velleità, furbizia, ecc. Ricordo il ritratto che fece Rilke (ma con lui tutti o quasi i viaggiatori europei fin dal tempo del Grand Tour) dell’inopportuna e invadente teatralità degli Italiani. Per questo il primo ministro story-teller e pubblicitario di mestiere, che gli Italiani hanno eletto loro rappresentante per quasi quindici anni (quindici anni della mia vita adulta che avrei preferito trascorrere con altri argomenti di conversazione, altri sfondi, altre pubbliche interferenze), oltre che portatore di un triviale regime è campione e maschera dell’italianità, sintesi delle affinità elettive dominanti.
   Detto questo, c’è per fortuna un’altra galleria di parole positive, che hanno fatto sì che mi ostinassi a restare o a tornare in Italia: calore, umanità, cordialità, famigliarità, cantare (“volare”), gusto dello stare a tavola, lentezza (strano che si dica in inglese: slowfood), atavico ripudio della guerra... L’utopia è che restino questi i valori prevalenti.
2) Territorio, tradizione e identità sono concetti utilizzati con frequenza, a destra come a sinistra. È d'accordo con l'uso che se ne fa? E crede di poter parlare, secondo la sua esperienza, di territorio italiano, tradizione italiana e identità italiana?
   Quasi tutto di questo doveroso questionario tocca argomenti che sono per me in larga parte scabrosi e al tempo stesso formativi: la mia ripugnanza per l’italianità patriottica è tutt’uno infatti con la storia della mia bildung ed educazione sentimentale. Per esempio: facevo il ginnasio quando al “collettivo” culturale della mia scuola, che si riuniva un pomeriggio alla settimana per leggere libri fuori programma, affrontammo il saggio di Marcuse in Cultura e società che tratta dell’ideologia di “sangue e suolo” - tratti identitari comuni a ogni fascismo. Marcuse delineava, con parole semplici e folgoranti, la retorica del nazismo passato e del “leghismo” futuro: nulla di più italiano forse dell’antitalianità di Bossi e della Lega Nord.
   Ma la domanda richiede giustamente una risposta soggettiva ed esperienziale, per la quale rimando alla risposta 4, tranne questa breve osservazione: da qualunque frontiera europea si giunga in Italia, salta agli occhi appena oltrepassata la dogana la penosa bruttezza dell’urbanistica italiana: i condomini sono più simili a stabilimenti per la stagionatura dei prosciutti che a case abitate, e disposti in modo informe e casuale sul territorio, come le villette mono e bifamigliari, famose per i delitti, che costituiscono la nostra “italian beauty”. Perché è così? Non lo so. Anche se l’audace citazione di un cantiere abusivo, una specie di ecomostro che appare per un istante nel bel film di Mario Martone sul risorgimento italiano (Noi credevamo), suggerisce qualcosa di costitutivo nella formazione del nostro Paese. E non posso non vedere una continuità tra questa incuria e la devastazione tragica e quasi “finale” della terra foderata di rifiuti tossici, in Campania e nel casertano, laboratorio del resto d’Italia, descritta nel capitolo finale di Gomorra di Saviano; a riprova del fatto che la perdita del senso dello spazio, dell’appartenenza e cura di un territorio, procede parallelamente con quella del tempo, della memoria, ed entrambe colla perdita del senso dell’interdipendenza biologica e culturale dell’essere-umani-sulla-terra.
3) Che significato ha per lei la parola patria?
   Si è capita la mia allergia a questa parola e ai suoi derivati. La uso il meno possibile, e quasi sempre in senso metaforico (come “la sua patria è la nostalgia”, scritto da Chiara Valerio a proposito di un mio libro di racconti). E’ come il peso di un’eredità imposta e non negoziabile (da ragazzo mi chiedevo perché non “matria”, così come si può opporre matrimonio a patrimonio, ma sono giochi di superficie). Provo insofferenza per la valorizzazione indotta e quasi obbligata di un’appartenenza astratta e casuale come la nazionalità (tutto il contrario di una gratitudine), e sono molto critico e sospettoso nei confronti di ogni identità rivendicata, sottolineata, acclamata, enfatizzata (un Noi che è contro Loro), germe e radice di ogni violenza e di ogni guerra. Trovo aberrante la formula americana right or wrong is my country (“giusto o sbagliato è il mio Paese”), che depone ogni etica a favore dell’identità, e altrove l’ho argomentato reiterandone la logica in altri esempi, da quello stalinista (giusto o sbagliato è il mio partito) a quello mafioso (giusta o sbagliata è la mia famiglia), e così via.
4) Sente più forte il suo legame con un'identità locale (cittadina, provinciale, regionale) o con l'identità nazionale?
   Questa, insieme alla 5, è la domanda più bella, nel senso che mi propone una via d’uscita finalmente affermativa. Il parmigiano e l’emiliano che sono dentro di me, per quanto discreti, sono anch’essi insopprimibili, ma per parlarne devo cambiare registro: dove si nasce, da cosa si nasce, che cosa lascia in noi un’insopprimibile, duratura impronta? Di cosa siamo fatti? Io ho un amico maestro Zen, Fausto Taiten Guareschi, che non esita a parlare della propria nascita in Giappone, nella tradizione del Soto Zen, dai suoi maestri-padri-patriarchi etc., allo stesso modo in cui sant’Agostino poteva “confessare” la propria vita a partire dalla propria conversione al Cristianesimo, ovvero morte e vita nuova. Ma nello stesso tempo, lui, Taiten, nato a Fidenza, in provincia di Parma, abate e manutentore di un monastero buddhista ricavato da un rurale su quelle colline, parla ininterrottamente del padre, del mondo contadino e locale (il “mondo piccolo” di Giovannino Guareschi) e ha scritto un libro molto bello, di prose-insegnamenti, dal titolo Fatti di terra (cui seguirà prossimamente un altro libro dal titolo Fatti di nebbia). Ecco, mi riconosco pienamente in questa formazione, nascita e tradizione, che è un misto di vari elementi, dalla parlata strascicata e cantilenante ai cappelletti fatti con lo stracotto, dal radicchio verde (ormai quasi introvabile) al melodramma, e soprattutto quell’immaginario del luogo (i luoghi sono anche ciò che ci fanno immaginare) che da Ariosto a Pascoli - o dal Paradiso di Dante immaginato nell’esilio a Ravenna, all’Amarcord di Fellini a Rimini - conosce le mille varietà del bianco come solo chi è fatto di nebbia, come il Battistero di Parma o il Duomo di Modena. E credo a una connessione diretta tra il mondo piccolo e locale della propria origine e la dimensione universale - che, tra parentesi, è il contrario del provincialismo. Non a caso la bellezza o il sapore o la cura di certi singoli aspetti del pianeta, che possono essere un lago, una foresta, un’architettura, un dipinto, un formaggio o un dialetto, vengono detti “patrimonio dell’umanità”.
   "Fatti di terra – ha detto il maestro Taiten Guareschi – non si può perdere né acquistare terreno [...] La nostra pratica, così come la nostra strada è inventare il senso della terra d’origine”, “sogno terragno in cui sognando si rivela il sogno”. Sento un’appartenenza chimica, fisica e poetica a una certa terra, di cui mi piace a volte essere guida e ospite per gli stranieri - gli stranieri essendo coloro che ci aiutano a vedere meglio casa nostra, facendoci uscire dall’assuefazione e dalla cecità.
5) Simmetricamente, sente più forte il suo legame con l'identità italiana o con l'identità europea?
   La seconda, sicuramente. La mia identità è quella dei luoghi elettivi, e mai casuali, in cui ho intensamente abitato: dopo Parma, Lerici, Bologna, Roma, la Versilia, Parigi. E il Salento (dove ha origine mia madre) e perfino Ginevra, il lago Lemano e le Svizzere. O di quelli sognati: la Germania dei tanti scrittori di lingua tedesca che ho amato, la Zurigo di Max Frisch, la California da Chandler a Brautigan, la New York di Allen Ginsberg, l’Amsterdam e la Tashkent del mio amico Giorgio Messori, perfino l’America e l’Oklahoma sognati da Kafka, che ri-conobbi esattamente leggendolo e contemporaneamente guardando dal finestrino durante un volo New York-Los Angeles.
   Ma le mie abitudini, i miei valori, i miei riferimenti sono radicatamente europei; la mia “nostalgia” è dell’Europa, della sua lentezza, della sua memoria, del suo senso della Storia, della sua nostalgia appunto; della sua complessità e tragica saggezza, senza la quale non conoscerei la comicità, l’ironia e il riso.
6) Ci sono personaggi, periodi o eventi storici che accendono in lei qualcosa di simile a un orgoglio patrio?
   Qualcosa di simile me lo hanno comunicato solo i partigiani che hanno combattuto, per esempio sugli Appennini, contro i nazifascisti.
7) Uno dei rari momenti in cui il popolo italiano pare ritrovare un'unità di intenti e sentimenti è la visione di eventi sportivi. Si è mai trovato a guardare la gara di un atleta o di una squadra nazionale augurandosi che vincesse solo perché rappresentante l'Italia? E, se sì, per quale motivo?
   No, con la sola eccezione dei Mondiali di Calcio del 1982 (ero giovanissimo), quando Pertini era Presidente della Repubblica e si trovava in Spagna a fare il tifo per l’Italia. Era una squadra strana e interessante la formazione italiana, con Zoff e Bruno Conti, forse il ritratto più benevolo della nazione. L’Italia superò l’atavica paura di vincere (che secondo un mio amico risale almeno alla “disfida di Barletta”), Paolo Rossi rubava goal come un folletto, e l’entusiasmo di vincere contro dei giganti, come il Brasile e la Germania, si propagò. Soprattutto, quel mondiale è legato per me all’immagine di Roma in festa (ero a Roma in vacanza, dove avevo legami di amicizia con un gruppo di giovani poeti). Ricordo camion con le bandiere tricolori, e per la prima e unica volta nella vita non ne provai fastidio. Era una festa di poveri, non di ricchi, e dissi all’epoca che mi sembrava di vedere la festa della Liberazione, però a colori.
8) Pensa che il senso di appartenenza linguistica sia un elemento costitutivo del sentimento di identità nazionale?
   Non lo so, sinceramente. Anche perché, nonostante il nobile intento di Alessandro Manzoni, l’italiano inteso come lingua l’ha fatto di più Mike Bongiorno, ovvero la tv. Ma perfino quando leggo Dante non sento di leggere in lingua esclusivamente italiana, ma in una lingua europea, se non in un “patrimonio dell’umanità”; e soprattutto in una lingua che crea, che letteralmente dà forma e luogo, a ciò che chiamiamo “poesia”, “letteratura”, che è per me una lingua sovra-nazionale. Mi sono chiesto spesso in che lingua abbiamo letto i romanzi europei, americani etc. quando li abbiamo letti tradotti, quale sia insomma la nostra lingua d’uso, in cui scriviamo e parliamo. Prendo molto sul serio questa domanda, ovvero non intendo una “appartenenza linguistica” come il gergo di un clan più o meno allargato, come le cento o anche solo cinquanta parole in cui, da anni, i linguisti hanno dimostrato che si può vivere una vita in una città. “Lingua” è per me inscindibilmente legata alla letteratura, ovvero non è uno strumento che serve a comunicare qualcosa, ma l’organo di un Dire per mantenere (aperta) la parola, una forma alta di gratuità e di grazia, ma anche di rivelazione, senz’altro più vicina alla mistica che alla politica e agli affari; o al cosiddetto management che richiede una fluidità linguistica che avversa ogni elemento poetico come “rumore”, sabbia negli ingranaggi...
   C’è da chiedersi quindi quale sia il panorama attuale della lingua praticata in Italia; se e dove esista una pratica della lingua che non sia degradata o fagocitata dallo slogan politico-pubblicitario.
9) Quale è, se ritiene che esista, il carattere nazionale italiano? Crede che tale carattere sia costitutivo dell'identità o possa mutare nel tempo?
   Vedi risposta 1. Spero che possa mutare, grazie al meticciamento, o come si dice.
10) Italiani si nasce o si diventa?
   Tutt’e due, mi auguro, almeno per quanto la cittadinanza e i diritti civili che essa comporta. Penso naturalmente agli immigrati, di prima, seconda, terza ecc. generazione. In opposizione a ogni retorica del suolo, o peggio del sangue, che esclude gli altri, gli stranieri, in un’extra-comunità.

3/12/2011

Non parlare coi fascisti

“Non mi indigno più, provo disgusto”, ha detto don Luigi Ciotti in un incontro alla Statale di Milano, “quando vedo deridere la legalità, la giustizia, per tutelare i propri interessi e le proprie vicende giudiziarie”: “Il primo testo antimafia è la Costituzione Italiana”, ha aggiunto. Ripenso alle frasi di Piero Calamandrei (uno dei nostri Padri): la Costituzione è nata “nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità”. Poi rivedo su un giornale il cartello di una manifestazione di qualche tempo fa: “Via dalle istituzioni chi straccia la Costituzione”... Cosa altro aggiungere, a parole?
   Mi viene in mente invece il silenzio: quello di Enrico Berlinguer quando, in una civile trasmissione sulla Rai di allora col moderatore Jacobelli, un esponente del Movimento sociale italiano (l’estrema destra), in deroga all’etichetta, gli rivolse una domanda diretta. Berlinguer restò in silenzio come se non avesse udito, e così a lungo che Jacobelli glielo fece notare imbarazzato (la tv non sopporta i silenzi). A lui Berlinguer rispose fermo e serafico: “Coi fascisti non parlo”.
   Scrivo questa rubrica il mattino di sabato, prima della manifestazione, per non rischiare di farmi prendere dall’euforia descritta da Silvia Bonucci nel suo bel romanzo Distanza di fuga (Sironi), quando il personaggio osserva “tutti quei volti allegri e partecipi e si chiede come possa un semplice comune sentire dar loro l’illusione di essere più forti, fargli dimenticare, anche solo per qualche ora, che il mondo è diverso da quello che vorrebbero”. Vincere per la democrazia non è mai stato facile, ma è accaduto. Non riaccadrà finché dalla nostra parte si continuerà a legittimarne il nemico dichiarato, finché qualcuno continuerà a illudersi di negoziare col cialtrone, fascista per interesse, simile al Joker di Batman; finché continueremo a commentare e biografare, in perpetuo ritardo, la resistibile caduta della democrazia in Italia.

(rubrica domenicale "acchiappafntasmi", su l'Unità del 13/03/11)

3/05/2011

L'educazione degli adulti e la scuola pubblica

  
   Su l’Unità del 2 marzo Ascanio Celestini ha scritto sulle scuole (pubbliche) una cosa così giusta e evidente da passare quasi inosservata: “All’uscita degli studenti dovrebbe seguire l’entrata dei cittadini che potrebbero frequentare la scuola per corsi, incontri, assemblee e anche spettacoli e dibattiti o persino per motivi ludici”. Non dice solo la fame di luoghi che non siano quelli che trasformano i cittadini in clienti (anche le panchine sono in via di estinzione), ma i criteri e gli obiettivi per l’istruzione e l’educazione fissati da anni in Conferenze europee vincolanti per l’Italia (Amburgo 1997, Lisbona 2000): il diritto all’educazione permanente del cittadino adulto, la flessibilità dello studio e il superamento della concezione secondo cui la formazione professionale segue quella intellettuale, ovvero “prima si studia e, dopo, si lavora”. Educazione e istruzione non finalizzati ad obiettivi miopi, ma, come la cultura, investimento a lunga scadenza, misurano la civiltà e la ricchezza di un Paese. Ora, posto che il capo del governo sta all’educazione come uno spacciatore di eroina sta allo yoga, il “Ministero dell’istruzione” (sic, senza l'aggettivo “pubblica”), oltre a tagliarne i fondi non col machete ma col napalm, abolisce perfino quei momenti codificati in cui gli adulti fanno comunità nelle scuole, ovvero i corsi serali. Al loro posto istituirebbe dei “centri” (sostantivo già sinistro) “per l’istruzione degli adulti”, cui potrà iscriversi solo chi “non ha assolto l’obbligo di istruzione” o non è “in possesso di titoli di studio di scuola secondaria superiore”; cioè negando l’accesso ai tanti diplomati e laureati che frequentano, per esempio, i licei artistici serali. Auspico da sempre la proliferazione di corsi serali per tutti - anche licei classici – e vorrei che si cogliesse l’importanza politica della battaglia culturale per la loro salvaguardia.

(rubrica domenicale "acchiappafantasmi", l'Unità, 6 marzo 2011)

3/01/2011

Il "teatro dei sogni" di Claudio Bonichi - bellezza, rifugio, sovversione

   Domani a Milano in via Appiani 1, presso la galleria Federico Rui Arte Contemporanea si inaugura, col titolo "Il teatro dei sogni", una mostra di Claudio Bonichi.
   Figlio e nipote d’arte (il celebre Scipione della “scuola romana” era suo zio), padre d’artista (la figlia Benedetta, nota per le sue “radiografie” e i suoi tableaux vivants con scheletri), Claudio Bonichi è un grandissimo pittore di origine piemontese che da decenni vive e lavora a Roma - ora nello spazio che fu la Casa della Cultura (che ospitò tra l’altro la salma di Pier Paolo Pasolini nelle sue prime commosse esequie civili). Amo molto il suo studio, il cui silenzio resiste perfino allo sferragliare novecentesco del tram sotto le finestre, e ho con lui una lunga frequentazione. Ho perfino abitato per un breve periodo della mia vita al cospetto di alcune sue tele, quelle più fantasmatiche, della sua preziosa collezione privata. Ma altra cosa è scrivere dei suoi quadri: parto allora dal bianco del foglio (virtuale), che come il bianco della sua tela è, dice Bonichi, “la pagina perfetta”, capace di accogliere ogni idea confusa (tutt’altro che meno degna di un’idea chiara), e che può portare assolutamente ovunque.

   Il mio primo tratto è il brano di un filosofo, non ricordo quale, che ammoniva di non rimproverare ai concetti metafisici (all’utopia?), e neppure a quelle teologici, di non corrispondere alla realtà, ma di criticare piuttosto la realtà, che è inadeguata a quei concetti. Il secondo tratto è un’esperienza recente: mi sono beatamente perso guardando la sua ultima antologica a Cava de’ Tirreni - Il viaggio metafisico di Claudio Bonichi – trovando rifugio nei suoi dipinti, come se potessi entrarci e permanere nella dimensione color nebbia, color ghiaccio e perla, color terra, dei suoi fondi; non come le contemplazioni degli arabeschi sul tappeto nei racconti che sconfinano nel delirio in Poe, o nel metaromanzo in Henry James, ma come ci si rifugia magicamente dentro i quadri, dimensioni vive e parallele, nei romanzi salvifici di Stephen King.
   Dice Claudio Bonichi che quei fondi sono il suo autoritratto, e gli oggetti in primo piano nello spazio, spesso minuscoli, sono i suoi trucchi, giochi, le sue maschere - poetiche e meravigliose contingenze. Non li chiamerei “nature morte” - per quanto con la morte e l’oblìo dialoghino intensamente al modo di un Luciano di Samosata (i suoi Dialoghi coi morti); ma “nudi” di pere, nudi di cocomeri o d’uva, nudi di cenere e foglie d’autunno, nudi di rosa (le strazianti rose recise in un bicchiere), oggetti deperibili quanto i bellissimi corpi di donna, con o senza maschera,di altre sue tele. Tutto muore, ma tutto ciò che è dipinto è salvato.
   Immaginate lo spazio mitico, costruito dalla sapienza delle luci, del set di un fotografo pubblicitario. Claudio Bonichi usa solo disegno e pittura, e nel vuoto luminoso preferisce immortalare una mela marcia che una collana di Cartier. Il grande critico Maurizio Fagiolo dell’Arco osservò che i fondi delle sue tele, che enfatizzano, isolano e quasi inghiottono l’oggetto in primo piano, sono un caso unico nella storia della pittura. La verità è che Bonichi è pittore di fantasmi, spettri nel senso più puro, revenants che tornano senza essere mai stati presenti, ci visitano da un altrove come clandestini. Infine, ultimo tratto di questa breve pagina, il ricordo delle nostre conversazioni politiche, l’orrore che ci ispira da anni la realtà, la sua confessione di visualizzare i personaggi del regime pubblicitario in Italia come esseri mostruosi dalla cui bocca fuoriescono immondi scarafaggi. Le sue tele, la loro bellezza, quei fondi dipinti colmi di luce trattenuta, terre promesse e imperturbabili, madreperlacee, sono una delle critiche più vigorose e sovversive che si possano rivolgere alla nostra realtà indecente.
Claudio Bonichi, olio su tela, 2010

(articolo scritto per l'Unità di mercoledì 2 marzo 2011)