2/26/2011

La pazienza del mandorlo

Il comico televisivo inglese Charlie Brooker, nel suo programma 10 O’Clock Live, massacra umanamente e politicamente, con molta efficacia, il nostro primo ministro. Vi consiglio di guardarlo, non è un problema trovarlo on line. Ma vi avverto: oltre che ridere soffrirete un po’: parla di noi. Non abbiamo l’alibi del colpo di stato né della coercizione fisica, ed è stato eletto (come l’ex pittore fallito Hitler fu eletto nel 1933), e rieletto da quegli Italiani ignavi che ora sono in crisi non perché il premier sia colluso con la mafia, né per le sue leggi liberticide o a favore di pochi come lui, non perché usi il tempo e le risorse dello Stato per fare solo gli affari suoi, né per un ripensamento etico: ma perché la sua immagine di maschio vincente che può comprare tutto, anche le minorenni, è andata in crisi: alle sue spalle, infatti, quelle ragazze ingrate e carine hanno detto che ha “il culo flaccido”, lo disprezzano quasi quanto lo disprezziamo noi, e non può farci niente. Con Mussolini non sarebbe accaduto: una crepa vistosa nella regia. Il fatto è che tutto di lui, nessun dettaglio escluso, era già banditesco e cialtrone dal 1993 (Brooker ironizza sul grido da stadio con cui battezzò il suo partito). I suoi amici e colleghi, da Ben Ali a Gheddafi, sono finiti, e anche lui cadrà malamente, anche se siamo tutti troppo ricchi per fare come in Libia o in Egitto. E' durato quello che ci siamo meritati che durasse. Ma che ne sappiamo noi del tempo? Mi viene in mente il Libro di Giobbe: cosa ne sappiamo noi del creato, delle sorgenti del mare, del seno da cui è uscito il ghiaccio o la brina, di come partoriscono le cerve e di come si gioga il bufalo? Sono alcune buone domande che Dio pone a Giobbe per dargli una calmata. Una cosa la so: tutto è in movimento, i regimi cadono o sono già caduti, e il mandorlo di fronte alle mie finestre è in fiore.
(rubrica domenicale "acchiappafantasmi", l'Unità del 27.2.2011)

2/19/2011

Il regime della stupidità

   Che il berlusconismo (regime politico e semiologico fondato sulla pubblicità, quindi sul denaro, il potere, l’egoismo, il successo, il glamour, la prostituzione e la stupidità rivendicate come valore) non sia solo, come dice il Financial Times schifato, una specie di dittatura nordafricana, ma una categoria dello spirito che colonizza la mente anche di chi si crede lontano, lo dicono i criteri di spettacolarizzazione e promozione culturale in vigore anche a sinistra: dalle liste elettorali modello Veltroni (Calearo lo scelse lui; ma voleva anche Veronica Lario) alla scelta e promozione dei libri.

   Ho tentato di leggere un “romanzo” edito dalla gloriosa Transeuropa col titolo Seventy Sex (parla ovviamente di sesso e anni ‘70), scritto da una donna che si firma con lo pseudonimo di Janis Joyce. L’editore e l’autrice hanno inventato un concorso per scoprirne l’identità tramite indizi leggibili fotografando col cellulare un codice stampato in copertina. E fin qui si capisce che il target pubblicitario sono giovani tecnologizzati, che però dovrebbero anche conoscere (Janis) Joplin e James (Joyce), anche se il “romanzo” non ha nulla delle sperimentazioni linguistiche e narrative dell’autore di Ulisse, né tanto meno della grazia e del generoso erotismo della cantante di Just a little bit harder. Il peggio sono gli indizi (10 frasi) che l’autrice dà su di sé: “Ho sposato l’amante della moglie dello zio di Carla Bruni”. “Sono la cugina dell’ex marito della cugina di Alain Elkann”. “Il mio primo marito ha passato una lunga notte di Natale con quella che sarebbe diventata la prima moglie di Sarkozy”... Ecco, mi fermo qui, come mi sono fermato a leggere il piatto, anestetico elenco di masturbazioni e scopate, quasi che il sesso lo avesse inventato lei. Quanto all’identità dell’autrice, non ho dubbi che l’abbiate capita anche voi: ma non la diciamo perché, temo, si offenderebbe. Altrimenti, rileggete qui in alto.

(rubrica "acchiappafantasmi" de l'Unità di domenica 20 febbraio 2011)

2/18/2011

La satira annientata dalla realtà

   Ci siamo rimpinzati di satira, trasformando per anni la nostra indignazione in parole sempre più raffinate e irriverenti. Biografi dell’inaccettabile, ci siamo dimenticati che i dittatori non vengono scalfiti dalla nostra sapienza retorica. In tv e su Internet, la dose di satira quotidiana ci ha dato quel tanto di immunità dall’imbarbarimento, ma era un buon alibi per il potere in carica, e rischio per noi di assuefazione. Confesso il mio disagio vedendo l’ultimo film di Antonio Albanese, Qualunquemente. La barbarie ostentata del personaggio, la noncuranza dei crimini contro l’ambiente, dopo le intercettazioni del clan Bertolaso in Campania e anni di governo che ha legittimato nefandezze a 360 gradi, dà un effetto di saturazione insopportabile, nonostante la grande maestria di Albanese. Non è lo specchio deformante della realtà, semmai sarebbe la realtà a essere specchio deformante della satira, se da tempo non la fagocitasse facendo dell’intollerabile spettacolo e dei soprusi moda trandy. Il rovesciamento dei valori in crimini, che nel film è sistematico quando Cetto Laqualunque scende in campagna elettorale, è una storia che riconosciamo: dura da tre lustri. La satira ci illumina? No, ci abitua un po’ di più a convivere col napalm della devastazione.

   Reperto Rai/Ot, spettacolo di Sabina Guzzanti, narrava la Resistenza contro una dittatura mediatica: una distesa di lapidi sul palco evocava la “strage di parole” di questi anni - giustizia, verità, sogno e troppe altre – finché “ne rimasero solo due: pizza e bancomat” (oggi aggiungeremmo “escort”). Sono passati anni, ma era già allora tardiva la denuncia del nuovo fascismo pubblicitario che attualizzava George Orwell e la neo-lingua di 1984. Senza una vera opposizione, anche linguistica, la satira ha preso il posto della politica, restando sola nel dire la verità. Sembrava “poco satirica”, perché descriveva in modo lineare cose e fatti: non caricatura, ma denudamento della realtà dalle sue barocche menzogne. Per la destra era diffamazione, per la sinistra cose risapute ma taciute dai politici. La Guzzanti è passata al cinema di inchiesta, e oggi la satira, pur pregevole, appare come un fattore di assuefazione alla nostra miserabile condizione: quell’impotenza, o palude comunicativa, che sperimentiamo tra indignazione e sarcasmo quando parliamo di politica con gli amici. Lo spiegò Luttazzi, con la sua enunciazione feroce: il bunga-bunga è ciò che Berlusconi fa da 15 anni all’Italia, e soprattutto alla sinistra. Hai voglia a riderne.

("Zona critica", su Venerdì di Repubblica del 18/2/2011)

2/12/2011

Oltre il giardino

   Il poeta Carlo Bordini mi manda un suo testo lapidario che conoscevo già: Il Giudice deve andare in galera / disse il Ladro. Subito pensi a quelli che si riuniscono a Milano al Teatro del Verme (mai nome è suonato più appropriato) a protestare “in mutande” contro i magistrati a difesa dell’impunità del Capo. Profetico, ho detto naturalmente all’amico poeta. Come il finale del Caimano di cui oggi si parla, quasi cronaca in presa diretta. Ma riusciremo finalmente a parlare d’altro? Confesso: la non ultima ragione del mio odio (sì, è la parola giusta) per la pur tragica parodia da Banda Bassotti di 1984 di Orwell che è il berlusconismo, che da 15 anni ci distoglie da altri pensieri, è proprio l’impossibilità di curarmi di altri pensieri. Alla fine tutto rimanda a questo schifo di realtà quotidiana che la storia di Cetto Laqualunque illustra come documentario senza far ridere, anzi dandoci l’ansia. Se non sono stato testimone diretto di chi fregandosene dei boschi butta la sigaretta accesa dando poi le spalle all’incendio che divampa, è pur vero che nella città in cui vivo, quando si esce di casa, è quasi impossibile uscire dai marciapiedi perché le automobili stazionano abusive e impunite su strisce pedonali e spazi invalidi, e chi ha un neonato in carrozzina o un genitore invalido sulla stessa accetta la sconfitta e risale in casa. Ma chi si rassegna è complice, come per le migliaia di buche sulle strade, trappole mortali ai motorini, o i rifiuti che svolazzano e rotolano non dentro, ma nei pressi dei cassonetti. Piccoli berlusconi crescono, ignavi e ignari che l’incurante arroganza, l’ego maniaco insofferente a ogni regola o spazio pubblico, l’ossessione del proprio, del particolare, renderà di merda anche una vita agiata, se ristretta agli orizzonti del proprio zerbino, se lascia che vada in malora tutto il resto là, fuori dalla finestra, od oltre il giardino e il cancello di Arcore.

(rubrica domenicale "acchiappafantasmi", per l'Unità del 13/2/2011

2/11/2011

Ritorno alla vita nuda (dei Rom)

   Alcuni anni fa avevo fatto uno dei primi reportage (per il domenicale di "la Repubblica") sui cosiddetti campi nomadi a Roma, visitando il cosiddetto Casilino 900, poi sgomberato malamente. Si intitolava "La vita nuda dei Rom", ed è stato poi inserito nel mio libro Oggetti smarriti e altre apparizioni.
   Ieri, in una giornata anche troppo intensa (al pomeriggio dovevo fare e ho fatto una conferenza-reading sulla poesia in un liceo di Ostia) ho visitato, su invito della redazione romana di "la Repubblica", una baraccapoli nel quartiere della Magliana, e quello che segue ne è il breve reportage. Segnalo anche che, dopo il funerale dei bambini morti bruciati, ieri sera in Campidoglio si è svolta una fiaccolata di protesta promossa dai Rom e da altre associazioni contro la politica degli sgomberi e della deportazioni - delle esclusioni - portata avanti dal comune di Roma.
Ed ecco il testo che esce oggi su la Repubblica (pagine di Roma)
   La prima cosa che ci colpisce è il pudore.
   Poiché al mattino gli uomini sono tutti al lavoro, a venirci incontro è stato un nugolo di bambini, sorvegliati a vista e seguiti dalle madri, dai tre ai tredici anni. Sono curiosi e vivaci, e al tempo stesso protettivi. Tra tutti spicca Dario Valentino, undici anni: “Venite stasera, quando torna mio padre e gli altri uomini”, ci ripete serio. Ci proibisce (ci prega di non farlo) di fotografare le case e le persone, cioè loro stessi. Colpisce la sua dignità, il volto serio nello sforzo di assumersi la responsabilità del campo. E’ anche perfettamente consapevole del bello e del brutto. “Tutta questa zozzeria” – dice indicando una distesa di terra piena di detriti, e le carcasse arrugginite e bruciate di automobili, “non è nostra, l’abbiamo trovata qui”. Ci dice il via vai di questi giorni di fotografi, che non hanno chiesto il permesso di fare fotografie a case e persone, come se fossero gabbie di uno zoo: “sono venuti a fotografare tutto e poi sono scappati”.
   Ci presentiamo. Siamo in un agglomerato di baracche nel quartiere della Magliana, racchiuse da canneti e pezzi di campagna sopravvissuta, chiusa da un lato dai palazzi che ospitano la Fao. Il sentiero che vi conduce da via Morselli è costellato di pneumatici e tracce di sgomberi recenti. Anche qui, un anno fa, un altro bambino morì bruciato per l’imperizia e la miseria, non questa volta dal riscaldamento, ma dalle candele. Sono rimaste famiglie bosniache di Sarajevo, da cui imparo che le tragedie della miseria accadono a quei Rom che non hanno la sapienza pratica di altri, l’arte del sopravvivere. Nuovi poveri, per così dire. Con me e Francesca, fotografa, c'è Alessandro, un giovane antropologo che lavora con Arci Solidarietà nel vicino campo rom “regolare” di Via Candoni: concepito per ospitare trecento persone, ne vivono più di mille, stipate dentro container di 18 metri quadrati. Alessandro aiuta le famiglie Rom a sbrigare le pratiche sanitarie, scolastiche e sociali in genere. I bambini e le madri di questa baraccopoli di irregolari lo conoscono di vista, e si fidano poco alla volta di noi. Il fatto è che ci sentiamo in colpa a essere qui anche noi solo dopo l'ennesima tragedia che ha fatto notizia e suscitato clamore, a far visita e fotografare delle condizioni di vita, di vita nuda, come se le scoprissimo sempre per la prima volta, dimenticando che le abbiamo create noi, la nostra politica, e solo in seguito attribuite a “loro”. Non solo il triste concetto di “campo”, mi spiega il giovane antropologo volontario, persona informata dei fatti, è un'invenzione nostra, frutto di una logica di esclusione; ma anche all'estremo opposto la lirica adesione a un loro presunto e folkloristico stile di vita, a una loro presunta esigenza di separatezza.
   Ci colpisce la serenità di questo scorcio di vita quotidiano di donne e bambini, e la tranquilla dignità delle donne e madri. “Ci portano di qui e di là come se fossimo giocattoli”, dice una donna. Da uno sgombero all’altro, da una deportazione all'altra, la loro precarietà è una condanna, non una scelta. “Io vivo qui con mio padre, sono arrivata in Italia quando avevo 11 anni – mi dice un’altra che si definisce single, gonna verde con disegni fantasiosi, collana di perline, pendenti e un bracciale di corallo - vorrei lavorare, sono brava a fare le pulizie” – dice mostrandomi la baracca ordinata e accogliente sulla terra nuda e spazzolata: un letto, un fornelletto, un tavolino, due quadretti di “Roma sparita” appesi alle pareti fragili di legno, e un terzo che è un ritratto di padre Pio. Ma non sa leggere né scrivere, in nessuna lingua. Poi si siede all'aperto, in postura perfettamente eretta toglie il rame scorticando le guaine dei cavi elettrici e lo mette da parte. Sanno, a differenza di altri Rom, che non bisogna bruciare il rame per non respirarne la diossina che sprigiona.
   Tutte le baracche sono di legno, nessun uso di materiali nocivi, e dalle tettoie pendono le plastiche azzurre della Posta Italiana, con la scritta in bianco. In una, l’unica con l’impiantito pure di legno, tra i letti, i tappeti e le coperte dai colori festosi e sgargianti noto vicino alla porta una stufa circolare di metallo, saldature perfette, ma soprattutto una forma che sembra il frutto di un designer di grido. “L’ha fatta mio marito”, dice la donna con orgoglio seguendo il mio sguardo. “Questa è sicura”. E’ una stufa a legna, davvero bella da guardare.
   Dario Valentino, il ragazzo undicenne (che scopriamo essere il figlio del falegname e fabbro delle stufe), mentre attorniato dagli altri bambini costruisce con assi di legno, chiodi e un martello una piccola casetta per giocare, pone delle domande ad Alessandro come un grande, sul loro destino, se li sposteranno a via Candoni, che cosa siano le fantomatiche “case popolari”, e chi ci può andare. Non è facile spiegare a bambini dagli occhi sgranati, che aspirerebbero ad avere una casa normale, cosa siano e chi abbia diritto alle case popolari, e perché. Intanto si sono avvicinate ad ascoltare alcune donne. Quando nominiamo il famigerato Cei (Centro di Identificazione e Espulsione), campo che rinchiude tra filo spinato soprattutto coloro accusati del reato di clandestinità, la madre di Dario Valentino, che sembrava disinteressata ai nostri discorsi, si affaccia dalla sua baracca per esclamare, seria: “Là non ci voglio andare neanche morta”. Tutti qui hanno un regolare permesso di soggiorno, tutti vorrebbero che i loro figli andassero a scuola, vorrebbero una normale assistenza sanitaria, tutto ciò che per noi è così normale che ci dimentichiamo di averlo. Ignoro quali siano i criteri per l’attribuzione, ma una cosa è certa: i nomadi, come li chiamiamo, non sono nomadi, la loro origine è spesso contadina, e il lavoro degli uomini si relaziona con la realtà della metropoli, non in un mondo separato.
   “Questa potete fotografarla”, ci propongono fieri dopo avere finito la loro capanna di legno. Adesso i bambini, quelli più piccoli a piedi nudi, sono contenti di mostrarci quante più cose e possibili, felici della nostra attenzione. Fotografiamo Lisa, il boxer femmina, Bambi, una pecora che zampetta intorno, animale di compagnia, compagno di giochi dei bimbi. Siamo incantati dalla loro creatività e dalla gentilezza di questi bambini. La piccola Samantha, una biondina sempre sorridente, corre e grida di gioia quando diciamo che torneremo a portarle dei vestiti. “Anche delle scarpine”, ci dice da lontano.

2/05/2011

Su una foto di Charles e Jane (Bukowski e l'eros senza potere)

   Fu forse Ludovico Ariosto nell'Orlando furioso a inventare l’immagine del pallone gonfiato. Quando Astolfo va sulla Luna per recuperare il senno di Orlando, tra i “vani disegni” e i “vani desideri” dei mortali gli capita di calpestare “un monte di tumide vesiche”, ovvero vesciche gonfie d’aria che risuonano di fioche grida e tumulti, e altro non sono che ciò che resta delle “corone antiche”, i potenti regni del passato, “che già furo incliti, et or n’è quasi il nome oscuro”. Ma i potenti, che hanno la cecità di affidarsi unicamente al presente, gonfiarlo e gonfiarsi come palloncini, mostrano già sempre nel proprio squallore presente il loro futuro flaccido e grinzoso: “che schifo”, ha detto una ragazza che lo conosce da vicino del potente di Arcore, “da vomitare”.

   Una mia amica ha postato su Facebook una fotografia bellissima, assurdamente censurata dai gestori del social network (è stata per questo addirittura "bannata”). Raffigura lo scrittore Charles Bukowski e la sua amica Jane nella cucina povera di lui, portacenere ingombro sul tavolino, bottiglie e disordine di oggetti, sulla parete una tappezzeria floreale stinta, e un fantasma di Monna Lisa (un calendario?). Lo scrittore è seduto su una sedia, barba e capelli spettinati, lei in piedi al suo fianco, allegra e completamente nuda. Col braccio sinistro lui le cinge i fianchi, colla mano destra le accarezza delicatamente il sesso, mentre lei divarica e solleva l’altra gamba per dargli più spazio. La fica all’aria, il volto felice e sorridente, e quello assorto e deliziato di lui. Non è tanto che lui sembri suonare l’arpa toccando il corpo di lei, non è solo il perfetto equilibrio formale della foto in bianco e nero a dare la bellezza. E’ la portata liberatoria, in tutti i sensi, di corpo e anima nell’intimità e gioia condivise, e soprattutto la totale assenza di potere e di manipolazione nel loro scorcio di rapporto, una nudità antecedente e più profonda di quella dei corpi. E anche, se volete, l’allegria di essere poveri, e che l’amore e il sesso, come scrisse qualcuno, sono la consolazione dei poveri, non dei ricchi e potenti.

(testo della rubrica domenicale "acchiappafantasmi" su l'Unità del 5 febbraio 2011)
Ed ora ecco la foto, salvata:
Ce ne sono altre di questa serie, ma forse non altrettanto belle. L'amica che ha postato questa immagine su Facebook (in una pagina privata, si noti) voleva, riuscendoci, suscitare una discussione semiologica (e anche psicologica e politica). Tutto è stato cancellato (anche la mia condivisione sulla mia pagina "pubblica") da un network che legittima spesso immagini e iniziative politicamente e antropologicamente intollerabili. La nudità non commerciale, invece no. L'amica si chiama Serena Galié, e nei suoi commenti scriveva di avere trovato la foto conturbante, e di non vedere perché non dovesse conturbare; scriveva anche sul fatto che, essendo di Bukowski, già all'epoca noto, la foto ha un contesto di narrazione che già la esclude dalla pura pulsione pornografica. Diceva infine (tutto questo è ricostruito a memoria) qualcosa sul fatto che nel "paradigma di Arcore" non ci sarebbe il piacere della donna, ma l'esibizione del potere fisico/economico quindi ridotto all'impotenza (non era esattamente così, ma erano dei botta e risposta). Io avevo notato proprio questa antinomia a proposito del "potere", tra questa foto e l'innominabile di cui oggi tanto parliamo. Siamo per un'etica pubblica, certo, e anche privata, ma non per questo dimentichiamo la pulsione di "vita contro la morte" (è un titolo anni '60) e ridiventiamo repressi e bacchettoni. L'idea è di riportare qui gli interessanti commenti salvati dalla discussione su Facebook, cui altri se ne aggiungeranno. Un saluto, b.s.