http://www.unita.it/commenti/beppesebaste/il-vero-scrittore-fantasma-1.295811?listID=1.58442&pos=0
Lo riporto qui: (mia rubrica "acchiappantasmi" su l'Unità di oggi, domenica 22 maggio)
Il vero scrittore fantasma
Suggerisco di vedere (su You Tube) il video realizzato dagli studenti di Polimediaweb al Salone del libro di Torino. Un giovane con gli occhiali, Manuele Madalon (ricercatore del Politecnico) si finge l'autore del romanzo "L'implosione" e va in giro con le telecamere a ringraziare volti famosi, scrittori e persone di spettacolo, per avere risposto all'invio del suo libro, e chiedendo loro un giudizio più specifico. Il libro, ripeto, non esiste, ma nessuna di queste persone casca dalle nuvole - da Sgarbi alla Dandini, dal giornalista Guzzanti alla collega Annunziata, ma anche gli scrittori Faletti, De Cataldo, Mazzantini, Moccia ecc. – ognuno tiene la parte, conferma il giudizio positivo, dà consigli, e tutto questo non per ironia, ma per un irretimento, un dover essere conferito dal proprio ruolo che diventa complicità col nulla. Nessuno ha la sincerità di rispondere: «non so di cosa parli». Nel video segue una conferenza stampa su questo esperimento che vale come un trattato di sociologia della cultura. Vi partecipa lo scrittore (vero e lucido) Andrea Bajani, che spiega come le case editrici sistematicamente costruiscano dei «Madalon», falsi scrittori, o scrittori di plastica, frutto di un consenso iperreale. La «madalonizzazione» è un fenomeno che esiste anche cogli scrittori «veri», in cui conta più la pubblicità sul libro che non il libro (Bajani cita le fascette firmate da nomi prestigiosi e che magari hanno letto solo due pagine del libro pubblicizzato). Fingere di sapere, e contemporaneamente non avere interesse a conoscere, concorrere alla creazione di una realtà che non è né vera né falsa, ma che semplicemente non esiste, eppure sussiste... È lo scenario disegnato in anni passati dal narratore Philip K. Dick e dal sociologo Jean Baudrillard. È la chiave del potere e della politica degli ultimi anni, e di cui il berlusconismo è solo un aspetto.
5/22/2011
5/20/2011
Freud in panchina
Simile a un’avenue parigina – i pedoni e gli alberi al centro, le automobili nelle corsie laterali – via Lisbona si stende tranquilla tra via Lima e via Panama, nel quartiere Parioli. A dare un’ulteriore nota di fiabesco è l’ambasciata della Finlandia. La geografia di questa toponomastica si arricchisce ora di una nuova titolazione, non in onore a un Paese ma al fondatore di un’altro tipo di esplorazione, e quindi di geografia: il padre della psicanalisi. Un “Giardino Sigmund Freud” sarà inaugurato venerdì in questa strada, a pochi passi dalla sede ormai storica della Società Psicanalitica Italiana di via Panama 48.
Non è solo il riconoscimento a un maestro del Novecento che ha influenzato per sempre la conoscenza e percezione della psiche, e dunque del senso della vita; ma l’omaggio che Roma ricambia a un suo grande estimatore: Freud amava molto Roma, e i suoi scritti abbondano di riferimenti, non solo sui suoi frequenti soggiorni ma anche come metafora archeologica e urbana del metodo della psicanalisi (ne Il disagio della civiltà paragona gli scavi per riportare alla luce le fondamenta di Roma a quello nella memoria per riconquistare un territorio dell’inconscio), e come sogno ricorrente testimoniato ne L’interpretazione dei sogni: “Sono diventato un appassionato pellegrino di Roma”, aggiunge in una nota dell’edizione del 1925. Sulla scia di Goethe e dei viaggiatori tedeschi dell’Ottocento, Freud soggiornò a Roma spesso, dal 1901 al 1923. Veniva in settembre, dapprima all’Hotel Milano, su Piazza Montecitorio, più tardi all’Eden in via Ludovisi, con vista su Villa Malta. Vide - disse - in Vaticano la famosa "Gradiva" dell’omonimo racconto di Wilhelm Jensen, che lui analizzò in un saggio del 1906, e decise di scrivere sul Mosè di Michelangelo, da cui era ossessionato e che visitava ogni giorno a San Pietro in Vincoli. Fu a Roma che nel 1913 terminò l’introduzione a Totem e tabù e scrisse la prima bozza del saggio sul narcisismo, e dove nel 1907 confessò in una lettera: “peccato non si possa vivere sempre qui”. Le sue lettere raccontano passeggiate di turista tra musei e rovine, ma anche pranzi al ristorante “Rosetta”, una serata al Quirino ad ascoltare la Carmen, lo spettacolo delle celebrazioni nel 1912 per la presa di Roma, che vide appollaiato sul nuovo monumento a Vittorio Emanuele II. Ma già prima di arrivarvi la prima volta, Freud visitò Roma nei sogni, e quindi negli scritti che analizzano “il desiderio di arrivare a Roma”: Roma come simbolo del contrasto tra ebraismo e cattolicesimo, come umiliazione paterna da riscattare, come viaggio di emancipazione erotica, come metafora, abbiamo visto, della psicanalisi. Roma come luogo “materno” in cui convivono l’arte, la natura, il piacere sensuale del vivere.
Per chi conosce Freud, dedicargli un giardino è tutt’altro che casuale o arbitrario. Amava descrivere e classificare piante e fiori, e prediligeva le gardenie. Il "Giardino Freud" è un corridoio ombroso e tranquillo di circa 200 metri, pochi e ovattati i rumori (predominano i cinguettii dei passeri), con una dozzina di panchine verdi di legno su cui, oltre il sottoscritto, c’è un anziano che si gode il sole e due turiste giapponesi che fanno ginnastica. Poche anche le persone che passeggiano nella tarda mattinata: una signora col cane, una colf che attraversa il giardino per portare l’immondizia nei cassonetti. Si sta bene, e seduto su una panchina penso che anche questo ozio contemplativo, questa interruzione della fretta, del dover essere e del fare, non è senza parentele col “set” psicanalitico: il paziente sul lettino, e perché no su una panchina.
In una lettera alla moglie Martha del 1900 Freud accostò nello stesso elenco di desideri di ciò che avrebbe voluto trovare nell’agognato viaggio a Roma “i fichi, i castani, l’alloro e i cipressi, le case con balconi, gli antiquari”, lista in cui convivono natura e passione del collezionismo, antichità e beatitudine quotidiana. E’ stato esaudito: il giardino di via Lisbona annovera tra le sue piante anche l’alloro, e due giovanissimi cipressi piantati dai residenti, insieme ad aceri, robinie, lecci, un nespolo e un giovane tiglio, e numerosi grossi cespugli fioriti di “petto d’angelo” (Philadeplhus), che spargono per terra i loro teneri e bianchi petali (stavo per scrivere capezzoli; i lapsus, almeno qui e oggi, sono contemplati).
(scritto per la Repubblica, 20 maggio 2011)
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5/15/2011
Elogio della leggerezza (e della non mente)
Giorni di viaggio, incontri e letture pubbliche, vita intensa e operosa, e di nuovo in treno, nell’ora del pomeriggio in cui il mondo brilla dietro il vetro che è una bellezza, e devo ancora scrivere la rubrica. Lo scrittore Peter Bichsel, maestro di elzeviri sui giornali, spesso prende il treno per avere un posto dove scrivere e trovare ispirazione, io però non trovo niente, solo l’idea che il mondo è troppo vasto e bello per poterlo descrivere. Mi ero posto un obiettivo: non scrivere pensieri già pensati, non rimasticare con la mente idee e frasi, soprattutto politiche. Non è facile: vuol dire ignorare le elezioni di oggi, il cancro della democrazia da cui siamo governati e che occorre asportare, lo stato di conflitto permanente in cui da anni nuotiamo come in un lago di marmellata; congedarsi dalla pesantezza ossessiva di cui sono specchio i giornali, simili a bollettini di guerra, e perfino in guerra tra loro su chi urla più forte. Eppure il mondo è così vasto, penso guardandolo dal finestrino: perché solo su le Monde, per dirne una, imparo la cultura delle renne in Finlandia, o la biografia del grande maestro spirituale da poco deceduto in India, spiragli di mondo che allargano gli orizzonti, del tutto reali ma che a confronto delle nostre ossessioni paiono fiabeschi? Il mondo riflesso dai nostri giornali sembra un cimitero di automobili su cui la ruggine da subito copre le tragiche ferite. Perché questa metafora mi fa pensare a Italo Calvino? Rimugino: si può essere pensosi restando leggeri, insegnava nelle sue Lezioni americane, apologia della leggerezza. La cerco sul portatile, ed ecco la frase: “la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca”; “quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite”.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 15 maggio 2011)
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5/11/2011
Gita in dirigibile ("a spasso per l'azzurrità")
L'ombra del dirigibile (mercoledì mattina) sulla moschea. Fotografia di Mimmo Frassineti
Gita in dirigibile sul cielo di Roma ("a spasso per l'azzurrità" come un palloncino)
Gita in dirigibile sul cielo di Roma ("a spasso per l'azzurrità" come un palloncino)
Mentre mi dirigo all’Aeroporto dell’Urbe per fare un volo col dirigibile Goodyear, ormeggiato lì per un giorno, chissà perché mi viene in mente Franz Kafka e la sua cronaca dello spettacolo aeronautico che vide proprio un secolo fa (1909) nel cielo di Brescia: c’erano Giacomo Puccini e il vate D’Annunzio, che naturalmente declamò una poesia su Icaro al pubblico. Forse perché il dirigibile è in fondo un pallone gonfiato (di elio), e l’epica dei palloncini è imparentata dalla nascita con le avanguardie artistiche e letterarie, Duchamp compreso. E forse perché c’è qualcosa di irresistibilmente ludico nello spettacolo di un dirigibile, fin dai fratelli Montgolfier: chi non si è mai incantato a guardare, col famoso naso all’in su, la grande forma allungata Goodyear, che sembra fatta per essere vista, e che si sposta elegantemente nel cielo come un cigno seduto sull’aria? Piuttosto, si fa fatica ad immaginare che ci sia qualcuno lassù a guardare noi in basso. Ecco, io sarò tra breve una di quelle poche, invisibili persone (3 passeggeri più il pilota) sedute in una cabina di poco più di 2 metri, abbarbicata al pallone lungo 40 come una cozza a uno scoglio.
Prima di salire, il nome di questo aerostato che da decenni sorvola l’Italia nel suo Safety Tour – “Spirit of Safety” – mi ricorda che oggi (ieri per chi legge) è il giorno in cui a Roma era stato fissato il più terribilmente mondano degli eventi: un terremoto. Sorrido all’idea che la casualità del destino mi abbia regalato un momento aereo di immunità. La giornata è splendida, l’aria tersa, e una volta a bordo – lasciate le funi che uomini vestiti di scuro tendevano per trattenere il pallone come una balena insabbiata sul campo d’erba - il dirigibile prende quota e in pochi secondi sono “a spasso per l’azzurrità”, come cantava Renato Rascel in “Dove vanno a finire i palloncini”.
Sorvoliamo i tanti campi sportivi a ridosso della Salaria (che sembra una pista per automobiline), le morbide anse del Tevere, che dall’alto pare un canaletto in un plastico. Va veloce, il dirigibile. Per un attimo mi tolgo le cuffie di comunicazione e resto ipnotizzato dal rumore del vento. Voliamo perché siamo più leggeri dell’aria, mi dico riassumendo il miracolo fisico che ci tiene su. Poi, la fronte incollata al vetro, la terra che vedo giù, a picco, così lontana, e il vuoto da cui mi separa la parete sottile della cabina, mi fanno improvvisamente paura. Il fotografo che è con me sporge giustamente dal finestrino la macchina fotografica, e se c’è una vertigine che io provo è proprio quella degli oggetti che, incuranti, si affacciano sul vuoto... Per distrarmi mi guardo i piedi per un attimo, e quando li riapro già stiamo oltrepassando il parallelepipedo della Farnesina, lo stadio olimpico, i grandi petali o foglie che costituiscono l’Auditorium, e sono incantato dalla quantità di alberi che fanno di Roma una delle città più verdi d’Europa. E anche da una strana impressione: che quel disordine spesso insopportabile in cui ci appare Roma quando siamo per strada, dall’alto miracolosamente si ricomponga in un ordine dove tutto sembra al suo posto - le vie oblique, i palazzi di sbieco, i tanti spigoli architettonici, il traffico.
Prendo confidenza con la volatilità e l’altezza: sorvoliamo il centro, vedo San Pietro che sembra fatto col Lego, il Panteon e la sua cupola che assomigliano a una pentola marocchina di terracotta col coperchio; Palazzo Chigi e Montecitorio con sul tetto una pista d’atterraggio per elicotteri, il Foro romano che sembra un tappeto di giochi lasciati lì dai bambini, la macchina da scrivere di Piazza Venezia, i ponti percorsi da automobili lente, le piazze; dall’altra parte, la lunga distesa di binari dietro la Stazione Termini che sembrano piste per biglie, la corona a forma d’ellisse del Colosseo cui affluiscono lunghe file di formiche-persone. Vista dall’azzurrità, la città è una distesa bianca e ocra come da nessun aereo è possibile vedere. E dove tutto in fondo risulta equivalente: l’altezza è una “livella”, direbbe Totò, che azzera le gerarchie; sia i palazzi del Potere che le magnificenze architettoniche non spiccano nell’insieme se non perché già li conosciamo, perché li riconosciamo. Sono gli spazi vuoti che interrompono il brulichio di palazzi che più consolano la vista: le piazze, i parchi, i Fori, e ancora i verdi campi da calcio e quelli da tennis, e, al ritorno, un circolo d’equitazione coi cavalli che trottano, il rassicurante e indolente corso del Tevere, la campagna.
Il dirigibile scende in picchiata, punta il campo dorato d’erba tagliata dove volteggiano le rondini, e quando la ruota tocca la terra, e accorrono gli uomini vestiti di nero a tirare le funi per immobilizzarlo come un animale preistorico volante, mi accorgo dai loro gesti naturali e primitivi che è questo l’aspetto esteticamente più bello del volo, un’esperienza fisica e percettiva che nessuna astratta visione del mondo con Google Earth può uguagliare. Dall’automobile che mi riporta a casa, a un semaforo scorgo tra i tetti la sagoma del dirigibile. Io ero lassù, sorrido.
(reportage scritto per la Repubblica di giovedì 12 maggio 2011)
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5/07/2011
Il primo incarico (una lezione di stile di Giorgia Cecere e Isabella Ragonese)
Non sono solo un estimatore de Il primo incarico, esordio alla regia di Giorgia Cecere, film già presentato a Venezia e che solo in questi giorni è uscito nelle sale. Provo verso di esso un senso di gratitudine che vorrei spiegare a me stesso. Racconta la storia vera, e per questo tanto più romanzesca, della madre dell'autrice, che nei primi anni ‘50 ottiene il primo incarico di maestra elementare in una zona rurale del Salento, e vive il suo apprendistato di lavoro e solitudine in un’ostile comunità di uomini. Se tecnicamente appartiene al genere narrativo del romanzo di formazione, o educazione sentimentale (omaggio alla determinazione e al coraggio morale delle donne del passato), si trasmuta in realtà nella storia di formazione dello sguardo e dello stile poetico dell’autrice, che porge il suo omaggio alla grande tradizione visiva del nostro cinema. Cinema, ovvero, come ama ripetere Bernardo Bertolucci, “aprire gli occhi”. La maestra protagonista della storia (“maestrina”, nel lessico maschilista di alcuni recensori), resa ancora più nitida dalla bravissima Isabella Ragonese, scopre l’antica verità che insegnando si impara, e che la posta di ogni insegnamento è diventare ciò che si è. La regista Giorgia Cecere, già sceneggiatrice di Amelio e di Winspeare, impara e ci insegna che la bellezza del film, così raro nell’attuale panorama italiano, è nel linguaggio che coniuga intensità ed evidenza fino a renderli sinonimi; uno stile che possiamo anche dire “femminile”, affiancato dalla delicatezza “orientale” del co-sceneggiatore, il suo ex compagno del Centro Sperimentale Yang Li Xiang, cineasta e pittore cinese. Il film è un’esperienza dei sensi, e la sua percezione quasi pittorica della realtà – la campagna, la natura, la luce, i corpi, i colori – è una lezione anche etica: non serve tanto denaro, dice Giorgia Cecere, “i colori sono la cosa che costa di meno”.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 8 maggio 2001)
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5/06/2011
"Quando ancora sapevamo aspettare" (per Peter Bichsel)
In un mondo più sano, anche gli orizzonti e i riferimenti letterari sarebbero molto diversi. Muterebbe il valore accordato alle storie e, per esempio, molti degli scrittori stranoti, giovani o anziani che siano, sarebbero ignorati, e viceversa scrittori di cui si sa poco o nulla sarebbero letti da tutti. Come vorrei fosse il caso di Peter Bichsel.
Di lui uscì in Italia negli anni Sessanta da Mondadori una raccolta di fulminanti racconti che facevano pensare a un Robert Walser coi colori della Pop Art, Il lattaio e altri racconti. Si deve a Giorgio Messori, che di Bichsel fu amico e traduttore, l’attenzione per i suoi scritti a partire dalla metà degli anni ‘80: le splendide conferenze su Il lettore. Il narrare (meglio di un corso di scrittura creativa), i racconti di Al mondo ci sono più zie che lettori, Storie per bambini e altri editi da Marcos y Marcos. Notava Giorgio Messori come per Bichsel ogni riflessione fosse naturalmente “racconto”, ed anche in questo consiste la cifra civile e politica della sua scrittura: spiegare tutto con delle storie, pensare in storie, e non in fatti astratti.
Svizzero di lingua tedesca, giovane 75enne residente a Solothurn (Soletta), già amico di Max Frisch e membro del Gruppo di Olten, Bichsel è uno di quegli autori capaci di ridurre la distanza tra la letteratura e i lettori, la cui lingua e sintassi semplici e corrosive ci riconciliano con l’antica arte del narratore - quando le storie, ricordava Benjamin, erano veicolo epico della saggezza. Molte delle storie di Bichsel sono composte per la radio, o in forma di elzeviri che da anni appaiono su giornali come il Tages-Enzeiger di Zurigo, o le riviste Weltwoche e Schweizer Illustrierte. “Storie anacronistiche” (Geschichten zur Falschen Zeit, del “tempo falso”, come titolava una raccolta), ovvero storie controcorrente, fuori moda e fuori luogo, libere e anarchiche. Dà felicità che ora sia tradotta una nuova raccolta di questi indefinibili, esemplari racconti civili col titolo, assolutamente bichseliano, Quando ancora sapevamo aspettare (Comma 22).
Come suo solito l’autore prende spunto da quello che vede e ascolta nel suo bar, dai viaggi in treno, dalle partite di calcio, dai giornali. Pochissimo dalla letteratura. Da un elogio del rumore (sul treno “mi metto in seconda classe che ha un’offerta sonora e vocale più ricca. L’offerta dei ricchi in prima classe è più povera”) passa a quello del divieto del fumo (ché “lo rende di nuovo così bello, vietato, come lo era allora, nel cortile della scuola, quando eravamo ragazzi”), ma su tutto domina il tema dell’attesa, quintessenza dello scrivere e dell’umanità (“Perché aspettiamo? Perché ci mettiamo in corridoio molto prima che il treno si fermi e aspettiamo?”). Il bar è il luogo elettivo, pur se anch’esso in via di estinzione in una società che si svuota di riti, perfino quello di bere la birra dopo il lavoro: “le comunità si sono privatizzate”, “viviamo in ghetti, in ghetti di lusso magari, ma ghetti deritualizzati”. E altrove: “I luoghi pubblici vengono privatizzati. La nuova società dei party non ha più bisogno di luoghi pubblici”.
[Ricordo (questo non appare su l’Unità) un febbraio con la neve alta a Solothurn. Era carnevale, e i nostri amici (nostri di Giorgio Messori e io) erano il comitato del carnevale di Solothurn: i matti del paese, gli anarchici, gli artisti, e uno di essi, per quanto molto più vecchio di noi, era proprio Peter Bichsel. Ricordo una sgargiante processione con trombe, tamburi e altri strumenti, camminammo così sulla neve coi bicchieri di vino rosso in mano fino alla trattoria fumosa; e ricordo che a tavola con Bichsel, Juerg Tanner, il soave amico pittore, e altri, cantammo alcune aria de la Traviata, “... libiamo...” (ma noi giovani italiani erano quelli che la sapevano meno e la cantavano peggio). La Svizzera era un post così, dove la minoranza, i dissidenti, erano persone eccezionali, fuori dal tempo e molto dentro il tempo, e io sono stato educato anche da tutto questo... Per il resto, oltre a Bichsel, se volete davvero un corso di educazione civica e letteraria insieme, un corso di coscienza, leggete Max Frisch, leggete tutto di Max Frisch, a quell’epoca ancora in vita e autorevole (aveva lui settant’anni), lui che è senz'altro tra i maggiori degli scrittori del XX° secolo.]
Di lui uscì in Italia negli anni Sessanta da Mondadori una raccolta di fulminanti racconti che facevano pensare a un Robert Walser coi colori della Pop Art, Il lattaio e altri racconti. Si deve a Giorgio Messori, che di Bichsel fu amico e traduttore, l’attenzione per i suoi scritti a partire dalla metà degli anni ‘80: le splendide conferenze su Il lettore. Il narrare (meglio di un corso di scrittura creativa), i racconti di Al mondo ci sono più zie che lettori, Storie per bambini e altri editi da Marcos y Marcos. Notava Giorgio Messori come per Bichsel ogni riflessione fosse naturalmente “racconto”, ed anche in questo consiste la cifra civile e politica della sua scrittura: spiegare tutto con delle storie, pensare in storie, e non in fatti astratti.
Svizzero di lingua tedesca, giovane 75enne residente a Solothurn (Soletta), già amico di Max Frisch e membro del Gruppo di Olten, Bichsel è uno di quegli autori capaci di ridurre la distanza tra la letteratura e i lettori, la cui lingua e sintassi semplici e corrosive ci riconciliano con l’antica arte del narratore - quando le storie, ricordava Benjamin, erano veicolo epico della saggezza. Molte delle storie di Bichsel sono composte per la radio, o in forma di elzeviri che da anni appaiono su giornali come il Tages-Enzeiger di Zurigo, o le riviste Weltwoche e Schweizer Illustrierte. “Storie anacronistiche” (Geschichten zur Falschen Zeit, del “tempo falso”, come titolava una raccolta), ovvero storie controcorrente, fuori moda e fuori luogo, libere e anarchiche. Dà felicità che ora sia tradotta una nuova raccolta di questi indefinibili, esemplari racconti civili col titolo, assolutamente bichseliano, Quando ancora sapevamo aspettare (Comma 22).
Come suo solito l’autore prende spunto da quello che vede e ascolta nel suo bar, dai viaggi in treno, dalle partite di calcio, dai giornali. Pochissimo dalla letteratura. Da un elogio del rumore (sul treno “mi metto in seconda classe che ha un’offerta sonora e vocale più ricca. L’offerta dei ricchi in prima classe è più povera”) passa a quello del divieto del fumo (ché “lo rende di nuovo così bello, vietato, come lo era allora, nel cortile della scuola, quando eravamo ragazzi”), ma su tutto domina il tema dell’attesa, quintessenza dello scrivere e dell’umanità (“Perché aspettiamo? Perché ci mettiamo in corridoio molto prima che il treno si fermi e aspettiamo?”). Il bar è il luogo elettivo, pur se anch’esso in via di estinzione in una società che si svuota di riti, perfino quello di bere la birra dopo il lavoro: “le comunità si sono privatizzate”, “viviamo in ghetti, in ghetti di lusso magari, ma ghetti deritualizzati”. E altrove: “I luoghi pubblici vengono privatizzati. La nuova società dei party non ha più bisogno di luoghi pubblici”.
(articolo su l'Unità del 7 maggio 2011, inseme a un'anticipazione del libro di Peter Bichsel Quando ancora sapevamo aspettare, in libreria per Comma 22)
P.S.[Ricordo (questo non appare su l’Unità) un febbraio con la neve alta a Solothurn. Era carnevale, e i nostri amici (nostri di Giorgio Messori e io) erano il comitato del carnevale di Solothurn: i matti del paese, gli anarchici, gli artisti, e uno di essi, per quanto molto più vecchio di noi, era proprio Peter Bichsel. Ricordo una sgargiante processione con trombe, tamburi e altri strumenti, camminammo così sulla neve coi bicchieri di vino rosso in mano fino alla trattoria fumosa; e ricordo che a tavola con Bichsel, Juerg Tanner, il soave amico pittore, e altri, cantammo alcune aria de la Traviata, “... libiamo...” (ma noi giovani italiani erano quelli che la sapevano meno e la cantavano peggio). La Svizzera era un post così, dove la minoranza, i dissidenti, erano persone eccezionali, fuori dal tempo e molto dentro il tempo, e io sono stato educato anche da tutto questo... Per il resto, oltre a Bichsel, se volete davvero un corso di educazione civica e letteraria insieme, un corso di coscienza, leggete Max Frisch, leggete tutto di Max Frisch, a quell’epoca ancora in vita e autorevole (aveva lui settant’anni), lui che è senz'altro tra i maggiori degli scrittori del XX° secolo.]
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