5/20/2011

Freud in panchina


   Simile a un’avenue parigina – i pedoni e gli alberi al centro, le automobili nelle corsie laterali – via Lisbona si stende tranquilla tra via Lima e via Panama, nel quartiere Parioli. A dare un’ulteriore nota di fiabesco è l’ambasciata della Finlandia. La geografia di questa toponomastica si arricchisce ora di una nuova titolazione, non in onore a un Paese ma al fondatore di un’altro tipo di esplorazione, e quindi di geografia: il padre della psicanalisi. Un “Giardino Sigmund Freud” sarà inaugurato venerdì in questa strada, a pochi passi dalla sede ormai storica della Società Psicanalitica Italiana di via Panama 48.

Non è solo il riconoscimento a un maestro del Novecento che ha influenzato per sempre la conoscenza e percezione della psiche, e dunque del senso della vita; ma l’omaggio che Roma ricambia a un suo grande estimatore: Freud amava molto Roma, e i suoi scritti abbondano di riferimenti, non solo sui suoi frequenti soggiorni ma anche come metafora archeologica e urbana del metodo della psicanalisi (ne Il disagio della civiltà paragona gli scavi per riportare alla luce le fondamenta di Roma a quello nella memoria per riconquistare un territorio dell’inconscio), e come sogno ricorrente testimoniato ne L’interpretazione dei sogni: “Sono diventato un appassionato pellegrino di Roma”, aggiunge in una nota dell’edizione del 1925. Sulla scia di Goethe e dei viaggiatori tedeschi dell’Ottocento, Freud soggiornò a Roma spesso, dal 1901 al 1923. Veniva in settembre, dapprima all’Hotel Milano, su Piazza Montecitorio, più tardi all’Eden in via Ludovisi, con vista su Villa Malta. Vide - disse - in Vaticano la famosa "Gradiva" dell’omonimo racconto di Wilhelm Jensen, che lui analizzò in un saggio del 1906, e decise di scrivere sul Mosè di Michelangelo, da cui era ossessionato e che visitava ogni giorno a San Pietro in Vincoli. Fu a Roma che nel 1913 terminò l’introduzione a Totem e tabù e scrisse la prima bozza del saggio sul narcisismo, e dove nel 1907 confessò in una lettera: “peccato non si possa vivere sempre qui”. Le sue lettere raccontano passeggiate di turista tra musei e rovine, ma anche pranzi al ristorante “Rosetta”, una serata al Quirino ad ascoltare la Carmen, lo spettacolo delle celebrazioni nel 1912 per la presa di Roma, che vide appollaiato sul nuovo monumento a Vittorio Emanuele II. Ma già prima di arrivarvi la prima volta, Freud visitò Roma nei sogni, e quindi negli scritti che analizzano “il desiderio di arrivare a Roma”: Roma come simbolo del contrasto tra ebraismo e cattolicesimo, come umiliazione paterna da riscattare, come viaggio di emancipazione erotica, come metafora, abbiamo visto, della psicanalisi. Roma come luogo “materno” in cui convivono l’arte, la natura, il piacere sensuale del vivere.
   Per chi conosce Freud, dedicargli un giardino è tutt’altro che casuale o arbitrario. Amava descrivere e classificare piante e fiori, e prediligeva le gardenie. Il "Giardino Freud" è un corridoio ombroso e tranquillo di circa 200 metri, pochi e ovattati i rumori (predominano i cinguettii dei passeri), con una dozzina di panchine verdi di legno su cui, oltre il sottoscritto, c’è un anziano che si gode il sole e due turiste giapponesi che fanno ginnastica. Poche anche le persone che passeggiano nella tarda mattinata: una signora col cane, una colf che attraversa il giardino per portare l’immondizia nei cassonetti. Si sta bene, e seduto su una panchina penso che anche questo ozio contemplativo, questa interruzione della fretta, del dover essere e del fare, non è senza parentele col “set” psicanalitico: il paziente sul lettino, e perché no su una panchina.
   In una lettera alla moglie Martha del 1900 Freud accostò nello stesso elenco di desideri di ciò che avrebbe voluto trovare nell’agognato viaggio a Roma “i fichi, i castani, l’alloro e i cipressi, le case con balconi, gli antiquari”, lista in cui convivono natura e passione del collezionismo, antichità e beatitudine quotidiana. E’ stato esaudito: il giardino di via Lisbona annovera tra le sue piante anche l’alloro, e due giovanissimi cipressi piantati dai residenti, insieme ad aceri, robinie, lecci, un nespolo e un giovane tiglio, e numerosi grossi cespugli fioriti di “petto d’angelo” (Philadeplhus), che spargono per terra i loro teneri e bianchi petali (stavo per scrivere capezzoli; i lapsus, almeno qui e oggi, sono contemplati).
(scritto per la Repubblica, 20 maggio 2011)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Capperi, che bello! Caro Beppe sei sconfinato nel mio territorio, il territorio dei giardini. Ci sei entrato seduto in panchina, vicino a Phyladelphus coronarius, titillato dai suoi capezzoli. Che bel lapsus froidiano! Baci Lucilla

Beppe Sebaste ha detto...

come lo dici bene... grazie lucilla, un sorriso