Non sono solo un estimatore de Il primo incarico, esordio alla regia di Giorgia Cecere, film già presentato a Venezia e che solo in questi giorni è uscito nelle sale. Provo verso di esso un senso di gratitudine che vorrei spiegare a me stesso. Racconta la storia vera, e per questo tanto più romanzesca, della madre dell'autrice, che nei primi anni ‘50 ottiene il primo incarico di maestra elementare in una zona rurale del Salento, e vive il suo apprendistato di lavoro e solitudine in un’ostile comunità di uomini. Se tecnicamente appartiene al genere narrativo del romanzo di formazione, o educazione sentimentale (omaggio alla determinazione e al coraggio morale delle donne del passato), si trasmuta in realtà nella storia di formazione dello sguardo e dello stile poetico dell’autrice, che porge il suo omaggio alla grande tradizione visiva del nostro cinema. Cinema, ovvero, come ama ripetere Bernardo Bertolucci, “aprire gli occhi”. La maestra protagonista della storia (“maestrina”, nel lessico maschilista di alcuni recensori), resa ancora più nitida dalla bravissima Isabella Ragonese, scopre l’antica verità che insegnando si impara, e che la posta di ogni insegnamento è diventare ciò che si è. La regista Giorgia Cecere, già sceneggiatrice di Amelio e di Winspeare, impara e ci insegna che la bellezza del film, così raro nell’attuale panorama italiano, è nel linguaggio che coniuga intensità ed evidenza fino a renderli sinonimi; uno stile che possiamo anche dire “femminile”, affiancato dalla delicatezza “orientale” del co-sceneggiatore, il suo ex compagno del Centro Sperimentale Yang Li Xiang, cineasta e pittore cinese. Il film è un’esperienza dei sensi, e la sua percezione quasi pittorica della realtà – la campagna, la natura, la luce, i corpi, i colori – è una lezione anche etica: non serve tanto denaro, dice Giorgia Cecere, “i colori sono la cosa che costa di meno”.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 8 maggio 2001)
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