Alcuni anni fa avevo fatto uno dei primi reportage (per il domenicale di "la Repubblica") sui cosiddetti campi nomadi a Roma, visitando il cosiddetto Casilino 900, poi sgomberato malamente. Si intitolava "La vita nuda dei Rom", ed è stato poi inserito nel mio libro
Oggetti smarriti e altre apparizioni.
Ieri, in una giornata anche troppo intensa (al pomeriggio dovevo fare e ho fatto una conferenza-reading sulla poesia in un liceo di Ostia) ho visitato, su invito della redazione romana di "la Repubblica", una baraccapoli nel quartiere della Magliana, e quello che segue ne è il breve reportage. Segnalo anche che, dopo il funerale dei bambini morti bruciati, ieri sera in Campidoglio si è svolta una fiaccolata di protesta promossa dai Rom e da altre associazioni contro la politica degli sgomberi e della deportazioni - delle esclusioni - portata avanti dal comune di Roma.
Ed ecco il testo che esce oggi su
la Repubblica (pagine di Roma)
La prima cosa che ci colpisce è il pudore.
Poiché al mattino gli uomini sono tutti al lavoro, a venirci incontro è stato un nugolo di bambini, sorvegliati a vista e seguiti dalle madri, dai tre ai tredici anni. Sono curiosi e vivaci, e al tempo stesso protettivi. Tra tutti spicca Dario Valentino, undici anni: “Venite stasera, quando torna mio padre e gli altri uomini”, ci ripete serio. Ci proibisce (ci prega di non farlo) di fotografare le case e le persone, cioè loro stessi. Colpisce la sua dignità, il volto serio nello sforzo di assumersi la responsabilità del campo. E’ anche perfettamente consapevole del bello e del brutto. “Tutta questa
zozzeria” – dice indicando una distesa di terra piena di detriti, e le carcasse arrugginite e bruciate di automobili, “non è nostra, l’abbiamo trovata qui”. Ci dice il via vai di questi giorni di fotografi, che non hanno chiesto il permesso di fare fotografie a case e persone, come se fossero gabbie di uno zoo: “sono venuti a fotografare tutto e poi sono scappati”.
Ci presentiamo. Siamo in un agglomerato di baracche nel quartiere della Magliana, racchiuse da canneti e pezzi di campagna sopravvissuta, chiusa da un lato dai palazzi che ospitano la Fao. Il sentiero che vi conduce da via Morselli è costellato di pneumatici e tracce di sgomberi recenti. Anche qui, un anno fa, un altro bambino morì bruciato per l’imperizia e la miseria, non questa volta dal riscaldamento, ma dalle candele. Sono rimaste famiglie bosniache di Sarajevo, da cui imparo che le tragedie della miseria accadono a quei Rom che non hanno la sapienza pratica di altri, l’arte del sopravvivere. Nuovi poveri, per così dire. Con me e Francesca, fotografa, c'è Alessandro, un giovane antropologo che lavora con Arci Solidarietà nel vicino campo rom “regolare” di Via Candoni: concepito per ospitare trecento persone, ne vivono più di mille, stipate dentro container di 18 metri quadrati. Alessandro aiuta le famiglie Rom a sbrigare le pratiche sanitarie, scolastiche e sociali in genere. I bambini e le madri di questa baraccopoli di irregolari lo conoscono di vista, e si fidano poco alla volta di noi. Il fatto è che ci sentiamo in colpa a essere qui anche noi solo dopo l'ennesima tragedia che ha fatto notizia e suscitato clamore, a far visita e fotografare delle condizioni di vita, di vita nuda, come se le scoprissimo sempre per la prima volta, dimenticando che le abbiamo create noi, la nostra politica, e solo in seguito attribuite a “loro”. Non solo il triste concetto di “campo”, mi spiega il giovane antropologo volontario, persona informata dei fatti, è un'invenzione nostra, frutto di una logica di esclusione; ma anche all'estremo opposto la lirica adesione a un loro presunto e folkloristico stile di vita, a una loro presunta esigenza di separatezza.
Ci colpisce la serenità di questo scorcio di vita quotidiano di donne e bambini, e la tranquilla dignità delle donne e madri. “Ci portano di qui e di là come se fossimo giocattoli”, dice una donna. Da uno sgombero all’altro, da una deportazione all'altra, la loro precarietà è una condanna, non una scelta. “Io vivo qui con mio padre, sono arrivata in Italia quando avevo 11 anni – mi dice un’altra che si definisce single, gonna verde con disegni fantasiosi, collana di perline, pendenti e un bracciale di corallo - vorrei lavorare, sono brava a fare le pulizie” – dice mostrandomi la baracca ordinata e accogliente sulla terra nuda e spazzolata: un letto, un fornelletto, un tavolino, due quadretti di “Roma sparita” appesi alle pareti fragili di legno, e un terzo che è un ritratto di padre Pio. Ma non sa leggere né scrivere, in nessuna lingua. Poi si siede all'aperto, in postura perfettamente eretta toglie il rame scorticando le guaine dei cavi elettrici e lo mette da parte. Sanno, a differenza di altri Rom, che non bisogna bruciare il rame per non respirarne la diossina che sprigiona.
Tutte le baracche sono di legno, nessun uso di materiali nocivi, e dalle tettoie pendono le plastiche azzurre della Posta Italiana, con la scritta in bianco. In una, l’unica con l’impiantito pure di legno, tra i letti, i tappeti e le coperte dai colori festosi e sgargianti noto vicino alla porta una stufa circolare di metallo, saldature perfette, ma soprattutto una forma che sembra il frutto di un designer di grido. “L’ha fatta mio marito”, dice la donna con orgoglio seguendo il mio sguardo. “Questa è sicura”. E’ una stufa a legna, davvero bella da guardare.
Dario Valentino, il ragazzo undicenne (che scopriamo essere il figlio del falegname e fabbro delle stufe), mentre attorniato dagli altri bambini costruisce con assi di legno, chiodi e un martello una piccola casetta per giocare, pone delle domande ad Alessandro come un grande, sul loro destino, se li sposteranno a via Candoni, che cosa siano le fantomatiche “case popolari”, e chi ci può andare. Non è facile spiegare a bambini dagli occhi sgranati, che aspirerebbero ad avere una casa normale, cosa siano e chi abbia diritto alle case popolari, e perché. Intanto si sono avvicinate ad ascoltare alcune donne. Quando nominiamo il famigerato Cei (Centro di Identificazione e Espulsione), campo che rinchiude tra filo spinato soprattutto coloro accusati del reato di clandestinità, la madre di Dario Valentino, che sembrava disinteressata ai nostri discorsi, si affaccia dalla sua baracca per esclamare, seria: “Là non ci voglio andare neanche morta”. Tutti qui hanno un regolare permesso di soggiorno, tutti vorrebbero che i loro figli andassero a scuola, vorrebbero una normale assistenza sanitaria, tutto ciò che per noi è così normale che ci dimentichiamo di averlo. Ignoro quali siano i criteri per l’attribuzione, ma una cosa è certa: i nomadi, come li chiamiamo, non sono nomadi, la loro origine è spesso contadina, e il lavoro degli uomini si relaziona con la realtà della metropoli, non in un mondo separato.
“Questa potete fotografarla”, ci propongono fieri dopo avere finito la loro capanna di legno. Adesso i bambini, quelli più piccoli a piedi nudi, sono contenti di mostrarci quante più cose e possibili, felici della nostra attenzione. Fotografiamo Lisa, il boxer femmina, Bambi, una pecora che zampetta intorno, animale di compagnia, compagno di giochi dei bimbi. Siamo incantati dalla loro creatività e dalla gentilezza di questi bambini. La piccola Samantha, una biondina sempre sorridente, corre e grida di gioia quando diciamo che torneremo a portarle dei vestiti. “Anche delle scarpine”, ci dice da lontano.