3/30/2010

Daniele Luttazzi e l'etica dell'evidenza

Francesco Piccolo (l’Unità del 29/3) scrive sul maschilismo di sinistra, citando a esempio la classifica dei lettori del vecchio settimanale satirico Cuore, “le cose per cui vale la pena vivere”, che al primo posto aveva “la fica” (e che altro ci si dovrebbe mettere, l'iPhone? il denaro? Sarebbe comunque interessante rileggere tutta la classifica). Poi, sul monologo di Daniele Luttazzi a Raiperunanotte, conclude: “Luttazzi e Berlusconi si assomigliano più di quanto amino credere”. Lo dice senza argomentarlo, per buon senso, come se il “buon senso” fosse un’autoevidenza, e non una credenza in bilico tra superstizione e autocensura. Penso viceversa che tra i disastri della sinistra oggi in Italia vi sia il cristallizzarsi in una postura moralista, e l’aver lasciato il campo della “trasgressione” alla destra (v. la caricatura goliardica di uno Sgarbi).
Luttazzi ha detto che la dittatura di Berlusconi è come l’ultima fase dell’essere sodomizzati. Certo, ha detto di più. Il suo procedimento linguistico consiste non nell’alludere (l’allusione è ironica, ma anche mafiosa o berlusconiana), ma nel far vedere, materializzando il fantasma della realtà oltre l’uso di metafore. Da qui la potenza, e lo scandalo. Lui dice mestruo (lo beve), dice piscia, merda: la mostra. Dice inculare (e lo mostra). Il senso è identico a quello del Cavalier Banana con l’ombrello a cui ci ha abituati Altan. Ma in Luttazzi è iperreale, evidente, disturbante. (E' un prodìcedimento stilistico noto agli antichi: in greco si chiamava enàrgeia, che i latini tradussero evidentia: ciò che sta davanti agli occhi). Quanto al dire di amare la fica (Cuore), so bene che nei labirinti del politicamente corretto, ogni due parole tre sono sconvenienti. Per questo sottolineo il carattere soggettivo di ogni enunciazione: la frase più oggettiva è già confessione del proprio sguardo; il neutro non esiste. E’ la censura a limitare il dicibile e il visibile fino a renderli norma, o buon senso).
Francesco Piccolo ha il torto di semplificare. Luttazzi quello di turbare e far pensare. Berlusconi, maestro di semplificazione, evita e bandisce accuratamente ogni seme di perplessità o di pensiero. Già questo pone Luttazzi ad anni luce. Berlusconismo è far leva sul “buon senso” come ovvietà, un darsi di gomito tra complici, evasori e puttanieri, un’unanimità sazia e priva di dubbi, mai approfondita. E’ la semplificazione estrema: non pensieri, ma slogan.
Ma dietro la condanna a Luttazzi vedo la solitudine di Pasolini, i processi e i sequestri dei suoi film. Vedo il trionfo di Videocracy, potere e pornografia, fascismo estetico e politico, e soprattutto censura. Tolto Luttazzi, dovremo aspettare un altro straniero, come lo svedese Gandini, per vedere la realtà dietro le nebbie del “buon senso”?

(una versione ahimè più ridotta è in uscita su l'Unità)

3/27/2010

Otto anni fa: "Dove comincia il fascismo?"

“Lo stato attuale delle cose: la trasformazione progressiva della res publica in governo padronale di azienda, la tendenza visibile dello stesso governo a fagocitare ogni ente o istituto concorrente nel campo primario dell’informazione e dell’espressione (radio, televisione, editoria) e la maggior parte della variopinta fabbrica della ricchezza e del consenso (pubblicità, assicurazioni, ecc.), (...) per non parlare di ciò che di arbitrario e distorto si consuma nel campo giudiziario, e l’attacco alla Costituzione...”. “Nel Forum di Parigi, ‘Italia, la resistibile caduta della democrazia’, il 12 gennaio all’Ecole Normale Supérieure (...) il pubblico stipato e partecipe chiese incredulo che cosa aspettasse l’opposizione di sinistra a organizzare manifestazioni di ferma protesta contro il governo” (...) “Dissidenti (...) sono le voci che in vari ambiti si oppongono all’attuale imbarbarimento che il regime instaurato da Berlusconi e i suoi alleati rappresenta nella società italiana e nella vita pubblica, per fare sentire (...) che esistono linguaggi anche pubblici che non si piegano né alla finanza né alla pubblicità, che sono diversi di natura e non solo di grado da questa dittatura in larga parte mediatica detta ‘morbida’ (ma fino a quando?)...”. “A quali avatar del totalitarismo allude e prelude il regime che si sta installando in Italia? Se usiamo per un attimo quella parola condannata dalla Storia, quello spettro, revenant, in attesa di coniare parole più precise, la domanda sarà: dove, quando (ri)comincia il fascismo?”
(Le citazioni sono da Mario Luzi, “Il sonno della ragione”, da S.Scateni-B.Sebaste, introduzione, in: AA.VV, Non siamo in vendita. Voci contro il regime, Arcana 2002 (interventi di scrittori, registi, artisti, cittadini). Otto anni fa, otto anni prima del populismo spettacolare di Santoro. Nel libro, Maurizio Chierici ammoniva sul divenire-Argentina dell’Italia. Bersani lo ha detto solo ieri l’altro. Forse qualcosa avremmo evitato, se tanti, troppi, non avessero minimizzato la realtà).

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 28 marzo, col titolo "Il sonno della ragione")

3/24/2010

Una mattina mi son svegliato

Questo è un invito che diffonderà tra breve l'Unità on line su Facebook, con questo breve testo di presentazione:

"UNA MATTINA MI SON SVEGLIATO..."
C'è chi ha gli specchi di legno. Berlusconi di sicuro: per lui è facile notare le rughe sul viso di Mercedes Bresso [la solita battuta che riserva agli avversari politici, che si guasterebbero la giornata guardandosi allo specchio], ma gli è impossibile vedere la sua faccia di 74enne senza il cerone. Stamattina ne parlavo con lo scrittore Beppe Sebaste, collaboratore de l'Unità, e ho rievocato un gioco che giocavo anni fa insieme al mio allora compagno: a ogni viaggio ci fotografavamo davanti allo specchio appena alzati. Quelle immagini formano l'album più dolce che abbia raccolto. Allora, perché non regalare a chi ha paura degli specchi le nostre foto appena svegliati? Mandatecele. Facciamo insieme l'album "Una mattina mi son svegliato".
Stefania Scateni

3/21/2010

Il popolo senz'anima. Frammenti dalla marcia su Roma

(questa cronaca della manifestazione di ieri del "popolo della libertà" è uscita oggi su l'Unità - e fa il paio con la mia rubrica sulla pagina delle culture)

E’ il Giornale di Feltri sottobraccio il mio passepartout, con la gigantografia di Berlusconi e una grafica anni Sessanta che chiama “tutti in piazza” a caratteri cubitali. E li vedo, i frammenti di questo popolo che si mette in piazza, che mi piove incontro a grappoli scendendo verso San Giovanni la via Appia Nuova, mentre io vado incontro al corteo. Guardo l’umanità di questo popolo che non riesce ad essere comunità, frammentato e un po’ alla deriva, pur unito dalle parole d’ordine. Non è disagio che provo. Ho sentito, per questa umanità sparpagliata avvolta nelle bandiere di “Berlusconi Presidente”, annodate dietro come immensi bavaglini, per questo popolo degli ipermercati e delle tv commerciali, facce non belle, non solcate da pensieri o da dubbi, un'immensa tristezza. Uomini che scherzano come italiani in gita, donne dal volto imbronciato, anziani sperduti con la bandiera in mano avvolta nell’asta.
Prima, a San Giovanni, ho visto i primi indolenti corpi seduti alla bell’e meglio di fronte al megapalco, l’aria di chi aspetta che inizi lo spettacolo. E, prima ancora, al punto di partenza dell’altro corteo di fronte alle Terme di Caracalla, un nugolo di blazer blu, in forte contrasto con altri dall’aspetto dimesso di disoccupati che si affrettavano con le bandiere bianche e azzurre nei pressi del Colosseo. Ho chiesto, per interloquire, a due signori di mezz’età: la via Appia è quella dietro gli archi? “Sì, ma perché ci va?”. “Vado incontro al corteo”. “Beh, giusto, ha ragione”. E come per giustificarsi: “Noi siamo venuti per una scorciatoia”. “A noi ci frega la panza”, aggiunge l’altro. E giù a ridere entrambi. Siamo complici, anche se io ho fatto la figura di bravo militante. Ho risalito quindi l’Appia sotto un cielo livido, da cui scendevano gruppetti, famiglie, comitive col nome della città sul cartello, transfughi dal corteo.
Mi fermo nel giardino di Piazza Re di Roma. Un gruppo con lo striscione del Polo della Libertà su cui campeggia la parola Padova è in posa per farsi delle foto. Alcuni, mentre bevono, giocano a spruzzarsi con la fontanella. Tutti di Padova?, chiedo. Sì, risponde uno con orgoglio. Finita lì. Mi siedo su una panchina dove c’è una coppia dall’aria stanca, la bandiera ripiegata in mano. Chiedo alla donna vicino a me di dove siano. Sardi, risponde. Ma il viaggio ve l’hanno pagato? “Io abito a Roma, dice lei, ma agli altri e ai miei parenti sì, certo”. Lo stesso mi diranno dalla Puglia o dal Piemonte. Il corteo finalmente arriva, preceduto da altri filamenti regionali del popolo della libertà. Ma chi è questo popolo, perché lo conosco e al tempo stesso non lo riconosco? Cerco nei volti dei miei vicini di casa, di treno, di autobus, di spiaggia. Ma è proprio l’Italia di questi ultimi vent’anni, e mi è molto difficile dire la verità di quello che vedo e sento: tranne ricordarmi l’infelice dichiarazione di un esponente del Pd, quando disse che occorreva perdere la vocazione pedagogica del Pci, e “andare incontro alle aspettative della gente”. Quali aspettative? Non c’è ideologia, non c’è nessuna idea, solo il riconoscersi nel Capo. Finché, nel corteo, tra il drappello dei giovani neofascisti, Giovane Italia e altre sigle, leggo questo cartello: “Nati con Berlusconi /cresciuti liberi”. E’ vero: un popolo neonato, senza memoria, non parlano nemmeno tra di loro, è il popolo dei parcheggi asfaltati degli ipermercati la domenica invece di andare a mare, il popolo di quei reality televisivi in cui uomini e donne facevano finta di litigare per il pubblico, mettendosi in piazza, letteralmente. Sono gli uomini dei nuovi Bar Sport e dello stadio, sono “la gente”. Il popolo nella sua forma più vera e cruda, che può riversarsi ovunque, anche negli spettacoli dei gladiatori al Colosseo. Il popolo di questa nuova iperreale e innocua marcia su Roma (anche se mi viene imperiosamente voglia di rileggere la descrizione di Emilio Lussu di quella del 1922). Un popolo che si riversa a San Giovanni silenzioso, tranne l’unico sprazzo di voce dei giovani fascisti, slogan contro Di Pietro e i magistrati (“Tonino spia / servo della Cia”; o anche, ripetuta a canzoncina, “mettila in culo / la sentenza”); oppure, il più brillante, “Bonino vattene via”. Sul palco, tra i primi politici, ci attende musica altissima tra la discoteca e Broadway. O fordse è solo musica da crociera. Mi allontano con le note festose e congelate di I love you tender. Lo spettacolo del Capo sta per cominciare.

3/20/2010

La vendita delle illusioni

Le illusioni sono sacre, dal cinema al Superenalotto, dai corsi di scrittura creativa alla politica, passando beninteso per tutte le fedi religiose. Benjamin Constant, fondatore del liberalismo, scrisse che la superstizione è religiosità pragmatica. Jorge Luis Borges le chiamava “finzioni in cui credere”. Ma cosa distingue una “fede” o un’adesione politico-ideologica da una circonvenzione di incapace? Dopo l’arresto a Roma di un santone stupratore si fa di nuovo un gran parlare di sètte: vi ricordate Vanna Marchi, la “regina delle televendite” arrestata per truffa? Alcuni anni fa su questo giornale pubblicai un appello per la sua liberazione.
Vanna Marchi fece sognare circa 350mila persone tra il 1996 e il 2001. Silvio Berlusconi ha fatto sognare milioni di italiani con lo stesso medium (la tv), per quasi 30 anni. Se è innocente quest’ultimo, argomentai, vale l’innocenza anche per Vanna Marchi. Signore incontrastato delle televendite, Presidente del Consiglio e proprietario di innumerevoli Aziende, tutte le attività in cui si è impegnato, dalle televisioni alle assicurazioni, dal calcio alla produzione alla distribuzione film, fino alla residenziale Milano 2, hanno a che fare con le “illusioni”. Egli è il “Maestro dei Sogni”, come titolava un romanzo popolare americano. Ma basta la proprietà delle concessionarie di Pubblicità per affermare che egli è maestro, nel senso di padrone, della facoltà di illudere il popolo italiano.
Chi accusò Vanna Marchi di pubblicità ingannevole, estorsione, truffa e circonvenzione era in possesso delle proprie facoltà quando le telefonava per chiederle unguenti, cosmetici, amuleti, numeri del Lotto e riti magici per cacciare il malocchio, proprio come gli acquirenti dei gadget relativi a Padre Pio o gli adepti di Scientology, o come i fan del cantante Silvio Berlusconi. Ci pensino, quelli dell’ultima marcia su Roma.

(rubrica "acchiappafantasmi" - in uscita su l'Unità di domenica 21 marzo)

3/13/2010

Che altro dire?

Che altro dire che non abbiamo ripetuto in questi anni? Chi ancora sostiene il delirio eversivo del Capo del governo dovrebbe riconoscere un limite, una frontiera dell’evidenza, del principio di realtà. Capivo la chimera di andare al banchetto col miliardario nell’illusione di assomigliargli, ma ci si è accorti che al banchetto si era sì convocati, ma come scatolette di tonno? Se non si riconosce il remix dei mussoliniani proclami dal balcone di Palazzo Venezia, se l’anestesia morale e cognitiva è ormai cecità, si badi: ogni dittatura avanza per graduale abitudine dei cittadini, degradati a spettatori intimiditi; giorno dopo giorno si accetta tutto, anche la sparizione e l'omicidio del vicino di casa ebreo e/o comunista, o i bambini morti bruciati nei campi rom; il sopruso, l’informazione distorta ma indiscutibile, l’unica consentita. Nello stravolgimento orwelliano della realtà, chi è liberale è tacciato di estremismo e messo all’indice.
Leggo che, dopo il fermo di polizia a uno skinhead che voleva importare in Italia il Ku Klux Klan (organizzazione neo-nazista Usa), il gruppo di estrema destra Forza Nuova (alleato di Berlusconi e della Polverini), grida alla “repressione liberticida”: paladini della libertà di toglierla agli altri, di essere fascisti (e ho paura dei loro travestimenti al corteo del Pdl il 20 marzo). Ma non è più un paradosso. Il nuovo fascismo era già visibile nel Partito della Libertà e dell’Amore, nell’uso cinico e indecente di queste parole. Che altro dire? Questo, con voce forte e chiara: che il capo del governo è un nemico della democrazia, vergogna per l’Italia e per l’Europa. Lo dica il segretario del maggior partito d’opposizione, senza delegare ad altri più pittoreschi. E la destra autentica si ribelli contro la sua strumentale caricatura che istiga alla guerra civile (N.d.A: scritto ieri, h. 10,50).

(rubrica "acchiappafantasmni", in uscita su l'Unità di domenica 14 marzo)

3/06/2010

Decreti legge urgenti (nel centenario di Ennio Flaiano)

Ecco alcune tra le tante proposte di legge di elettori e rappresentanti eletti del Popolo della Libertà che saranno tradotte presto in decreti da far firmare al Capo dello Stato:
“Ieri sera ho fatto tardi e tornando a casa non ho fatto in tempo a comprare il latte. Chiaramente la mia famiglia è stata fortemente penalizzata per la colazione di stamattina. Chiedo quindi al Presidente un decreto legge per l’apertura continuata dei lattai in modo che non si ripetano fatti così gravi e lesivi per la libertà individuale”.
“Essendo scaduto il termine delle iscrizioni alle scuole, fissato arbitrariamente da una legge antidemocratica, chiedo al Presidente una speciale e doverosa proroga in forma di decreto urgente (per l’iscrizione di mio figlio, non per quella di altri) in quanto la mia famiglia e io siamo a sciare a Cortina per prolungamento della settimana bianca”.
“Al Presidente della Repubblica: prego firmare questo decreto urgente appena redatto sul mio iPhone onde far tornare indietro a prendermi il treno Eurostar delle 8,10, partito sfacciatamente a quell’ora senza aspettarmi. Stavo finendo la colazione al bar della stazione e il cappuccino era bollente”.
“Al ritorno da un viaggio in barca apprendo che la gara d’appalto per l’edificazione della Caserma dei Pompieri e l’Ospedale di Quaggiù è stata chiusa e aggiudicata ad altri. E’ una chiara limitazione illiberale e quindi è urgente un decreto per l’immediata riapertura della gara, non avendo la mia società, che è la migliore, potuto partecipare. ‘Non sarà uno scoglio ad arginare il mare!’”*.
Mentre molti simili provvedimenti aspettano la firma in Quirinale, cogliamo l’occasione per ricordare, nel centesimo compleanno di Ennio Flaiano, una delle sue frasi più illuminanti e definitive: “Essere italiani è una fatica inutile”.

*E' il ridicolo slogan, mutuato da una canzone di Lucio Battisti, declamato da Renata Polverini e suoi seguaci nella manifestazione a Piazza Farnese contro le regole elettorali, pochi giorni fa.
(per l'Unità di domenica 7 marzo 2010, rubrica "acchiappafantasmi")

3/04/2010

Andare al Liceo classico a Parma negli anni Settanta

Ieri mi ha telefonato il nuovo direttore di un giornale di Parma (non la tradizionale Gazzetta), Emilio Piervincenzi, ex di Repubblica, per chiedermi se collaboravo in generale e se in particolare già ieri gli mandassi un mio ricordo del Liceo classico G.D. Romagnosi (di Parma), dove pare stia scoppiando un casino rimbalzato sui giornali nazionali (Preside contestata dagli studenti, e ora anche dagli insegnanti: v. La Stampa di ieri). Era un invito sentimentale da cui non potevo esimermi. In fretta, verso sera, ho scritto questa cosa qui, che appare oggi sulla prima pagina di Polis (www.polisquotidiano.it). E'dedicata in generale agli anni Settanta, mi pare...

Fu il periodo della vita in cui mi sono sentito più adulto: una promozione esistenziale, un punto d’arrivo, accompagnato da un senso di superiorità euforizzante. Ero grande, ero al ginnasio. Parlarne, però, è di una difficoltà esorbitante: come è possibile dire gli anni del liceo, fase finale dell’adolescenza in cui si scopre tutto con un’intensità irripetibile, e di fronte a cui la vita successiva appare come una serie di repliche con commento? Se poi penso che erano gli anni Settanta, epoca feconda e tuttora impensata, ma la più banalizzata dai media (alla tremenda formula “anni di piombo” contrappongo sempre quella di “anni di carne” e d'anima - di idee, di passioni, di sperimentazioni di linguaggi, di poesia), il mio senso di aurora della vita si ispessisce. Facevo parte, al Romagnosi, non solo del “collettivo” degli studenti, ma di un gruppetto culturale che si riuniva in un’aula al pomeriggio a leggere testi filosofici europei, mischiati alla “controcultura” americana. Qualcosa vuol dire se nessuno degli autori che scoprivamo allora mi sembra superato dai fatti, tanto meno dalla teoria; e che, nella musica, la maggior parte della produzione recente è una cover (replica con commento) di quella degli anni Settanta.
Dunque, il Liceo Ginnasio “G. D. Romagnosi”. Dalle foto che ho scorso sul sito Internet (una palestra scintillante, un’aula di informatica), credo proprio che non ne riconoscerei gli interni. Ma da fuori è sempre quello, rosso e bianco che si sporge sul Lungoparma, a due passi da uno storico ponte. Rivedo le grandi finestre a pianterreno, a sinistra dell’ingresso, la cui progressione segnava quella delle classi del Liceo, sezione B. E’ posto all’indirizzo più parmigiano di tutti, Viale Maria Luigia 1, anche se, nato e residente di fronte al Collegio Maria Luigia (che appariva allora il simbolo un po’ arrogante dell’autosufficienza dei ricchi), non ci facevo caso.
Ricordo le lezioni sussiegose dell’anziano insegnante di Italiano e Latino, che mi si confondono nella testa con le frasi farcite di aggettivi del gergo critico dell’antologia, dove il verso del poeta è sempre “potente”, il suo “ripiegamento” (ovviamente “interiore”), è sempre “virile”, e così via. Ricordo che, per evitare non so più quale punizione del preside per non so più quale infrazione, scrissi una lettera apologetica usando un fraseggio buono per una dissertazione su Petrarca (“cosa è mai quello che ho fatto di fronte all’eternità, e alla fragilità effimera delle cose terrene?”). Funzionò, incredibilmente. Avevo distratto l’autorità con la forma delle parole. Nonostante la si vivesse come scuola di retorica (ma anche la retorica è una cosa vertiginosamente seria), il Liceo Classico, ne sono convinto, è la miglior scuola che c’è, comunque sia l’unica il cui curriculum studiorum poggi su un’idea. E questo è tanto più attuale di fronte allo svilimento del linguaggio (che precede e sempre quello verso le persone), dell’educazione, del sapere, di tutto ciò che, in nome del profitto a breve termine, viene a torto e ciecamente considerato inutile. Il mio insegnante preferito era quello di greco, che col suo antico accento pugliese faceva sentire il suono della lingua di Omero, e per il quale volentieri s’imparò a memoria buona parte del Canto VI dell’Odissea. Ma, si sa, a scuola ciò che si impara, ciò che emoziona davvero, è altro dal programma di studi.
Ricordo le riunioni del collettivo trainate dalla verve di A. C., e la presenza di R., la ragazza dal volto sognante che incarnò per anni quello che mi piaceva e mi commuoveva di più: se, per dire, vedevo il mitico film Zabriskie Point, naturalmente era lei la ragazza della scena d’amore nella Death Walley col blues di Jerry Garcia. Lei faceva l’ultimo anno, io il primo, e si capisce quanto platonico potesse essere il rapporto. (Ma poiché le promesse importanti si mantengono tutte, lo vissi anni più tardi, come se avessimo preso una macchina del tempo).
Ricordo un mio gilet largo e azzurro pallido che mi sembrava bellissimo, una giacca di pelle marrone alla Bob Dylan di cui mi accorgevo solo io. Ricordo un’altra ragazza che mi prestò Killing me softly cantata da Roberta Flack (ben prima dei Fugees), e il tentativo precocemente ridicolo di farmi crescere la barba. Ricordo la prima volta che, ginnasiale, presi la parola balbettando all’assemblea generale. Era importante, l’assemblea. Erano importanti (leggi formativi) anche i conflitti. Facevo il Romagnosi quando scrissi, e pubblicai, le mie prime poesie. Volevo essere un poeta beat.
L’adolescenza è l’epoca delle più potenti sinestesie, figure retoriche che consistono nel mischiare le sfere sensoriali, e che si apprendono a scuola con Dante (più tardi con Baudelaire e Rimbaud). Esse svelano però il loro senso vivo dopo una pioggia d’estate con l’odore dell’asfalto bagnato e perdi il senso del calendario, o l’odore di piscina sui capelli della compagna di scuola che ti piace, quando la incontravi “per caso” alla solita panchina dello Stradone. O nel languore erotico di una riunione del collettivo degli studenti a casa di lei in cui si parla di sciopero, con un’aria di innocente carboneria che è in realtà il tentativo di rifondare lo sguardo e il mondo, cioè se stessi, con un senso di comunione che non impediva di preservare la propria solitudine. Ero al mio primo anno al Romagnosi l’inverno fiabesco del ’73, quando grazie all’austerity le città scoprirono nuovi modi e sobri di vivere lo spazio senza auto, e in Piazza Garibaldi vidi passare una carrozza con cavalli: proprio quella domenica mattina in cui vi fu la riunione in casa di lei, dove arrivai in anticipo e restai a lungo beato. Immaginate una città piena solo di biciclette, però a colori sgargianti, non come nei documentari sulla Liberazione.
In un’epoca, quella di oggi, in cui la politica si confonde con la pornografia, ha senso solo ciò che è in vendita e l’unica realtà condivisa si chiama reality, è difficile spiegare queste emozioni. Erano anni in cui i social network non erano dietro lo schermo in plasma di una vita virtuale, ma un’esperienza fisica e spaziale, nelle piazze, quando ci si poteva sedere sui gradini dei monumenti e si era cittadini a pieno titolo invece che clienti. Nella piazza si mescolavano anziani col cappello portatori di memoria, e giovani dai capelli lunghi portatori di utopie da realizzare. Erano anni in cui la politica stessa era erotismo, non pornografia; e l’erotismo, proprio come deve essere, era tutt’uno con la cultura, il leggere, l’immaginare. (La perdita della dimensione erotica della cultura, che è felicità della mente, è la perdita più grave della nostra civiltà).
Ero al mio l’ultimo anno al Romagnosi quell’inizio di marzo in cui, alle 10,30 circa del mattino, arrivò la notizia del rapimento di Aldo Moro, e spontaneamente in tanti uscimmo dalle classi, spaventati e turbati, e qualcuno diceva che forse dovevamo scappare in montagna, come durante il fascismo. Fu un attentato alle nostre vite e alla nostra giovinezza, fu l’inizio di una deriva che macinò tante vite, tra deliri di lotta armata e l’irruzione massiccia dell’eroina.
“C’era una volta la memoria...”
E’ per non dover mai cominciare così una storia, che amo e sostengo il liceo classico e i valori che trasmette. Quanto agli insegnanti, chiederei loro di essere guide, formatori di autodidatti. Ciò che non ho mai smesso di essere.