3/20/2009
Prego, signori, entrate pure nel Vuoto (una mostra al Beaubourg di Parigi)
Al quarto piano del Centre Pompidou, quello delle mostre importanti, i visitatori percorrono da un mese nove sale firmate da altrettanti artisti, da Yves Klein a Stanley Brouwn (in ordine cronologico). Sono le nove opere della mostra - che si vuole “retrospettiva” – intitolata “Vides” (vuoti). Tema della mostra collettiva (che ha ben sei curatori, tra cui Laurent Le Bon, conservatore del Beaubourg, e l’artista svizzero John Armleder), è uno degli scandali ricorrenti dell’arte (e non solo): il vuoto. La spiritosa maschera all’ingresso non scherza quando dice a chi entra “non c’è niente da vedere”, però si sbaglia. Le sale sono vuote, sì, ma ognuna diversa dall’altra, e piene di spazio, luce, volume e confini – pareti, porte, finestre, i corpi delle persone. Senza bisogno di scomodare il solito fraseggio metafisico che evoca la presenza dell’assenza, o l’equivalenza di “vuoto” e “forma” nel buddhismo Zen, il fatto è che per la prima volta in vita mia ho scattato delle foto (col telefonino) in un museo. Anche una coppia di ragazzi faceva lo stesso, indugiando nelle sale luminose col parquet senza nessuna fretta di esaurire la visita. Come se il vuoto delle opere rendesse più acuto il nostro sguardo.
Ripensare il senso dell’oggetto artistico e del suo contesto, e il concetto stesso di esposizione, così come ripensare lo spazio, lo sguardo, la materialità dell’opera, sono il compito e le coordinate che l’arte contemporanea si dà da molti decenni. Vale a maggior ragione per “Vides. Une retrospective”: nove opere “datate” e riattualizzate (storiche e astoriche insieme) sul “vuoto”, che dovevano essere presentate simultaneamente in tre Paesi diversi (ma solo il Pompidou ha accettato). Come non riconoscere la tempestività di questa mostra (che spero sia accolta in Italia)? Nell’epoca dell’inattesa implosione del capitalismo delle merci e dei consumi, materiali e immateriali, ci induce a ripensare insieme, alla radice, il valore dell’arte e del suo “uso”. I nostri vuoti.
Il percorso cronologico inizia dalla sala di Yves Klein, che riprende la mostra del 1958 alla galleria Iris Clert intitolata (traduco) “La specializzazione della sensibilità allo stato di materia prima in sensibilità pittorica stabilizzata”, famosa però come “la mostra del Vuoto”. Successiva ai “monocromi”, per l’occasione Klein dipinse di bianco l’interno della galleria, per creare “un ambiente e un’atmosfera pittorica sensibile e per ciò stesso anche invisibile”. Fu questa mostra a segnare l’avvento come opera di uno spazio interamente “vuoto”. Perché lo scrivo tra virgolette, allora? Perché il vuoto non esiste, cioè non esiste allo sguardo e ai sensi, non esiste in fisica né in estetica, proprio come il silenzio, quello dell’omonimo, celebre e scandaloso concerto del compositore John Cage (peraltro amico e sodale di molti artisti del “vuoto”). Continuo il percorso.
Il collettivo Art & Language, con “The Air-Conditioning Show” (1966-67), enuncia l’equivalenza tra la descrizione scritta di un’opera e la sua realizzazione nello spazio. Robert Barry, per il quale lo spazio espositivo è luogo di riflessione, titola la sua sala (presentata nel 1970 alla galleria Sperone di Torino) citando Marcuse: “luoghi in cui essere liberi di pensare ciò che stiamo facendo”. Segue “Experimental Situation” di Robert Irving (Ace Gallery, Los Angeles, 1970), Laurie Parsons, che come nell’originale alla Laurence-Monk Gallery di New York del 1990 non mostra nulla, neanche il proprio nome. C’è il vuoto di Bethan Huws (Haus Esters Piece, 1993), che omaggiava la bellezza dello spazio espositivo dell’edificio di Mies van der Rohe a Krefeld; quello di Maria Eichorn, finalizzato a far conoscere e finanziare la Kunsthalle di Berna in crisi di fondi (“Money at the Kunsthalle Bern”, 2001); quello capzioso di Roman Ondàk, “More Silent Than Ever” (v. immagine qui sopra), presentato a Parigi nel 2006, che insinua che nella sala ci sia un sistema acustico nascosto. Infine l’inedito di Stanley Brouwn, “Uno spazio vuoto nel Centro Pompidou”, 2009.
Si chiedeva in questi anni il grande artista Claudio Parmiggiani, la cui ultima mostra si chiama “Apocalisse con figure”: “Quale spazio, quale senso cerca oggi un’opera? Che cosa significa esporre? Che cosa significa fare arte oggi? [...] significa non solo porsi il problema di un spazio formale, estetico, ma anche e soprattutto quello di uno spazio etico, politico, dentro il quale l’opera andrà a situarsi”. Ecco, che lo sappia o no, questa mostra che articola una pluralità di “vuoti” è un’apocalisse senza figure, nel senso di Parmiggiani. Apocalypsis significa rivelazione, svelamento. Di che cosa? Del fatto – penso mentre percorro le sale guardando il pulviscolo di luce che esce dalle vetrate luminose nello spazio vuoto – che la vera opera è (sempre) il luogo, che da fisico diventa mentale, e al tempo stesso pulsa di vita (con una voce e un cuore, direbbe ancora Parmiggiani, che battono dentro lo spessore dei muri).
(La mostra si conclude il 23 marzo. Il voluminoso catalogo è edito da Ringier (Zurigo) in coedizione col Centre Pompidou)
(articolo uscito su l'Unità del 21 marzo 2009)
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7 commenti:
è sempre bello leggerti, questo in particolare è un magnifico pezzo, mi piacerebbe vedere questa mostra.
ciao
s.
tutti i colori del vuoto - e quindi?
era vuoto? ...
mi piacerebbe tantissimo ... poterlo vedere - il vuoto.
E straordinaria pezzo, si. Assolutamente.
basta una stanza vuota (beppe)
o bastiamo noi...
(mi hai ispirato profondamente)
sì, come Pascal: "a capacità di essere soli in una stanza" (rimedio a ogni male del mondo)...
La ringrazio per Blog intiresny
quello che stavo cercando, grazie
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