3/13/2009

Intervista a Fred Vargas (in occasione dell'uscita del suo ultimo romanzo Un luogo incerto)


“Scrivo gialli per annullare la morte, e non sopporto la violenza, neanche al cinema. Il giallo è un genere arcaico, tocca la letteratura epica dell’antichità, cose come il concetto greco di “catarsi” e l’angoscia vitale della mitologia – il Minotauro, il labirinto, ma anche il Drago, la que^te medievale dei cavalieri senza paura, un universo di storie in cui conta la scoperta, la risoluzione finale, dove si uccide il mostro e si salva la fanciulla, oppure si trova il tesoro, cioè la conoscenza. Faccio romanzi a enigma, o meglio a soluzione. E anche se lo statuto della verità e della colpa nei romanzi noir è più sociale, io amo anche i gialli inglesi, e in particolare di Agatha Christie. C’è una complessità simbolica dietro la loro semplicità che mi piacerebbe un giorno spiegare”.
Sto parlando di gialli con Fred Vargas, continuazione di un dialogo avviato anni fa. Come ogni scrittrice che si rispetti passa la maggior parte del tempo in cucina, ed è lì che siamo seduti, tra fogli, libri, computer, tazzine e caffettiera. Tradotta e amata in tutto il mondo, i lettori già sanno che il suo nome è uno pseudonimo, di professione è archeozoologa, e la sua sorella gemella straordinaria pittrice. Tuttavia è imminente in Francia l’uscita di un libro dal titolo Il mistero Fred Vargas (che, dice, lei non leggerà). Ciò che colpisce è la sua modestia. Riluttante a dirsi scrittrice - forse perché, con un padre surrealista amico di Breton, gli scrittori erano in casa qualcosa di troppo alto – mi confessa che anche il suo rifuggire le interviste è un timore di inadeguatezza. “Se un giornalista mi si rivolge dicendo: ‘Lungo la sua opera, Fred Vargas, ci si accorge che...”, io vorrei esclamare: chi? quale opera? Non mi sono mai data questo come scopo, mi occupo d’altro e la nozione di opera è troppo astratta. Non mi definisco in un essere, ma in un fare. Fabbrico storie. So di avere successo, ma in nessun momento della giornata mi riconosco nell’immagine che gli altri hanno di me. Non è cambiato nulla nella mia testa e nel mio modo di vivere, e provo lo stesso piacere nel giocare con le storie. Forse scrivo quello che vorrei leggere, senza presunzione, come qualcuno che si cucina un piatto che ha voglia di mangiare”.
La cinquantenne Fred Vargas ha esordito nel 1986. Ci fu chi ironizzò sui suoi gialli “infantili”, senza capire che erano proprio la libertà e freschezza l’aspetto più innovativo dei suoi libri. Ha sempre avuto la passione della ricostruzione della verità, prima come archeologa, poi come studiosa dell’epidemiologia della peste, e di recente di quella dell’influenza aviaria, di cui ha progettato una protezione e continua ad aggiornarsi sulle mutazioni del virus. Con lo stesso spirito analitico (alla Danglard, dice, il vice del commissario Adamsberg) si è impegnata nell'analisi delle carte processuali del caso Cesare Battisti. Una vita di ricerca di soluzioni, come i detective dei gialli. E il conto torna, anche nel suo ultimo romanzo. Al centro, anche qui, la propagazione di un contagio, quello dei vampiri, e la violenza contro il capro espiatorio. Best-seller assoluto in Francia, parla di tombe e di vampiri. E’ anche per questo che andando a casa di Fred Vargas, in questi giorni, ho visitato più volte il cimitero monumentale di Montparnasse, cercando celebri tombe senza trovarle, per quanto indicate nei cartelli? Non sarà che si spostano, come i non-morti del suo romanzo?
Un luogo incerto si ispira a una storia vera e documentata, quella di un vampiro del 1725 su cui disquisirono intellettuali e regnanti, da Voltaire a Luigi XV. “Era un fatto molto noto che rilanciò in Europa il gusto e la problematica del vampirismo, fino a Bram Stoker, che l'ambientò in Romania. Ho fatto molte ricerche storiche – mi dice Fred Vargas – senza però localizzarlo. Avevo praticamente già scritto il libro quando ho scoperto che non solo il villaggio, Kisilievo (in austriaco Kisilova), ma anche la tomba del vampiro Petros Plogojowitz sono in Serbia, e ci sono andata. Ho però mantenuto la mia descrizione: se non invento non mi diverto. Il vero nome del vampiro era Blagojowitz, ma avevo già inventato nel romanzo un gioco con la parola plog, un intercalare, come il suono di ‘una goccia di verità che cade’, che nel corso della storia scandisce le intuizioni del commissario Adamsberg.
E l’idea del vampiro come le è venuta?
“Mio padre mi fece leggere Dracula quando avevo 13 anni, oltre a tutta la letteratura barocca. Esistono tantissime variazioni letterarie. La mia non è una storia di vampiri normale, ma dal punto di vista di chi ha l'ossessione di ucciderli. Il fatto è che ho sempre avuto molta difficoltà a dire perché si uccide, a capire e rendere credibile la pulsione e il movente di un assassino, anche se è d’obbligo. E' la parte più lontana da me dei miei gialli. Coi vampiri ho giocato con la paura che si aveva da bambini. Per scriverlo sono andata via da Parigi quindici giorni, in testa avevo solo la scena iniziale, il cadavere del vecchio fatto a pezzi, e l’idea di fare una storia basata sulla figura di Plogojowitz. Non sapevo nulla di quello che ci sarebbe stato in mezzo. Ho studiato tutto sui vampiri, compreso l’elenco delle maniere per neutralizzarli, come tagliare o legare i piedi dei loro cadaveri per impedirne la deambulazione. La storia era così complicata che avevo paura di non saltarci fuori. A volte conto troppo sulla mia spontaneità”.
A noi lettori piace dei suoi romanzi soprattutto la descrizione della vita quotidiana e l’humour che la pervade. E’ come una magia buona, una magia bianca, contro la magia nera dell’irruzione del male, e che dà consolazione...
“Consolano la nostra naturale ‘anormalità’. Ne L’uomo dai cerchi azzurri anche il cattivo non è così cattivo, e mi sono spesso detta: Fred, devi imparare a scrivere un personaggio davvero cattivo e credibile! Ci ho provato col giudice di Sotto i venti di Nettuno. Persino il cattivissimo colpevole di Un luogo incerto, mentre lo costruivo, diventava simpatico. Come autore devi sapere subito chi è l’assassino, ma siccome lo devi presentare dall’inizio e costruirlo via via, alla fine è difficile abbandonarlo al suo destino di malvagio. I buoni sono facili da scrivere, i malvagi no. Ho scoperto poi che i miei libri sono considerati degli antidepressivi. Ricevo lettere da chi si dichiara consolato dalle mie storie, e c'è perfino una psichiatra che dice di averli prescritti ai suoi pazienti. Beh, allora funziona quella vecchia catarsi dei nostri maestri greci!”
Le chiedo se si identifica in qualcuno dei suoi personaggi.
“Ci sono credo due categorie di scrittori, quelli che inventano personaggi in cui si identificano e quelli, come me, che sono piuttosto degli scrittori-lettori, e non trovano se stessi nel libro. Certo, sono presente nei dialoghi, nei modi di giocare e di guardare la vita, ma rispetto ai miei personaggi sono come un lettore che prova simpatia per l’uno o per l’altro. Sento il fascino di Adamsberg, mi piace, ma mi è molto lontano, e mi annoierei a cena con lui, è troppo silenzioso, non ride, non sa fare le battute. Quando scrivo spesso mi fermo e guardo in alto, come se vedessi un film in cui si svolgono le azioni che devo poi trascrivere. A volte vivono di vita propria e ne sono stupita”.
I suoi libri sono anche forse i primi ad avere come personaggi dei precari, persone che inventano la propria vita, come i pazzi guariti dei racconti di Robert Walser...
“Sono quelli che vengono presi in giro, i poveri, gli anziani, quelli in cerca di giustizia, o come Émil di Un luogo incerto, delinquentello da quattro soldi col suo cagnolino puzzolente, a cui mi sono affezionata molto. Marginali ma non perdenti, rimandano alle figure primitive delle favole, i beati, gli idioti, i vagabondi, che dicono apparentemente delle banalità che invece assumono poi un senso che tutti comprendono. Ci sono i marginali proletari come Émil, o il marinaio bretone, o i normanni di Nei boschi eterni, e quelli intellettuali come gli storici o l’archeologo, fino agli abitanti delle panchine che formano una rete investigativa in Un po’ più in là sulla destra. So che anche lei ama molto le panchine, io non smetterei mai di parlarne”.
E' curioso, lei che è una “scienziata” non scrive gialli positivisti né realisti, ma quasi dei romanzi di cappa e spada contemporanei.
“Non amo il realismo, amo il reale. Né faccio storie che si svolgono in altre epoche, ho bisogno di una storia che cominci mercoledì e finisca sabato. Ma i dialoghi veri che accadono nella vita, nella scrittura sono noiosissimi. Per me è importante il suono delle parole, e i miei personaggi sono reali senza essere realisti. Riguardo allo stile, il primo insegnamento venne da mio padre, che mi fece leggere Nerval troppo presto. Gli dissi che lo trovavo scritto molto bene. Mi rispose: se un libro è scritto bene non diresti mai che è scritto bene; se dici che è scritto bene vuol dire che non è scritto bene. A 14 anni quella frase era un enigma, col tempo mi è divenuta evidente. Così è per la vita, che deve sembrare tale anche se è completamente ricreata nella scrittura. Il giallo è spesso, dietro la sua patina realista, profondamente onirico. Amo molto Hammett, Chandler, amo Camilleri. Non amo i romanzi tristi, in cui i personaggi fanno una vita deprimente e noiosa. E la noia è per me il demonio supremo”.
I suoi romanzi sono il contrario di tristi, questo è un fatto.
“Ma questo aspetto non è valorizzato, non è considerato intelligente. Guardi Alexandre Dumas, emarginato anche dai programmi scolastici. Il Conte di Montecristo ha una potenza incredibile, ci sono frasi e dialoghi memorabili. Edmond Dantès, che si sottrae a una giustizia ingiusta ed esce dall’inferno, è l’eroe che mi ha più sedotto. Lui e Athos, il più etico dei Tre moschettieri”.

[L'intervista appare sul magazine Venerdì di Repubblica in edicola oggi. Il romanzo di Fred Vargas, edito da Einaudi Stile Libero, è in libreria da oggi]

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Leggendo questa intervista mi chiedo : come mai non ho ancora letto nulla di Fred Vargas?Devo rimediare subito!
Rare le interviste letterarie che ti danno voglia di leggere un libro...Bella la metafora della cucina : anch'io penso che non vale scrivere se non si prepara un "piatto"leggibile.Del resto ho lavorato per anni in libreria e potuto constatare che sono solo i "piatti"leggibili che restano in catalogo.
Ammirevole sempre per me l'understatement francese : qualcosa che raramente si vede in Italia.OK.Comincero' a leggere Fred Vargas.

PS.Nel cimitero di Montparnasse, appena entrati sulla destra c'è la tomba di Sartre et la Beauvoir!!!Quante volte ci sono passata e lasciato un saluto...

Anonimo ha detto...

quella di sartre e beauvoir è una delle poche tombe che si trovano con facilità. ma una, davvero, misterosamente mi resta introvabile, nonostante la cartina: quella di emmanuel bove(autore che amo e che ho tra l'altro tradotto in italano).
P.S. sul mio sito c'è un'altra intervista del 2005 alla vargas (è un'amica) che forse ti introduce meglio ai suoi libri. beppe

Anonimo ha detto...

Adoro la Vargas. Molto nota tra i giovani europei (meno in Italia) mi diceva un'amica trentina che mi ha regalato "Chi è morto alzi la mano". E poi ho comprato anche gli altri.

Anonimo ha detto...

imparato molto

Anonimo ha detto...

leggere l'intero blog, pretty good

Anonimo ha detto...

imparato molto