5/26/2008

Uomini, topi, lettori

Accovacciato nel retro di un negozio di libri d'occasione in un vecchio quartiere di Boston, dove da autodidatta impara ad apprezzare non solo la letteratura americana, ma proprio tutta la letteratura, e anche la filosofia, Firmino si chiede se la sua meravigliosa esperienza faccia parte di un disegno oscuro: “Pensavo: E' mai possibile che io, a dispetto delle apparenze,tutt'altro che promettenti, abbia un Destino? E con ciò, intendevo quel genere di cose che succedono alle persone nelle storie, dove gli accadimenti di cui è fatta una vita, per quanto vorticosi e ribollenti possano essere, infine sono sempre manifestazione, in quel loro stesso vorticare e ribollire, di un preciso disegno. Le vite, nelle storie, hanno sempre un significato e un fine. Persino le esistenze più balorde e senza scopo, come quella di Lenny in Uomini e topi, acquistano, per il fatto stesso di trovar posto in una storia, perlomeno la dignità e il senso di rappresentare Esistenze Balorde e Senza Scopo, un'esemplarità consolante insomma. Nella vita reale non ti è concesso nemmeno questo”.
La vita reale di Firmino è quella di un ratto un po' più magro e sfigato degli altri, partorito lì da una pantegana alcoolizzata con altri dodici fratelli, e lì rimasto, perché dopo averli prima mangiati per fame ha cominciato a leggerli, i libri, e se ne è innamorato. Ha intrapreso la carriera di lettore, e sogna a occhi aperti. Vorrebbe scrivere, se fosse abbastanza pesante da smuovere i tasti di una Remington. E' un lettore muto, senza quei fratelli-lettori coi quali, diceva lo scrittore Peter Bichsel, chi legge vorrebbe condividere la propria esperienza. Firmino è il personaggio e narratore del libro, senz'altro autobiografico, dell'esordiente Sam Savage, successo mondiale dopo essere uscito in una tiratura di mille copie da un piccolo editore (edito in italiano da Einaudi Stile Libero). Si sarà notato, nella lunga citazione, che Firmino chiama persone i personaggi: uno slittamento da cui si nota come la lezione di Pirandello agisca in questo sorprendente capolavoro. Agisce soprattutto la quintessenza del senso della letteratura, che è il palesarsi della condizione umana: quella del sogno, del desiderio, la ricerca di un senso della propria vita da riconoscere. Firmino commuove e si commuove, si identifica nella spaventosa bruttezza del Fantasma dell'opera come nel seduttore Fred Astaire (Firmino guarda a scrocco anche i film notturni del vicino varietà). Noi lo accompagniamo nelle sue avventure di sognatore così come nelle deambulazioni a caccia di cibo per sopravvivere nello storico ma precario quartiere, che verrà demolito (e derattizzato) a vantaggio degli speculatori immobiliari. Leggere è il suo contagioso lavoro. Ogni tanto compone mentalmente la sua romantica Ode alla notte. Nella seconda parte della sua vita sarà ospitato da uno scrittore di fantascienza ubriacone, per il quale suona una minuscola pianola per bambini: Firmino ama il jazz. Ma Firmino non è un fumetto. E' letteratura alta, quella che fa vedere con le parole e la loro sintassi. Firmino, persona-personaggio, non è neanche una metafora, tantomeno un'allegoria. E', come il genere a cui appartiene, una metamorfosi: come il topo canterino del racconto di Kafka, e come tutti gli altri suoi animali (la scimmia accademica in primis), come i topi che suonano il flauto in Cronache del dopobomba di Philip K. Dick. Tutte le metamorfosi, insegnava Gilles Deleuze, sono deterritorializzazioni, aperture e liberazioni di spazi di vita, linee di fuga, a volte viaggi immobili, cioè intensi e intensivi. Cioè letteratura. Perché “non si scrive per diventare scrittori, ma per diventare altro”. Firmino, e Sam Savage, scrivono e leggono per diventare letteratura, e trovare una via d'uscita. Nel mondo reale, i derattizzatori si chiamano per cacciare via quelli così - nomadi, lettori, uomini o topi, non è importante.
(uscito su l'Unità del 26-5-'08)

5/23/2008

Cambiare la vita

In questi ultimi giorni ho divorato, approfittando di ogni momento libero, la versione italiana dell'ultimo romanzo di Stephen King. Per i primi due terzi è davvero molto bello: storia del rinascere, del riscoprire il mondo - un menomato e cerebroleso che, come in certe storie di Philip K. Dick, acquista poteri, ma soprattutto assapora la vita. Diventa pittore. Scopre, oltre il bello, il sublime (che è sempre inumano). Anch'io vorrei andare a Duma Key (è il titolo del romanzo di King), almeno per la prima metà della storia. Credo che ce ne siano tante, a saperle scoprire. Anch'io come tanti, come voi, vorrei resettare la vita ogni tanto. E così passo a una segnalazione interna, perché da poco il webmaster ha infilato qui nel sito ("incontri") una conversazione che feci con la figlia di Gregory Bateson (il grande, grandissimo). Lei è la figlia dei suoi famosi "metaloghi". Ma è anche autrice di vari libri in proprio, tra cui Comporre una vita, biografie (femminili) di chi ricomincia proprio dopo un trauma privato, o comunque da una trasformazione radicale della propria vita. Se vi va, leggete il mio incontro con lei qui.

5/19/2008

La vita nuda dei Rom

Copio e incollo qui di seguito il mio pezzo che è uscito ieri 18 maggio sulle pagine della Domenica di Repubblica (Penso di essere stato prudente, eppure già oggi, in un'intervista allo stesso giornale, il sindaco di Salerno, ex Ds ora Pd, dice: "basta con la poesia, i Rom vanno sloggiati!", ecc. ecc.). Ah, la foto rimpicciolita sopra è di Simona Caleo.
LA VITA NUDA DEI ROM
Dopo avere svoltato a destra dalla via Casilina, poco prima dell’incrocio con via Palmiro Togliatti, e dopo aver percorso il sentiero costeggiato da un lungo muro compatto di automobili pressate del contiguo sfasciacarrozze, la prima cosa che vedo è uno spiazzo bianco sterrato avvolto da una nuvola di suoni e canti gitani, diffusi da un impianto stereo a cielo aperto. Una signora col fazzoletto sulla testa arrostisce un maialino allo spiedo sospeso su una vasca da bagno bianca. Tutt'intorno detriti, polvere, rottami. Ma la visione è pop, un quadro che sembra tratto da un film di Kusturika dai colori sgargianti, più Arizona dream che non Underground. Mi trovo invece in quello che resta del più storico campo di Rom, “Casilino 900” (ex Casilino 700), in compagnia di Francesco Careri e Lorenzo Romito, architetti e artisti del gruppo Stalker-Osservatorio Nomadi di Roma. Alcuni dei nomadi che qui risiedono (si noti l’ossimoro) senza residenza né permesso di soggiorno (i paradossi si sprecano) dimorano qui dal 1968. Quarant'anni senza essere riconosciuti, senza diritto di cittadinanza neppure per chi vi è nato e cresciuto. So che quello vedo è così precario che mi viene in mente la frase di Cézanne, poi ripresa da Wenders: bisogna fare presto se vogliamo vedere qualcosa, tutto sta per scomparire.
Il giorno della mia visita non erano ancora avvenuti gli incendi e gli assalti stile pogrom dei campi nomadi a Napoli. Né i sondaggi che attestano un'insofferenza sempre più irrazionale degli Italiani per questo popolo, la cui diversità suscita solo desiderio di eliminazione, e non di conoscere la natura di questa differenza. Ma i Rom erano ugualmente angosciati: temono i prossimi sgomberi forzati, e non pochi di essi, al nostro passaggio, donne e uomini anziani soprattutto, sono usciti dalle loro case-verande per chiedere notizie. Volti rugosi e occhi rassegnati, un fioco desiderio di sperare. Alcuni ci hanno scambiato per quelli che, tempo fa, “guidavano le ruspe” che hanno demolito decine di baracche per spianare la strada. “Motivi di sicurezza”.
Ora, dall'infanzia per me gli zingari erano i giostrai e quelli del circo. Erano italiani. I Sinti. I nomadi che vivono qui da anni - quando c'erano anche immigrati del Sud che per sopravvivere vendevano aglio, e ora popolano i palazzoni popolari del quartiere – vengono dai paesi balcanici dilaniati dalle guerre. Anche tra loro, come imparerò, sono diversi: i bosniaci dai kosovari, dai serbi, montenegrini, e così via. Diversi negli abiti femminili, nell'abitare, nel posizionare il bagno dentro o fuori casa. Quelli che hanno i furgoni sono artigiani, ecc. Eccomi dunque qui a guardare, cercare di conoscere. Dietro la signora col fazzoletto, la vasca bianca e il maialino, che già diffonde odore di carne bruciata che si confonde come vapore coi canti ipnotici, osservo la baracca di legno celeste, il suo pergolato di vite a cui sono appesi vasi di fiori, sia veri che finti. La casetta di fianco ha un balcone di legno bianco con una ringhiera di assi oblique, secondo un disegno ornamentale che ricorre in ogni veranda. Coperte e copriletti variopinti sono appesi a prendere aria, come una domenica mattina. Tra una casa e l’altra spiccano i gabinetti chimici azzurri, le cabine Sebach che si vedono nei cantieri edili per i bisogni degli operai. Qui, come in molti altri campi, non è mai stata disposta una rete idrica, né elettrica. Ma com’è che tutte queste baracche, povere e circondate di detriti, danno un’idea così forte di casa, di una vita che si stenta a riconoscere ma che ci ricorda l’idea confusa e intensa che se ne aveva nell’infanzia? E', credo, l'umanità, la vita che qui è così nuda.
Una bambinetta bionda va su e giù sorridendo con la bicicletta tra pozzanghere, pneumatici, pezzi di ferro. E’ bella, è una delle figlie di Najo Adzovic, il rappresentante dei Rom di cui siamo ospiti. Adesso le donne accendono il fuoco anche di fianco alla sua casa, e qui e là tra le baracche maiali e agnelli impalati arrostiscono inondando l’aria. Si prepara la festa di San Giorgio, importante quanto l’ultimo giorno dell’anno, se non di più: è la festa di mezz’estate, cioè di “mezza vita”. Nella tradizione nomade è il giorno in cui ci si chiede: cosa abbiamo fatto finora della nostra vita? Si dice Upasomilai, e già in questa parola la lingua romanès rivela la sua ascendenza sanscrita. Stasera qui danzeranno a lungo.
Nonostante San Giorgio, non tutti hanno voglia di festeggiare. Beviamo un caffè turco seduti nella veranda di Zarko, completo marrone e volto triste. Lui e sua moglie ci raccontano con grande dignità le loro disgrazie. Un figlio in prigione accusato di furto. La sparizione delle loro modeste mercanzie – stracci e borse in sacchetti di plastica – gettati come monnezza da chi ha fatto l'ultimo sgombero. Non avere più quella “monnezza” da vendere significa fame. Parlano soprattutto dei figli, di cui a un certo punto ci mostrano una cartelletta con tutti i documenti tenuti in un ordine invidiabile. Sfoglio certificati ed estratti di atti di nascita, codici fiscali, pagelle scolastiche (“Documenti di valutazione del Ministero della Pubblica Istruzione”), certificati dell'Opera Nomadi, libretti sanitari (Servizio Sanitario Nazionale, regione Lazio): tutto inutile ai fini della richiesta di una cittadinanza. Per chiedere il passaporto italiano dovrebbero esibire quello slavo. Ma né loro, né tanto meno i figli, hanno qualcosa del genere. Che cosa è oggi “slavo”? Così si perpetuano generazioni di apolidi, di senza diritti, di ontologicamente precari e clandestini. Che subiscono ricatti e violenze. Non avendo diritti, sono alla mercè di ogni sopruso. Ma mi raccontano anche l'umanità e la gentilezza di tanti poliziotti.
Per i Rom ogni “casa” vive il suo spirito nella veranda all’aperto. L'altra in cui ci sediamo a parlare, costruita da Najo, è una sorta di giardino d'inverno con rudimentali pareti mobili di legno e vetrate. Il tetto appoggia su assi disposte a raggiera, un buco al soffitto serve per la stufa, perché d'inverno qui si cucina. Najo è autore di un libro - Il popolo invisibile - che racconta la storia della sua infanzia nell'ex Jugoslavia, scolarizzato e integrato tra Gagè (quelli come noi, gli stanziali), fino all'implosione di quel Paese e la sua fuga dalla guerra (bollato come “disertore e traditore”). Il suo libro è anche un quadro prezioso della vita e della tradizione culturale dei Rom. Gli chiedo se i nomadi stanno ormai accettando di diventare stanziali. La risposta è sì, se glielo permettiamo, regolarizzandoli e dando loro diritti. Anche perché il loro nomadismo, il loro essere “stranieri”, cioè uguali ma diversi (fu già così per gli Ebrei, perseguitati fin dal Trecento) è qualcosa di interiore e culturale che si tramanda, come la lingua. Spiegava George Simmel: lo straniero non è chi arriva oggi e parte domani, come il turista, ma chi domani non parte, e resta ad arricchire il nostro stile di vita con una modalità altra – un'altra lingua, un'altra tradizione.
Najo ha una passione che definirei politica, ma di una politica così vera ed evidente che ha ormai poche sponde nel mondo là fuori, oltre i muri di sfasciacarrozze, insomma inella città di noi gagè. Tutti sembrano uniti dalla volontà di togliere l'ultimo barlume di visibilità a questo popolo già invisibile. Da tempo è in corso una guerra contro i poveri (non contro la povertà), e la politica difende ostinatamente uno stile di vita e di consumi che in nessun momento mette in discussione nonostante l'incombere di catastrofi ecologiche. Ma anche l'intolleranza per la diversità in genere è in aumento. Eppure Najo è animato da un progetto che sembra un'utopia, quella di un'area abitata dai Rom, una “città nella città”, con laboratori artigianali di lavoro del legno, del ferro, del rame, possibilità di fare i mercatini, educazione e scuole assicurate per i loro bambini. Vuole proporre il progetto al nuovo Sindaco di Roma. Loro stessi, ne è certo, dall'interno potrebbero efficacemente prevenire e reprimere la microcriminalità. Già adesso la scolarizzazione è del del 95%, e cinquanta famiglie qui sopravvivono grazie all'artigianato e ai mercatini. “Se uno ha la casa, dice Najo, se ha la dignità, il lavoro, dei diritti, non va a fare il delinquente”. Mi parla del loro codice d'onore, della solidarietà che li lega. “Avete mai visto un rom anziano in una casa di riposo?”
Ora, il lettore non fraintenda: non sono un marziano, e questa non è un'apologia degli zingari. Lo so che molti di loro rubano, lo sa anche Najo. Hanno alcune pessime abitudini. E ho anch'io la mia bella dose di pregiudizi e di barriere culturali. Ho subito due furti odiosi nell'appartamento, computer compreso: lo stile è quello dei ragazzini zingari, hanno detto i poliziotti quando hanno saputo che erano state rubate anche le felpe del bambino. Ci sono anche alcuni campi che hanno come risorsa dominante il crimine. Ma se i colpevoli sono dei singoli, perché colpevolizzare un popolo, risvegliando o rinnovando lugubri odi razziali? “Il triangolo nero – Nessun popolo è illegale”: così titolava un appello proposto da un certo numero di scrittori italiani all'epoca della prima ondata emotiva e delle rappresaglie contro i Rom, lo scorso novembre. Raccolse migliaia di firme. Quando diciamo “nomadi” racchiudiamo in una parola un coacervo di etnie, un mondo di mondi. Oggi nel suo insieme il popolo dei Rom, ovvero “uomini liberi”, chiede agli stanziali, ai gagè, aiuto nel vivere dignitosamente, offrendo abilità e competenze. Chiedono un'integrazione che non sia eliminazione della loro differenza, ma la valorizzi. Chiedono di poter lavorare e di potersi muovere liberamente dopo il lavoro. Sono felici di poter testimoniare di se stessi e del loro popolo, come è accaduto quando, nel Giorno della Memoria, alcuni anziani Rom, un uomo e una donna, raccontarono la loro sopravvivenza nel campo di concentramento di Agnone ad una scolaresca romana.
Ora cammino di nuovo per il campo con gli amici del gruppo Stalker, Francesco Careri e Lorenzo Romito. Calpestiamo macerie. Il degrado, mi dicono, è evidente. Loro hanno varie persone da salutare, non solo Rom, persone che hanno scelto il nomadismo come soluzione abitativa più adatta alla loro indole. Il grande Ivan Illich scriveva che viviamo parcheggiati come automobili in garage, che l'attività umana dell'abitare si è ormai spenta nella nostra civiltà. Viviamo in un mondo prefabbricato, senza lasciare tracce. E anche i commons, gli spazi di uso comune, sono in via di estinzione. E' un paradosso che i nomadi siano gli unici portatori di un'arte di abitare? Studiando le loro tipologie abitative, la loro dimensione ecologica ed economica spesso geniale – le loro misere case sono più belle e costano meno dei containers forniti dai Comuni, oltre a essere a bassissimo impatto ambientale - i miei accompagnatori hanno cominciato a penetrare la loro cultura. Il gruppo Stalker ha studiato il nomadismo come categoria filosofica e prativa estetica (come nel bel libro di Francesco Careri, Walkscapes, edito da Einaudi). L'anno scorso con gli studenti hanno risalito il corso del Tevere documentando e raccontando le baracche e la vita dei più poveri. Alla Triennale di Milano, il prossimo 22 maggio, porteranno un progetto, “Campus Rom”, frutto di una collaborazione tra l'Università di Roma Tre e quella di Delft (che andrà in seguito alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia). Contiene precise proposte. La prima è quella di un passaporto europeo transnazionale per i Rom, per muoversi liberamente sul suolo europeo (ex Jugoslavia compresa): per sanare il debito nei loro confronti che data dalla Shoah, che come è noto riguardò anche i Rom. Nella loro lingua, Olocausto si dice Samudaripen, “tutti i morti”, ma nessun Rom fu chiamato a testimoniare al processo di Norimberga. Ma va anche ricordato il loro pacifismo: il popolo Rom non ha mai fatto una guerra in tutta la Storia.
A Milano si esporrà il prototipo di una casa Rom, e il video documentario della sua costruzione. Si tratta di imparare da loro ad abitare in modo ecologico, a partire dai consumi e dalla cultura del riciclaggio. Infine una proposta urbanistica e politica: chiudere tutti i campi rom e aprire delle micro-aree secondo il loro habitat evolutivo, basato sull'espansione delle famiglie. “Si tratterebbe di lasciare germogliare le case in autocostruzione, dando loro un pezzo di terra. Tanti italiani potrebbero avvantaggiarsi di questo modello abitativo, che non deve produrre ghetti, ma innesti creativi metropolitani che possono corrispondere ai bisogni e agli stili di vita di artisti, di giovani, di tanti altri”. “Ma la cosa più urgente - mi dice Careri - è cambiare l'immaginario collettivo sui Rom. Tutti ne parlano, nessuno li conosce. Nei loro campi ci va solo la polizia. O le squadre violente di questi giorni. Eppure, il mondo sarebbe più bello con loro”.

5/13/2008

L'ultimo romanzo di Francesca Sanvitale (e tanti auguri per il suo ottantesimo compleanno)

Leggendo L’inizio è in autunno (Einaudi), l’ultimo romanzo di Francesca Sanvitale, ho provato un piacevole spaesamento. Non mi è facile spiegarlo, anche perché in realtà si trattava di un agio – mentre lo spaesamento è di solito dalla parte del disagio, per quanto sottile e spesso benefico. L’agio mi è stato dato dalla forma, dal tono, dalla materia stessa del raccontare. Qualcosa di nuovo, anzi d’antico: il piacere di una narrazione delicatamente realista che fin dall’inizio non promette nulla, nessun effetto speciale; una specie di costante oscillazione tra persone e personaggi, fin dalla prima pagina, dove si registra l’irruzione di suoni, di voci e di visioni dalla finestra del protagonista, narrato in terza persona ma punto di vista soggettivo dell'intero romanzo.
Questo personaggio - il lettore lo viene a sapere subito - è uno psichiatra poco più che quarantenne, in congedo per lavorare a un libro che raccolga e sistemi in forma di saggio didattico i suoi casi clinici. Ecco che lo spaesamento diventa il sentimento di cui è portatore il personaggio, e noi lettori ce ne liberiamo. Seguiamo quindi le sue piccole nevrotiche abitudini, la scelta di una trattoria in disparte e in penombra in cui consumare i pasti e le pause di questo periodo di lavoro in solitudine, in una Roma estiva, assolata e semideserta. Poi l’incontro, cui lo psichiatria è evidentemente predisposto, con l’altro habitué del ristorante, una persona, pardon personaggio, che lo intriga psichicamente, anzi narrativamente (e osservo così, di passaggio, che questo psichiatra che ricompone le vite altrui sembra la controfigura di un narratore; i suoi casi clinici sono del resto racconti, abbozzi di biografie). Il nuovo personaggio colto dallo sguardo empatico dello psichiatra è invece un maestro del restauro di origine giapponese, il quale ha partecipato tra l’altro al monumentale celebre restauro della Cappella Sistina affrescata da Michelangelo. E si sa che non esistono incontri casuali.
Quest’incontro così sommesso all’inizio, come la penombra della trattoria dal menù fisso tra Prati e San Pietro, porterà a una graduale eppure sconvolgente svolta nel destino dei personaggi (con tanto di innamoramenti, triangolazioni amorose, eros e thanatos). Ma fin da pagina otto, con la scoperta della trattoria, il lettore si abbandona fiducioso, sospendendo ogni incredulità, a una narrazione sapiente e fluida, in cui il fatto di non sapere che cosa sia importante notare (all’inverso di tanti romanzi gialli o noir gonfi di effetti e colpi di scena emozionanti come cartelli stradali), costituisce il piacere della storia. Il piacere del testo, come si diceva una volta.
E’ il piacere che ho evocato sopra come spaesamento: riconoscere che non c’è bisogno di un alto tasso di intensità emotiva e di eventi perché vi sia suspense, perché scattino attese narrative nel lettore. I turbamenti professionali e le ruminazioni dello psichiatra-scrittore – se le donne e gli uomini in cura da lui siano guariti grazie o malgrado la sua terapia, per esempio; le confidenze via via più allucinanti dell'artista restauratore, che si dichiara colpevole di avere cancellato nientedimeno che il volto di Cristo nella cappella Sistina, e di averlo rifatto di sana pianta; la deriva amorosa della sorella minore della psichiatra, l’amore che lega lo psichiatra alla donna del restauratore, già condannata da una malattia, fino alla morte di lei; tutto questo intrico di storie disegna sì un universo perturbante, il dispiegarsi di un Unheimlich che irrompe nella vita apparentemente monotona, dopo di che nulla è più come prima. Ma, come nei migliori romanzi (come anche in quelli di Stephen King) il lettore capisce dall’inizio che ogni monotonia è solo apparente, che la routine della vita non esiste, che le percezioni e osservazioni della prima pagina sui rumori, le voci della strada, le finestre di fronte, i passanti, tutta la vita ordinaria e quotidiana, prevedibile e banale, è in realtà un pullulare di storie, di vita caotica, che solo l’arte di un narratore (di uno psichiatra che abdica al suo metodo e si fa scrittore, di un restauratore di affreschi che si fa pittore) può in qualche modo sopportare, amare, governare. Francesca Sanvitale, ricordo, non è nuova a questo tipo di esperienze: basti pensare al suo romanzo precedente, L’ultima casa prima del bosco (Einaudi 2003), grande affresco-archivio, tra Perec e Pirandello, che sfoglia le vite e le storie di generazioni di abitanti di un condominio attraverso la Storia e le tragedie del Novecento.
Ci sono pagine trascinanti, di altissimo stile, in questo ultimo romanzo di Francesca Sanvitale, che sono forse il cuore creativo del libro. Là dove, a seguito di una squisita e intensa descrizione dell’affresco del Giudizio Universale, l’autrice affida alle parole del restauratore giapponese il sentimento del sublime, l’emozione di essere al cospetto dell’arte, di “toccare e vedere risorgere dal buio, pennellata dopo pennellata, l’armonia e la bellezza (...), la grandezza che non è umana, è luce multicolore che attraversa corpi e visi, abbaglia chiunque le sta troppo vicino”. Quando il racconto in crescendo del restauratore giunge all’“attimo dello svelamento” (il momento in cui si leva l’impacco che ha ripulito l’affresco), “nel quale coincidono bellezza e verità”, il parallelo tra il lavoro di colui che dissolve i fantasmi delle malattie mentali, e quello del restauratore di affreschi offuscati dal tempo, si è già formato nella mente del lettore, anche perché si tratta della parte dell’affresco michelangiolesco che riguarda “lo spettacolo della paura forsennata” dei dannati, e lo sguardo compassionevole che Cristo, “il ritratto di un ragazzo innocente”, porta sui reietti.
La potenzialità del giallo – la sostituzione del volto di Cristo sfigurato e ricreato all’insaputa del mondo – resta a incombere sullo sfondo. Francesca Sanvitale non ha bisogno di questo tropo narrativo per descrivere l’inestricabile fusione di innocenza e colpa, di ordine e disordine, di verità e finzione, nella vita degli umani parlanti e mortali.
(recensione uscita su l'Unità del 14 maggio, con un altro titolo)

5/10/2008

Diventare libro (il funerale di uno scrittore)

Ieri ho partecipato al funerale di un amico che vedevo poco e stimavo molto, a cui mi sentivo intimamente legato e a cui volevo molto bene. Parlo dello scrittore Luigi Malerba. La cerimonia funebre è avvenuta nella Chiesa di Santa Maria dei Miracoli a Piazza del Popolo, nota come la chiesa degli artisti. Il sacerdote ha fatto un discorso sul senso della vita dedicata allo scrivere, e sul senso dei libri (biblia, Bibbia), più alto sicuramente della media degli interventi di scrittori e intellettuali in genere.
Ma ho ascoltato anche altre testimonianze belle e commoventi. Paolo Mauri ha ricordato come Malerba si vergognasse della morte e del morire, del mostrarsi impudicamente morti. Un po' come (parallelamente) scrisse della vergogna di scrivere (anche in un suo omonimo, delizioso, piccolo libro). Ed è chiaro che qui si toccano gli attributi specifici dell'umano fin dall'antichità, senza i quali non vi sarebbe pensiero, non vi sarebbe nulla: scrivere e morire, il linguaggio e la coscienza della morte. Mauri ha poi suggerito - a proposito della confidenza intima di Luigi alla moglie Anna di non voler essere sepolto sotto terra, ma al limite infilato in uno di quei loculi su una parete muraria, magari là in alto, come si dice di un libro su uno scaffale - che il suo sogno inconscio era cioè di diventare libro, entrare a far parte di una biblioteca, versione laica del paradiso (non so neppure quanto laica, dato che concilia e confonde immanenza e trascendenza). Non ci sono dubbi che il suo desiderio sia esaudito (i libri durano tanto più a lungo degli umani in carne e sangue). Ma il diventare libro è qualcosa di più ampio della durata, ed è ciò che ha reso quel funerale la cerimonia di una condizione umana, quella degli scrittori, che via via si espande nella condizione umana (la stessa, se ci pensate e se lo leggete, della storia del topo lettore e quindi sognatore di Sam Savage, Firmino). Leggere (e scrivere, immaginare) come atto sacro, ma paradossalmente non separato dal mondo, così come l'Infinito si radica nel qui e ora della vita, nella siepe.
P.S. Un'amica artista, Laura Palmieri, mi ha ricordato poco fa che in quella chiesa detta degli artisti succede spesso di vivere delle vere esperienze. A volte viene intonata la "preghiera degli artisti", molto intensa nonostante l'approssimato e goffo ricordo che posso dare io di una delle frasi: "Dio perdonaci noi siamo gli artisti siamo molto difettosi e quindi perdona i nostri errori e peccati, il fatto è che cerchiamo di essere come Te".
P.S. 2 Tra i miei libri, Luigi Malerba amava molto, diceva, o forse unicamente (a parte i miei primi raccontini) un romanzo di qualche anno fa, Tolbiac. Ora mi rendo conto che parla proprio di questo, di scrittura che resta e di autori che spariscono (è la storia di uno scrittore scomparso, con molte tracce). Soprattutto mi viene in mente una frase di Max Frisch che usai come esergo: "Essere eterni: avere vissuto".

5/06/2008

Old Italian Epic - una passeggiata tra le Barricate

Così, non so bene perché, credo per un'associazione di idee, in questi giorni mi è venuto in mente di proporre questo mio pezzo di qualche anno fa (da poco messo sul sito dal webmaster). Genere: passeggiata. Una passeggiata sui luoghi delle mitiche Barricate di Parma del 1922. Si intitola Oltretorrente, come il quartiere in cui sono avvenute - oggi zona soprattutto di immigrati...