5/10/2008

Diventare libro (il funerale di uno scrittore)

Ieri ho partecipato al funerale di un amico che vedevo poco e stimavo molto, a cui mi sentivo intimamente legato e a cui volevo molto bene. Parlo dello scrittore Luigi Malerba. La cerimonia funebre è avvenuta nella Chiesa di Santa Maria dei Miracoli a Piazza del Popolo, nota come la chiesa degli artisti. Il sacerdote ha fatto un discorso sul senso della vita dedicata allo scrivere, e sul senso dei libri (biblia, Bibbia), più alto sicuramente della media degli interventi di scrittori e intellettuali in genere.
Ma ho ascoltato anche altre testimonianze belle e commoventi. Paolo Mauri ha ricordato come Malerba si vergognasse della morte e del morire, del mostrarsi impudicamente morti. Un po' come (parallelamente) scrisse della vergogna di scrivere (anche in un suo omonimo, delizioso, piccolo libro). Ed è chiaro che qui si toccano gli attributi specifici dell'umano fin dall'antichità, senza i quali non vi sarebbe pensiero, non vi sarebbe nulla: scrivere e morire, il linguaggio e la coscienza della morte. Mauri ha poi suggerito - a proposito della confidenza intima di Luigi alla moglie Anna di non voler essere sepolto sotto terra, ma al limite infilato in uno di quei loculi su una parete muraria, magari là in alto, come si dice di un libro su uno scaffale - che il suo sogno inconscio era cioè di diventare libro, entrare a far parte di una biblioteca, versione laica del paradiso (non so neppure quanto laica, dato che concilia e confonde immanenza e trascendenza). Non ci sono dubbi che il suo desiderio sia esaudito (i libri durano tanto più a lungo degli umani in carne e sangue). Ma il diventare libro è qualcosa di più ampio della durata, ed è ciò che ha reso quel funerale la cerimonia di una condizione umana, quella degli scrittori, che via via si espande nella condizione umana (la stessa, se ci pensate e se lo leggete, della storia del topo lettore e quindi sognatore di Sam Savage, Firmino). Leggere (e scrivere, immaginare) come atto sacro, ma paradossalmente non separato dal mondo, così come l'Infinito si radica nel qui e ora della vita, nella siepe.
P.S. Un'amica artista, Laura Palmieri, mi ha ricordato poco fa che in quella chiesa detta degli artisti succede spesso di vivere delle vere esperienze. A volte viene intonata la "preghiera degli artisti", molto intensa nonostante l'approssimato e goffo ricordo che posso dare io di una delle frasi: "Dio perdonaci noi siamo gli artisti siamo molto difettosi e quindi perdona i nostri errori e peccati, il fatto è che cerchiamo di essere come Te".
P.S. 2 Tra i miei libri, Luigi Malerba amava molto, diceva, o forse unicamente (a parte i miei primi raccontini) un romanzo di qualche anno fa, Tolbiac. Ora mi rendo conto che parla proprio di questo, di scrittura che resta e di autori che spariscono (è la storia di uno scrittore scomparso, con molte tracce). Soprattutto mi viene in mente una frase di Max Frisch che usai come esergo: "Essere eterni: avere vissuto".

10 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho apprezzato molto questo post. E' bello immaginare che la necessità di continuità dell'uomo possa tradursi non in un'idea ma nella più concreta materia.

Anonimo ha detto...

Grazie. b.s.

marisgutta ha detto...

I fratelli Tanner di Walser mi hanno portata qui, e non riesco più ad uscirne...

Anonimo ha detto...

gentile marisgutta, grazie del verosimile complimento (non credo che stia citando joe strummer di "lost in a supermarket"...). ho approfittato per fare un giro nel suo sito, e ho riso alla foto del david molto grasso...). b.s.

Anonimo ha detto...

eppure, la sensazione è sempre quella di non poter andare al nostro funerale, eppure, essendo noi i "festeggiati" non ne godiamo come per qualsiasi festa. Ci rimane per tutta la vita questa sensazione di non partecipare al piacere, da vivi. Da morti siamo realizzati. Laura palmieri

marco ha detto...

basta leggere il fu mattia pascal, o vivere da morti, cioé scrivere. Domani a Parigi ne danno la versione cinematografica di Monicelli. Non avete che a venire a Parigi, le terrasses sono incantevoli, la luce nitida, i pastice duraturi. Un saluto al padrone di casa. Marco

Anonimo ha detto...

(non hai idea, marco, proprio non hai idea, in questo momento, dell'intensità della nostalgia e del desiderio che susciti in me accennando con poche metonimie alla vita nella mia ex (spero non per sempre) città. abbracciamela. beppe s.)

Anonimo ha detto...

Ero passata ieri sera a leggere. Poi, chiudendo,mi sono ritrovata a sentirmi suggestionata dall'idea, dall'immagine mentale che hai evocato con queste tue parole:"..infilato in uno di quei loculi su una parete muraria, magari là in alto, come si dice di un libro su uno scaffale - che il suo sogno inconscio era cioè di diventare libro, entrare a far parte di una biblioteca, versione laica del paradiso...". Stamattina ho pensato: " E' questo essere uno scrittore:saper suscitare con poche parole un'intero mondo di immagini ed emozioni che ti rimangono addosso, ti fanno riflettere, pensare, sentire..".

Anonimo ha detto...

grazie rossana...
non so, per me lo scrittore ideale è quello che fa venire voglia di scrivere. (ma devo dire che anche quelli che mi fanno sognare e mi rendono assente da quasi tutto il circostante quando li non sono male...)
(beppe)

Anonimo ha detto...

volevo scrivere: quando li leggo...