Copio e incollo qui di seguito il mio pezzo che è uscito ieri 18 maggio sulle pagine della Domenica di
Repubblica (Penso di essere stato prudente, eppure già oggi, in un'intervista allo stesso giornale, il sindaco di Salerno, ex Ds ora Pd, dice: "basta con la poesia, i Rom vanno sloggiati!", ecc. ecc.). Ah, la foto rimpicciolita sopra è di Simona Caleo.
LA VITA NUDA DEI ROM
Dopo avere svoltato a destra dalla via Casilina, poco prima dell’incrocio con via Palmiro Togliatti, e dopo aver percorso il sentiero costeggiato da un lungo muro compatto di automobili pressate del contiguo sfasciacarrozze, la prima cosa che vedo è uno spiazzo bianco sterrato avvolto da una nuvola di suoni e canti gitani, diffusi da un impianto stereo a cielo aperto. Una signora col fazzoletto sulla testa arrostisce un maialino allo spiedo sospeso su una vasca da bagno bianca. Tutt'intorno detriti, polvere, rottami. Ma la visione è pop, un quadro che sembra tratto da un film di Kusturika dai colori sgargianti, più Arizona dream che non Underground. Mi trovo invece in quello che resta del più storico campo di Rom, “Casilino 900” (ex Casilino 700), in compagnia di Francesco Careri e Lorenzo Romito, architetti e artisti del gruppo Stalker-Osservatorio Nomadi di Roma. Alcuni dei nomadi che qui risiedono (si noti l’ossimoro) senza residenza né permesso di soggiorno (i paradossi si sprecano) dimorano qui dal 1968. Quarant'anni senza essere riconosciuti, senza diritto di cittadinanza neppure per chi vi è nato e cresciuto. So che quello vedo è così precario che mi viene in mente la frase di Cézanne, poi ripresa da Wenders: bisogna fare presto se vogliamo vedere qualcosa, tutto sta per scomparire.
Il giorno della mia visita non erano ancora avvenuti gli incendi e gli assalti stile pogrom dei campi nomadi a Napoli. Né i sondaggi che attestano un'insofferenza sempre più irrazionale degli Italiani per questo popolo, la cui diversità suscita solo desiderio di eliminazione, e non di conoscere la natura di questa differenza. Ma i Rom erano ugualmente angosciati: temono i prossimi sgomberi forzati, e non pochi di essi, al nostro passaggio, donne e uomini anziani soprattutto, sono usciti dalle loro case-verande per chiedere notizie. Volti rugosi e occhi rassegnati, un fioco desiderio di sperare. Alcuni ci hanno scambiato per quelli che, tempo fa, “guidavano le ruspe” che hanno demolito decine di baracche per spianare la strada. “Motivi di sicurezza”.
Ora, dall'infanzia per me gli zingari erano i giostrai e quelli del circo. Erano italiani. I Sinti. I nomadi che vivono qui da anni - quando c'erano anche immigrati del Sud che per sopravvivere vendevano aglio, e ora popolano i palazzoni popolari del quartiere – vengono dai paesi balcanici dilaniati dalle guerre. Anche tra loro, come imparerò, sono diversi: i bosniaci dai kosovari, dai serbi, montenegrini, e così via. Diversi negli abiti femminili, nell'abitare, nel posizionare il bagno dentro o fuori casa. Quelli che hanno i furgoni sono artigiani, ecc. Eccomi dunque qui a guardare, cercare di conoscere. Dietro la signora col fazzoletto, la vasca bianca e il maialino, che già diffonde odore di carne bruciata che si confonde come vapore coi canti ipnotici, osservo la baracca di legno celeste, il suo pergolato di vite a cui sono appesi vasi di fiori, sia veri che finti. La casetta di fianco ha un balcone di legno bianco con una ringhiera di assi oblique, secondo un disegno ornamentale che ricorre in ogni veranda. Coperte e copriletti variopinti sono appesi a prendere aria, come una domenica mattina. Tra una casa e l’altra spiccano i gabinetti chimici azzurri, le cabine Sebach che si vedono nei cantieri edili per i bisogni degli operai. Qui, come in molti altri campi, non è mai stata disposta una rete idrica, né elettrica. Ma com’è che tutte queste baracche, povere e circondate di detriti, danno un’idea così forte di casa, di una vita che si stenta a riconoscere ma che ci ricorda l’idea confusa e intensa che se ne aveva nell’infanzia? E', credo, l'umanità, la vita che qui è così nuda.
Una bambinetta bionda va su e giù sorridendo con la bicicletta tra pozzanghere, pneumatici, pezzi di ferro. E’ bella, è una delle figlie di Najo Adzovic, il rappresentante dei Rom di cui siamo ospiti. Adesso le donne accendono il fuoco anche di fianco alla sua casa, e qui e là tra le baracche maiali e agnelli impalati arrostiscono inondando l’aria. Si prepara la festa di San Giorgio, importante quanto l’ultimo giorno dell’anno, se non di più: è la festa di mezz’estate, cioè di “mezza vita”. Nella tradizione nomade è il giorno in cui ci si chiede: cosa abbiamo fatto finora della nostra vita? Si dice Upasomilai, e già in questa parola la lingua romanès rivela la sua ascendenza sanscrita. Stasera qui danzeranno a lungo.
Nonostante San Giorgio, non tutti hanno voglia di festeggiare. Beviamo un caffè turco seduti nella veranda di Zarko, completo marrone e volto triste. Lui e sua moglie ci raccontano con grande dignità le loro disgrazie. Un figlio in prigione accusato di furto. La sparizione delle loro modeste mercanzie – stracci e borse in sacchetti di plastica – gettati come monnezza da chi ha fatto l'ultimo sgombero. Non avere più quella “monnezza” da vendere significa fame. Parlano soprattutto dei figli, di cui a un certo punto ci mostrano una cartelletta con tutti i documenti tenuti in un ordine invidiabile. Sfoglio certificati ed estratti di atti di nascita, codici fiscali, pagelle scolastiche (“Documenti di valutazione del Ministero della Pubblica Istruzione”), certificati dell'Opera Nomadi, libretti sanitari (Servizio Sanitario Nazionale, regione Lazio): tutto inutile ai fini della richiesta di una cittadinanza. Per chiedere il passaporto italiano dovrebbero esibire quello slavo. Ma né loro, né tanto meno i figli, hanno qualcosa del genere. Che cosa è oggi “slavo”? Così si perpetuano generazioni di apolidi, di senza diritti, di ontologicamente precari e clandestini. Che subiscono ricatti e violenze. Non avendo diritti, sono alla mercè di ogni sopruso. Ma mi raccontano anche l'umanità e la gentilezza di tanti poliziotti.
Per i Rom ogni “casa” vive il suo spirito nella veranda all’aperto. L'altra in cui ci sediamo a parlare, costruita da Najo, è una sorta di giardino d'inverno con rudimentali pareti mobili di legno e vetrate. Il tetto appoggia su assi disposte a raggiera, un buco al soffitto serve per la stufa, perché d'inverno qui si cucina. Najo è autore di un libro - Il popolo invisibile - che racconta la storia della sua infanzia nell'ex Jugoslavia, scolarizzato e integrato tra Gagè (quelli come noi, gli stanziali), fino all'implosione di quel Paese e la sua fuga dalla guerra (bollato come “disertore e traditore”). Il suo libro è anche un quadro prezioso della vita e della tradizione culturale dei Rom. Gli chiedo se i nomadi stanno ormai accettando di diventare stanziali. La risposta è sì, se glielo permettiamo, regolarizzandoli e dando loro diritti. Anche perché il loro nomadismo, il loro essere “stranieri”, cioè uguali ma diversi (fu già così per gli Ebrei, perseguitati fin dal Trecento) è qualcosa di interiore e culturale che si tramanda, come la lingua. Spiegava George Simmel: lo straniero non è chi arriva oggi e parte domani, come il turista, ma chi domani non parte, e resta ad arricchire il nostro stile di vita con una modalità altra – un'altra lingua, un'altra tradizione.
Najo ha una passione che definirei politica, ma di una politica così vera ed evidente che ha ormai poche sponde nel mondo là fuori, oltre i muri di sfasciacarrozze, insomma inella città di noi gagè. Tutti sembrano uniti dalla volontà di togliere l'ultimo barlume di visibilità a questo popolo già invisibile. Da tempo è in corso una guerra contro i poveri (non contro la povertà), e la politica difende ostinatamente uno stile di vita e di consumi che in nessun momento mette in discussione nonostante l'incombere di catastrofi ecologiche. Ma anche l'intolleranza per la diversità in genere è in aumento. Eppure Najo è animato da un progetto che sembra un'utopia, quella di un'area abitata dai Rom, una “città nella città”, con laboratori artigianali di lavoro del legno, del ferro, del rame, possibilità di fare i mercatini, educazione e scuole assicurate per i loro bambini. Vuole proporre il progetto al nuovo Sindaco di Roma. Loro stessi, ne è certo, dall'interno potrebbero efficacemente prevenire e reprimere la microcriminalità. Già adesso la scolarizzazione è del del 95%, e cinquanta famiglie qui sopravvivono grazie all'artigianato e ai mercatini. “Se uno ha la casa, dice Najo, se ha la dignità, il lavoro, dei diritti, non va a fare il delinquente”. Mi parla del loro codice d'onore, della solidarietà che li lega. “Avete mai visto un rom anziano in una casa di riposo?”
Ora, il lettore non fraintenda: non sono un marziano, e questa non è un'apologia degli zingari. Lo so che molti di loro rubano, lo sa anche Najo. Hanno alcune pessime abitudini. E ho anch'io la mia bella dose di pregiudizi e di barriere culturali. Ho subito due furti odiosi nell'appartamento, computer compreso: lo stile è quello dei ragazzini zingari, hanno detto i poliziotti quando hanno saputo che erano state rubate anche le felpe del bambino. Ci sono anche alcuni campi che hanno come risorsa dominante il crimine. Ma se i colpevoli sono dei singoli, perché colpevolizzare un popolo, risvegliando o rinnovando lugubri odi razziali? “Il triangolo nero – Nessun popolo è illegale”: così titolava un appello proposto da un certo numero di scrittori italiani all'epoca della prima ondata emotiva e delle rappresaglie contro i Rom, lo scorso novembre. Raccolse migliaia di firme. Quando diciamo “nomadi” racchiudiamo in una parola un coacervo di etnie, un mondo di mondi. Oggi nel suo insieme il popolo dei Rom, ovvero “uomini liberi”, chiede agli stanziali, ai gagè, aiuto nel vivere dignitosamente, offrendo abilità e competenze. Chiedono un'integrazione che non sia eliminazione della loro differenza, ma la valorizzi. Chiedono di poter lavorare e di potersi muovere liberamente dopo il lavoro. Sono felici di poter testimoniare di se stessi e del loro popolo, come è accaduto quando, nel Giorno della Memoria, alcuni anziani Rom, un uomo e una donna, raccontarono la loro sopravvivenza nel campo di concentramento di Agnone ad una scolaresca romana.
Ora cammino di nuovo per il campo con gli amici del gruppo Stalker, Francesco Careri e Lorenzo Romito. Calpestiamo macerie. Il degrado, mi dicono, è evidente. Loro hanno varie persone da salutare, non solo Rom, persone che hanno scelto il nomadismo come soluzione abitativa più adatta alla loro indole. Il grande Ivan Illich scriveva che viviamo parcheggiati come automobili in garage, che l'attività umana dell'abitare si è ormai spenta nella nostra civiltà. Viviamo in un mondo prefabbricato, senza lasciare tracce. E anche i commons, gli spazi di uso comune, sono in via di estinzione. E' un paradosso che i nomadi siano gli unici portatori di un'arte di abitare? Studiando le loro tipologie abitative, la loro dimensione ecologica ed economica spesso geniale – le loro misere case sono più belle e costano meno dei containers forniti dai Comuni, oltre a essere a bassissimo impatto ambientale - i miei accompagnatori hanno cominciato a penetrare la loro cultura. Il gruppo Stalker ha studiato il nomadismo come categoria filosofica e prativa estetica (come nel bel libro di Francesco Careri, Walkscapes, edito da Einaudi). L'anno scorso con gli studenti hanno risalito il corso del Tevere documentando e raccontando le baracche e la vita dei più poveri. Alla Triennale di Milano, il prossimo 22 maggio, porteranno un progetto, “Campus Rom”, frutto di una collaborazione tra l'Università di Roma Tre e quella di Delft (che andrà in seguito alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia). Contiene precise proposte. La prima è quella di un passaporto europeo transnazionale per i Rom, per muoversi liberamente sul suolo europeo (ex Jugoslavia compresa): per sanare il debito nei loro confronti che data dalla Shoah, che come è noto riguardò anche i Rom. Nella loro lingua, Olocausto si dice Samudaripen, “tutti i morti”, ma nessun Rom fu chiamato a testimoniare al processo di Norimberga. Ma va anche ricordato il loro pacifismo: il popolo Rom non ha mai fatto una guerra in tutta la Storia.
A Milano si esporrà il prototipo di una casa Rom, e il video documentario della sua costruzione. Si tratta di imparare da loro ad abitare in modo ecologico, a partire dai consumi e dalla cultura del riciclaggio. Infine una proposta urbanistica e politica: chiudere tutti i campi rom e aprire delle micro-aree secondo il loro habitat evolutivo, basato sull'espansione delle famiglie. “Si tratterebbe di lasciare germogliare le case in autocostruzione, dando loro un pezzo di terra. Tanti italiani potrebbero avvantaggiarsi di questo modello abitativo, che non deve produrre ghetti, ma innesti creativi metropolitani che possono corrispondere ai bisogni e agli stili di vita di artisti, di giovani, di tanti altri”. “Ma la cosa più urgente - mi dice Careri - è cambiare l'immaginario collettivo sui Rom. Tutti ne parlano, nessuno li conosce. Nei loro campi ci va solo la polizia. O le squadre violente di questi giorni. Eppure, il mondo sarebbe più bello con loro”.