5/08/2007

Estetica delle emozioni

(Questa mia recensione è apparsa ieri, 7 maggio, su l'Unità):

“Piangere almeno per i colori”, “Piangere senza sapere perché”, “Piangere come se fossimo stati colpiti da un fulmine”, “La torre d’avorio dell’incapacità di piangere” “Piangere su Dio”, “Come guardare e magari sentirsi commossi”, ecc. Sono alcuni dei nomi dei capitoli del bel libro di James Elkins, del 2001 ma tradotto da poco in italiano per le edizioni Bruno Mondadori, Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro. In appendice l’autore riporta trentadue lettere (tra le quattrocento ricevute) in cui persone ordinarie, e che scelgono di restare anonime, raccontano episodi di commozione estetica, di pianto guardando opere e quadri dipinti. Alcune di queste lettere sono tra le pagine più belle del libro. Esiste un’estetica della commozione? O meglio: può esistere un’estetica (che significa scienza, o conoscenza, delle sensazioni) che prescinda dalla commozione, dall’affettività, dal pre-concettuale e, forse, addirittura pre-linguistico? Si piange per il “freddo” Mark Rothko e per l’impetuoso Caravaggio, per il romantico Friederich che ci immerge nell’infinito e nel sublime o per una periferia apparentemente priva di bellezza di Utrillo, ma quello che conta è il guardare, l’abbandonarsi del nostro sguardo in qualcosa che ci guarda, ovvero ci riguarda. James Elkins non ha una teoria del pianto e della commozione: il suo metodo è empirico e narrativo, raccoglie e racconta storie, proprie e di altri, per allargare il campo dell’erudizione e dell’estetica, e fare dell’arte una fonte di esperienze autentiche (aggettivo su cui mi soffermerò tra breve).

Qualcosa del genere, in Italia, è da anni il metodo di una studiosa di arte contemporanea e pedagogista, Anna D’Elia (insegna Pedagogia interculturale e dell’Arte all’Università di Foggia e all’Accademia di Belle Arti di Bari), che dopo il recente Nello specchio dell’arte. Figure autobiografiche (Meltemi) ci offre ora, sempre da Meltemi, il volume Per non voltare pagina. Raccontare l’orrore. Nonostante il titolo, sempre di arte e di estetica si tratta, ovvero d educazione alla sensibilità nel mondo delle immagini in un’epoca in cui, a quelle degli artisti contemporanei che l’autrice predilige (da Frida Kahlo a Nan Goldin, da Francis Bacon a Marina Abvramovic) si sovrappongono quelle degli eventi più atroci e della cronaca quotidiana, fatta di guerre, torture, sofferenze. Contro l’indifferenza (formula che accomuna i libri di D’Elia e di Elkins) l’autrice si sforza di analizzare, in un teatro di voci tra madre e figlia che ricorda un po’ la forma del “metalogo” introdotta da Gregory Bateson nella letteratura scientifica, temi come la vergogna (anche per colpe non commesse), il sentimento dell’esilio e dell’estraneità, il valore etico ed estetico della testimonianza, e “che cosa c’entra il sesso con la guerra” (titolo di uno dei primi capitoli): “E se fossimo stati già tutti deportati e non ce ne fossimo neppure accorti? E se i nuovi campi di concentramento fossero diventate le nostre stesse case, le nostre città, la nostra lingua?”

Accennavo sopra a parole ingombranti come autenticità ed esperienza. La soggettività esplicitata, ai limiti dell’autobiografismo, dei libri in questione, non è infatti solo un segno salutare di un allargamento degli orizzonti e delle discipline estetiche, ma segno d un ripensamento assai radicale del valore stesso della cultura. Vengono in mente le osservazioni fulminanti che svolgeva anni fa il filosofo Aldo Gargani a proposito della figura del “maestro”, che si differenzia dall’intellettuale tradizionale (cioè quasi tutti) per il fatto di investigare i modelli teorici presenti anche nelle disposizioni e negli atteggiamenti emotivi. Ecco, l’esperienza dell’autenticità è insegnamento dei maestri, che non esorcizzano l’emotività, lo smarrimento, la paura, la sofferenza. L’emotività muove il discorso e il pensiero, mentre l’intellettuale che la rimuove, che ne esclude il materiale pre-verbale, fa della cultura un’ennesima condizione di alienazione. Piangere di fronte a un quadro, guardare in faccia l’orrore, parlarne, vivere e raccontare queste esperienze, significa uscire dai ranghi degli intellettuali che parlano in realtà solo per tacere.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

un giorno, quando sarai qui e ti mostro Haarlem, entreremo a vedere
il grande Frans Hals.
marino

Anonimo ha detto...

Ricordo (con gratitudine) il pianto trattenuto a stento del mio compagno, uomo di manifestazioni affettive assai parsimoniose, di fronte ai "Casolari con il tetto di paglia a Cordeville" di Van Gogh, alla Gare d'Orsay.

mm