Navigando, scorrazzando distrattamente per Internet (la solita serendipity, trovare quello che non si cerca) mi imbatto in una frase che mi piace, in un sito gradevole. La frase è questa:
Come si può essere consapevoli della sofferenza, dell’imparare a imparare, dell’inautenticità e autenticità della nostra esistenza, se non sappiamo le parole non solo per dire, per nominare ciò che sentiamo e viviamo, ma neppure per ascoltare; se nessuno ci ha insegnato come trovarle, se anzi abbiamo perso l’idea dell’importanza delle parole; se nessuno più ci ricorda che articolare le parole in frasi ci permette appunto di essere maestri di una situazione – di una situazione di sofferenza, ad esempio. Bisognerebbe ricordarsi più spesso che leggere e scrivere sono una fatica del corpo. “Leggere” (così come “religione”) viene dalla stessa parola che designa un’attività fisica legata all’agricoltura, al lavoro della terra:”legare”, fasciare insieme. La penuria di parole e frasi traduce l’impoverimento della vita. Così, la distanza dalle cose e dalle esperienze reali, concrete; la triste insensatezza di certe costruzioni abitative, come le villette con le statuine dei sette nani; l’incapacità di descrivere un’esperienza vissuta, per esempio un viaggio, ma solo di commentarla: sono alcuni esempi di come, metaforizzazione su metaforizzazione, si finisca per “vivere per trasposta persona”.
La frase mi piace, l'ho sentita vicina. Salvo leggere, nelle righe suggessiva, che "Così scriveva Beppe Sebaste in Porte senza porta. Incontri con maestri contemporanei (Feltrinelli 1997)" (un libro oggi introvabile). Era il capitolo sullo scrivere, con Elizabeth Bing. Domanda: ci si può distanziare così da se stessi, dalle proprie parole? guardarsi dall'esterno? Evidentemente sì, e non mi sembra una cosa brutta. E poi, come ho scritto una volta sulla copertina di un altro libro, "Niente di tutto questo mi appartiene", soprattuto le parole (che come le idee, chissà da dove vengono) Ma la chiusa del post, in quel sito che vi dicevo sopra, aggiungeva, per associazione di idee, questa frase bellissima di Ezra Pound:
Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura.
P.S. "Mantenere la parola", di eco blanchotiana, era il titolo che avevo dato a un corso di scrittura creativa che feci pionieristicamente a Bologna, giovanissimo, tanti anni fa. Parlavo di tutto - del volto, dei luoghi... - meno che di scrittura. Non ho mai creduto in effetti che la si possa insegnare. La cura però sì. La manutenzione. Il rigore. E se continuo finisce che mi metto a parlare di etica e di politica...
3 commenti:
ebbi il piacere di intervistarla molti anni fa, ormai. saluti
posso sapere (anche privatamente) da chi, e quando? comunque, grazie, anche per il suo, o tuo, blog. beppe s.
paolo melissi
per il mattino di napoli, intervista a milano in casa editrice feltrinelli
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