Sembrava che la Luna non interessasse più
nessuno, invece se ne preparava il revival. E mentre la Cina diventava il terzo
Paese capace di arrivarci, con l'allunaggio di un robot nella “Baia degli Arcobaleni”, sbarcava
in libreria l’affascinante libro di Stefano Catucci Imparare dalla
Luna (Quodlibet), che spiega come il satellite sia
divenuto ormai un prolungamento della geografia terrestre.
Fine di una lunga storia dell’immaginario in
cui la Luna era l’Altro, l’alterità per definizione, modello
dell’irraggiungibile, e forse per questo era cara agli amanti, come insegnano Cyrano
de Bergerac e secoli di poesia. “Non sopprimete la lontananza”, ammonisce tra
gli ultimi un verso di René Char. Ma tra i business
dell’imminente corsa alla Luna ci sarà anche quello della sua trasformazione in
un parco archeologico della presenza umana nello spazio, un museo delle
impronte (che si suppongono intatte) e dei rifiuti terrestri (170 tonnellate!)
lasciati lì dai precedenti allunaggi. D’altra parte, non si chiamava già “Luna
Park” la madre di tutte le attrazioni? Il primo parco di divertimenti con
questo nome fu fondato nel 1903 a Coney Island, ispirato al nome di una giostra
di Buffalo, A Trip to the Moon, tradotta
nel latino Luna in omaggio a una donna che si chiamava così.
Nel saggio di Stefano
Catucci, docente di Estetica all’Università La Sapienza di Roma e voce storica di Radio3Suite, si descrive la trasformazione della Luna da luogo
poetico a oggetto mediatico, poi futura dépendence della Terra. E’ una
storia che va dagli Sputnik sovietici lanciati nel 1957 (in uno c’era la
cagnetta Laika), che per primi circumnavigarono la Luna, all’ultima missione
della Nasa, l’Apollo 17 del dicembre 1972, quella della fotografia della Terra
come pianeta azzurro, The Blue Marble,
ma svoltasi nella quasi indifferenza dei media.
Solo tre anni prima, il 20 luglio 1969, l’allunaggio dell’Apollo 8, con Neil Armstrong e Buzz Aldrin ballonzolanti nei loro scafandri sul suolo lunare e il pilota Michael Collins che li attendeva in orbita, era stato un evento capitale, apoteosi della tv. Da noi furono la voce e il volto sussiegosi del tg di Tito Stagno a darne rappresentazione in bianco e nero. Ero bambino (sono quasi contemporaneo della Space Age), e quella sera d’estate la presenza simultanea della luna in cielo e alla tv mi turbava. Qual era quella vera?
Solo tre anni prima, il 20 luglio 1969, l’allunaggio dell’Apollo 8, con Neil Armstrong e Buzz Aldrin ballonzolanti nei loro scafandri sul suolo lunare e il pilota Michael Collins che li attendeva in orbita, era stato un evento capitale, apoteosi della tv. Da noi furono la voce e il volto sussiegosi del tg di Tito Stagno a darne rappresentazione in bianco e nero. Ero bambino (sono quasi contemporaneo della Space Age), e quella sera d’estate la presenza simultanea della luna in cielo e alla tv mi turbava. Qual era quella vera?
Si chiamava Capricorn One il film del 1978 che divenne suo malgrado il
manifesto dei negazionisti e complottisti, che consideravano l’avventura lunare
un falso realizzato dalla tv, cui - secondo certe voci - si sarebbe prestato il
regista Stanley Kubrick, che in effetti lavorò per la Nasa (vedi il film mockumentary del 2002 di William Karel Opération Lune). Il fatto è che
l’exploit scientifico e militare culminato nello sbarco sulla Luna coincise con
quello della televisione, in un’epoca che, scrive Catucci, “ha mescolato in un
cortocircuito inestricabile il documento e lo spettacolo, l’evento e la sua
comunicazione”. Curiosamente fu proprio l’opinione negazionista a rafforzare la
consapevolezza anche estetica delle immagini.
Almeno due grandi
eventi percettivi sono legati al viaggio sulla Luna. Uno fu vedere per la prima
volta la mitica faccia nascosta della Luna, archetipo dell’idea stessa di
inconscio. Paradossalmente, per gli astronauti fu una delusione: non aveva
niente, dicono, da rivelare. Quel passaggio lungo il dark side
è chiamato anche Quiet Cone, “cono di
silenzio”, per via dell’assenza totale di comunicazioni radio. Possiamo
immaginare quanto fosse reso ancora più malinconico dalla musica per theremin
(un noioso strumento musicale elettronico, tipico dei vecchi film di
fantascienza) portata a bordo da Neil Armstrong. La musica era la migliore
compensazione al tempo senza tempo della noia degli astronauti (il libro di
Catucci ne riporta le playlist).
L’altro shock
percettivo fu vedere la Terra dalla Luna in una prospettiva assolutamente
spaesante per noi umani, quella inquadrata dagli scatti dell’astronauta Bill
Anders, come Earthrise, il “sorgere della Terra” (“la prima
fotografia del mondo”, la chiamò il fotografo Luigi Ghirri). Fu uno stupore intenso
e perturbante, rovesciamento forse di “Ciaula scopre la luna”, la novella di Luigi
Pirandello in cui il ragazzo minatore esce dal ventre della terra e vede per la
prima volta la Luna, “col suo ampio velo di luce”. A risplendere era la Terra,
nel primo sguardo dal di fuori, dallo spazio profondo: meraviglia di “osservare
noi stessi da lontano, rendere il soggettivo improvvisamente oggettivo”, ha
scritto di recente il romanziere Julian Barnes a proposito delle immagini di
Anders. Del quale è noto il commento: “abbiamo percorso 240.000 miglia per
vedere la Luna, ma era la Terra che valeva la pena guardare”.
Forse nessuna
elaborazione estetica
ha raggiunto quell’intensità, nonostante i numerosi artisti contemporanei che
hanno lavorato sul repertorio di immagini degli allunaggi, dai primi passi
sulla Luna al gesto di piantare una bandiera. A parte i dipinti kitsch (con
polvere di luna) dell’astronauta-pittore Alan Bean. Si va dalla performance di
Aleksandra Mir, The First Woman on the
Moon, e la sua installazione di ordinari rifiuti Museum of Lunar Surface
Findings, alle immagini di oggetti “spaziali” e astronautici di Vincent
Fournier, il cui senso avveniristico diventa altrettanto vetusto della carta da
parati su cui sono esposti, dando una tonalità scabrosa al gesto novecentesco
del promuovere gli oggetti ordinari a oggetti artistici. E si sa quanto
precocemente invecchino il futuro e la fantascienza.
Più volte leggendo Imparare dalla luna
viene voglia di giocare e costruirsi il proprio autoapprendimento. Mi sono
chiesto subito che cosa la Luna mi facesse venire in mente, e confesso che non
era né il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia né Pirandello,
né il pittorico Viaggio sulla Luna di Georges Meliès, regista e
prestigiatore agli albori del Novecento, né il sublime ariostesco episodio del
viaggio di Astolfo sulla Luna, e nemmeno la canzone Fly me to the Moon, resa celebre nel 1964 da Frank Sinatra e divenuta
colonna sonora delle missioni Nasa; ma Blue
Moon nello straordinario film di John Landis Un lupo mannaro americano a Londra,
colonna sonora della trasformazione in lupo mannaro di David nonostante
l’avvertimento di Jack, l’amico morto: “Guardati dalla luna, David!”
2 commenti:
spiega come il satellite sia divenuto ormai un prolungamento della geografia terrestre. Fine di una lunga storia dell’immaginario in cui la Luna era l’Altro, l’alterità per definizione, modello dell’irraggiungibile...
E immagina come mi sento io, a leggere in questi giorni che gli alieni sono già fra noi. E pare siano pure di più tipi e provenienze, a quanto dice l'ex Ministro della Difesa canadese. Di quanti tipi non si sa, dice più di una ventina di sicuro ma non si sbilancia oltre.
Mi figuro che alla fine si tratterà di milioni di tipi di alieni diversi, ognuno circolante sulla Terra da "migliaia di anni" senza che nessuno (tranne i soliti visionari che hanno sguardi sul mondo tutti per conto loro), se ne sia mai accorto.
Me lo dici ora dove diavolo posso sognar di fuggire, se gli abitanti di altri pianeti sono già in circolazione (forse a milioni), anche qui?
Bisognerà occupare la Luna, usando magari qualche scala galattica lasciandola poi cadere di sotto, per salvarsi...
a dire la verità, cara Ross, a me dava più bisogno di fuggire l'idea che la Terra fosse abitata solo da terrestri come noi, come li conosciamo, piuttosto che dagli alieni, che in qualche modo spezzano la mia claustrofobia e mi danno qualche speranza...
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