1/26/2014

Dove comincia l'antisemitismo


   Tutto è collegato con tutto. Un’esistenza chiusa nella sola dimensione personale non riesce a elaborarsi, ha scritto lo storico Georges Bensoussan (L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?), solo “il tempo ci permette di collocarci in rapporto a ciò che precede e a ciò che segue, ai nostri ascendenti e discendenti”. Conoscere la storia è importante per formarsi come soggetti, ma se molti giovani credono che la Shoah sia un’esagerazione, più che stigmatizzarne l’ignoranza si dovrebbe puntare il dito sull’irresponsabile smantellamento dell’educazione e sui tagli (morali prima che economici) alla scuola pubblica. La cosiddetta crisi finanziaria non è certo uno spot a favore della conoscenza, ma è il modello sociale dominante a dannarci, quella televisione sempre accesa in cui ogni istante cancella quello precedente, un perpetuo presente dove galleggiamo senza senso, senza memoria, senza durata.
   Anni fa scrivevo sul dovere pedagogico di ricordare che, nella Storia, avviene come nell’esperimento fatto in laboratorio con le rane. Mettendole direttamente in una pentola d’acqua bollente saltavano subito fuori per salvarsi; invece in una pentola d’acqua fredda, riscaldata in modo lento e costante, le rane si abituano gradualmente alla temperatura finché è troppo alta per avere la forza di uscire, e muoiono bollite. Nelle dittature avviene la stessa cosa, e inviterei tutti, giovani e meno giovani, a leggere i bellissimi romanzi polizieschi dal sapore chandleriano di Philip Kerr, ambientati non in una Los Angeles anni ’50 ma nella Berlino degli anni ’30, di cui descrive l’escalation graduale dell’hitlerismo; o Il giardino delle bestie di Erik Larson, biografia dell’ambasciatore americano a Berlino negli stessi anni, William E. Dodd, che tentò vanamente di sensibilizzare l’amministrazione Roosevelt sugli orrori compiuti giorno per giorno dal nazismo. Esempi di come furono ignorati o sminuiti i segni del presente, fino all’irreparabile, bollire come rane.
   Si usa chiamare profetica la comprensione del futuro che nasce dall’osservazione del presente e dei suoi segni – un po’ come lo sguardo di Pier Paolo Pasolini sulla “barbarie del consumismo”. Dove comincia il fascismo, da quali segni, bavagli, violenze, abusi linguistici, revisionismi, provocazioni etc.? Era la domanda che alcuni si ponevano oltre dieci anni fa di fronte all’escalation del regime berlusconiano di cui abbiamo già perso la memoria.
   Oggi i gesti di violenza nazista e antisemita si moltiplicano in Italia e in Europa (tra gli ultimi, le teste di maiale mandate alla sinagoga di Roma) e nella “grande stanchezza” si soffia sul fuoco del rancore sociale alimentato dalla crisi finanziaria, come nel secolo scorso. In Francia l’attore e militante politico Dieudonné, antisemita e negazionista dichiarato, ha messo insieme due segmenti di popolazione tradizionalmente opposti - i giovani di periferia dalle rivendicazioni anti-sistema e antiautorità, e l’estrema destra perbenista e autoritaria - entrambi sedotti dalle derive isteriche del “complotto ebraico dell’umanità”, sì, lo stesso immondo cliché che circolava un secolo fa. Prima della Shoah.


(uscito su l'Unità, domenica 26/1/2014)

1/11/2014

Luna Park


   Sembrava che la Luna non interessasse più nessuno, invece se ne preparava il revival. E mentre la Cina diventava il terzo Paese capace di arrivarci, con l'allunaggio di un robot nella “Baia degli Arcobaleni”, sbarcava in libreria l’affascinante libro di Stefano Catucci Imparare dalla Luna (Quodlibet), che spiega come il satellite sia divenuto ormai un prolungamento della geografia terrestre.
   Fine di una lunga storia dell’immaginario in cui la Luna era l’Altro, l’alterità per definizione, modello dell’irraggiungibile, e forse per questo era cara agli amanti, come insegnano Cyrano de Bergerac e secoli di poesia. “Non sopprimete la lontananza”, ammonisce tra gli ultimi un verso di René Char. Ma tra i business dell’imminente corsa alla Luna ci sarà anche quello della sua trasformazione in un parco archeologico della presenza umana nello spazio, un museo delle impronte (che si suppongono intatte) e dei rifiuti terrestri (170 tonnellate!) lasciati lì dai precedenti allunaggi. D’altra parte, non si chiamava già “Luna Park” la madre di tutte le attrazioni? Il primo parco di divertimenti con questo nome fu fondato nel 1903 a Coney Island, ispirato al nome di una giostra di Buffalo, A Trip to the Moon, tradotta nel latino Luna in omaggio a una donna che si chiamava così.
   Nel saggio di Stefano Catucci, docente di Estetica all’Università La Sapienza di Roma e voce storica di Radio3Suite, si descrive la trasformazione della Luna da luogo poetico a oggetto mediatico, poi futura dépendence della Terra. E’ una storia che va dagli Sputnik sovietici lanciati nel 1957 (in uno c’era la cagnetta Laika), che per primi circumnavigarono la Luna, all’ultima missione della Nasa, l’Apollo 17 del dicembre 1972, quella della fotografia della Terra come pianeta azzurro, The Blue Marble, ma svoltasi nella quasi indifferenza dei media.
   Solo tre anni prima, il 20 luglio 1969, l’allunaggio dell’Apollo 8, con Neil Armstrong e Buzz Aldrin ballonzolanti nei loro scafandri sul suolo lunare e il pilota Michael Collins che li attendeva in orbita, era stato un evento capitale, apoteosi della tv. Da noi furono la voce e il volto sussiegosi del tg di Tito Stagno a darne rappresentazione in bianco e nero. Ero bambino (sono quasi contemporaneo della Space Age), e quella sera d’estate la presenza simultanea della luna in cielo e alla tv mi turbava. Qual era quella vera?
  Si chiamava Capricorn One il film del 1978 che divenne suo malgrado il manifesto dei negazionisti e complottisti, che consideravano l’avventura lunare un falso realizzato dalla tv, cui - secondo certe voci - si sarebbe prestato il regista Stanley Kubrick, che in effetti lavorò per la Nasa (vedi il film mockumentary del 2002 di William Karel Opération Lune). Il fatto è che l’exploit scientifico e militare culminato nello sbarco sulla Luna coincise con quello della televisione, in un’epoca che, scrive Catucci, “ha mescolato in un cortocircuito inestricabile il documento e lo spettacolo, l’evento e la sua comunicazione”. Curiosamente fu proprio l’opinione negazionista a rafforzare la consapevolezza anche estetica delle immagini.
   Almeno due grandi eventi percettivi sono legati al viaggio sulla Luna. Uno fu vedere per la prima volta la mitica faccia nascosta della Luna, archetipo dell’idea stessa di inconscio. Paradossalmente, per gli astronauti fu una delusione: non aveva niente, dicono, da rivelare. Quel passaggio lungo il dark side è chiamato anche Quiet Cone, “cono di silenzio”, per via dell’assenza totale di comunicazioni radio. Possiamo immaginare quanto fosse reso ancora più malinconico dalla musica per theremin (un noioso strumento musicale elettronico, tipico dei vecchi film di fantascienza) portata a bordo da Neil Armstrong. La musica era la migliore compensazione al tempo senza tempo della noia degli astronauti (il libro di Catucci ne riporta le playlist).
   L’altro shock percettivo fu vedere la Terra dalla Luna in una prospettiva assolutamente spaesante per noi umani, quella inquadrata dagli scatti dell’astronauta Bill Anders, come Earthrise, il “sorgere della Terra” (“la prima fotografia del mondo”, la chiamò il fotografo Luigi Ghirri). Fu uno stupore intenso e perturbante, rovesciamento forse di “Ciaula scopre la luna”, la novella di Luigi Pirandello in cui il ragazzo minatore esce dal ventre della terra e vede per la prima volta la Luna, “col suo ampio velo di luce”. A risplendere era la Terra, nel primo sguardo dal di fuori, dallo spazio profondo: meraviglia di “osservare noi stessi da lontano, rendere il soggettivo improvvisamente oggettivo”, ha scritto di recente il romanziere Julian Barnes a proposito delle immagini di Anders. Del quale è noto il commento: “abbiamo percorso 240.000 miglia per vedere la Luna, ma era la Terra che valeva la pena guardare”.
   Forse nessuna elaborazione estetica ha raggiunto quell’intensità, nonostante i numerosi artisti contemporanei che hanno lavorato sul repertorio di immagini degli allunaggi, dai primi passi sulla Luna al gesto di piantare una bandiera. A parte i dipinti kitsch (con polvere di luna) dell’astronauta-pittore Alan Bean. Si va dalla performance di Aleksandra Mir, The First Woman on the Moon, e la sua installazione di ordinari rifiuti Museum of Lunar Surface Findings, alle immagini di oggetti “spaziali” e astronautici di Vincent Fournier, il cui senso avveniristico diventa altrettanto vetusto della carta da parati su cui sono esposti, dando una tonalità scabrosa al gesto novecentesco del promuovere gli oggetti ordinari a oggetti artistici. E si sa quanto precocemente invecchino il futuro e la fantascienza.
   Più volte leggendo Imparare dalla luna viene voglia di giocare e costruirsi il proprio autoapprendimento. Mi sono chiesto subito che cosa la Luna mi facesse venire in mente, e confesso che non era né il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia né Pirandello, né il pittorico Viaggio sulla Luna di Georges Meliès, regista e prestigiatore agli albori del Novecento, né il sublime ariostesco episodio del viaggio di Astolfo sulla Luna, e nemmeno la canzone Fly me to the Moon, resa celebre nel 1964 da Frank Sinatra e divenuta colonna sonora delle missioni Nasa; ma Blue Moon nello straordinario film di John Landis Un lupo mannaro americano a Londra, colonna sonora della trasformazione in lupo mannaro di David nonostante l’avvertimento di Jack, l’amico morto: “Guardati dalla luna, David!”

articolo uscito su Venerdì di Repubblica del 10/1/2014:


1/05/2014

per il poeta Pier Luigi Bacchini


   
Da Visi e foglie: 
   "Gli spazzini fanno mucchi umidi, / gialli e marroni e rossastri - vinacce, e un verde macerato / fresco, e se io mi coricassi su quei mucchi ad abbracciare / l'alba, / a sentire tutta quella bellezza morta, come uno straccio, gli spazzini / potrebbero / farmi interrogare. E allora come potrei dire / questo mio amore inconsulto / per le panchine, che hanno sopportato tanta pioggia / e tante foglie, e tanti sederi di amanti e di vecchi / e di sentimentali come me - Questi viali. Ma non sentite / che questo viale è un urlo? E' lungo. Non vedete non udite che è troppo lungo per una capacità di sopportazione / umana / - molti si arricchiscono / dentro le loro botteghe con le mani unte e le guance rosse." (...)


All'età di 86 anni se ne è andato questa mattina il poeta Pier Luigi Bacchini, il cantore della Natura e della scienza che alcuni mesi fa Mondadori aveva celebrato con un Oscar. Bacchini viveva sulle colline di Medesano (Parma), un luogo che aveva scelto e che amava tantissimo. Nel 2005 aveva ricevuto il Premio Sant'Ilario.
Era un meraviglioso poeta, soave e tenace, e mi onoravo della sua amicizia e stima come di un bene inestimabile. I suoi haiku (Cerchi d'acqua) mi fecero capire che con Giovanni Pascoli era il più padano dei poeti orientali, e proprio come un Basho o un Ryokan si era da tempo ritirato sulle colline di Medesano, che d’autunno assomigliano agli orizzonti delle chine cinesi. Non era solo un poeta di cose vegetali, minerali, creaturali. Le poesie di Visi e foglie dicono il desiderio di sprofondare nei mucchi di foglie gialle prima che gli spazzini le portino via, il nostro comune “amore inconsulto per le panchine”, mentre “molti si arricchiscono / dentro le loro botteghe con le mani unte e le guance rosse”, la nostra comune meravigliosa disperazione urbana in una città (parlo di Parma) unica al mondo ad avere il miracolo toponomastico di un «viale delle Rimembranze».


Il 12 settembre 2003, su l’Unità, scrissi un articolo dal titolo "Gli splendidi haiku padani di Bacchini". Ma il 25 giugno 2002, sulle stesse pagine della cultura de l’Unità, fu pubblicato questo intervento di Pier Luigi Bacchini (“Con lei la morte diventa pietas”) nella serie-dibattito sulla poesia - “Così inutile, così sovversiva” - partita da un mio scritto. Riporto qui il testo di Bacchini:
   Un fiato di morte che ci inseguisse in ogni momento, tanto da improntare i nostri atti, sarebbe insostenibile: ci ridurrebbe al fallimento, all’immobilità. Tuttavia un ripetuto memento mori potrebbe essere salutare per le nostre ammorbate città, ammansirebbe la «lupa», limiterebbe l’«usura» e la mancanza d’amore che rende «desolata la terra». Ma è la natura stessa con la fertilità dei suoi cicli vitali che si oppone a questa consapevolezza, e ci carica di avida violenza, aumentando così i mali dell’esistere. Eppure i cicli vitali si continuano nella morte, e il vortice che trascina l’universo nei processi evolutivi (cosmico, geologico, vegetale, animale, spirituale) contiene il seme della distruzione. Quella composizione poetica dunque che non emanasse pensiero di morte, quale metro per intendere la vita, mancherebbe della fondamentale verità, darebbe una rappresentazione falsata della vita. Nell’autentica poesia c’è l’intima presenza meditata della morte. Poiché la poesia è bellezza, gioia (essa è vita), sùbito viene appresa dall’uomo e con lei la coscienza continua della morte, che penetra in lui col vigore appunto dell’amata vita. Così il pensiero di morte, rifuggito dall’uomo, si trasforma in ritmica memoria, e diviene naturalmente giusta misura e guida delle sue azioni. La morte attraverso la poesia si trasforma in pietas: «...Ecco/i funebri poeti, rattristano la forza/bisbigliano all’orecchio dei legislatori».
BIOGRAFIA: Pier Luigi Bacchini, nato a Parma nel 1927, dopo la maturità classica intraprende studi di medicina, poi interrotti per la carriera letteraria. Esordisce nel 1954 con una raccolta poetica «Dal Silenzio d’un nulla» (Schwarz, Milano) che ha come premessa l'autorevole giudizio di Francesco Flora. Seguono le raccolte «Canti familiari» (De Luca, Roma, 1968) e «Distanze fioriture» (La Pilotta, Parma, 1981, Premio Pontano, Napoli ) . Con la raccolta «Visi e foglie» (Garzanti, 1993), gli viene assegnato all'unanimità il prestigioso Premio Viareggio per la poesia. Nel 1999 pubblica «Scritture vegetali» (Mondadori) che si aggiudica i premi San Pellegrino 2000, Insula Romana, Rhegium Julii, Ragusa e altri. Nel 2003 pubblica «Cerchi d’acqua» (Garzanti) che merita il premio Giuseppe Giusti (Monsummano Terme). Al 2009 risalgono i Canti territoriali e nel settembre 2010 con i "Canti territoriali" si aggiudica il Premio Brancati. E nel 2013 è arrivato il volume degli "Oscar Mondadori" a lui dedicato. Alcuni suoi scritti sono stati accolti nell'Almanacco dello Specchio (Mondadori, 1978), nell'antologia Poeti italiani del secondo Novecento (Mondadori, 2004) e in altre antologie (Garzanti, Einaudi, Crocetti). Suoi versi sono stati più volte editi dalle maggiori rivisti letterarie italiane come «Paragone» e «Nuovi Argomenti» e da quotidiani come il «Corriere della sera» . La sua opera narrativa «L'ultima passeggiata nel Parco», edita da Mup (Monte Università Parma) è stata pubblicata nel 2003, ed è entrata nella collana dei «Narratori parmigiani», che è stata venduta insieme con la Gazzetta. Ha conosciuto e avuto la stima di diversi poeti come Salvatore Quasimodo, Mario Luzi, Attilio Bertolucci, Carlo Betocchi, Giovanni Giudici e di Cesare Garboli. Ha tenuto (anche su iniziativa del Ministero dei Beni Culturali) incontri, letture e conferenze in varie città d'Italia, e, all’estero, all'università di Lund (Svezia).