Ho frequentato per giorni l’Auditorium di Roma con insolita
assiduità. Sarà anche per la primavera sbocciata proprio adesso, così piacevole
negli spazi all’aperto dello ”scarabeo” disegnato da Renzo Piano, ma mi sono
abbandonato al My Festival di Patti Smith, di cui ero all’inizio
diffidente, con la leggerezza di una festa. E non credo di essere stato il
solo. A vedere Medea di Pasolini, non
certo il suo film più leggero, interpretato da una silenziosa Maria Callas, ho
incontrato un’allegra brigata di amici, e nell’affollato backstage in cui
sostava la strana coppia Bernardo Bertolucci e Patti Smith era divertente
vedere signori ben oltre la mezz’età tornare adolescenti, e chiedere alla
celebre rocker loro coetanea autografi per i figli, in realtà per se stessi.
Bernardo e Patti avevano rievocato in pubblico il loro incontro nel 1977 in un
interno newyorchese dove, timidi entrambi, invece di ballare dopo cena come
Mapplethorpe e gli altri ospiti, lei gli chiese di parlarle di Pasolini. Patti
Smith lavorava all’epoca in una libreria, come cantante la conoscevano in
pochi, e Bernardo cercava senza successo una distribuzione negli Usa per il
film Novecento. Una connessione tra
Patti Smith e il cinema l’ha suggerita lui almeno per gli italiani: la sua
canzone Because the Night, da anni
sigla di “Fuori orario”, è indissociabile dai film d’autore, e tutt’uno ormai con le immagini di Atalante di Jean Vigo.
A ogni appuntamento del suo festival Patti Smith ha
generosamente cantato. Anche nella galleria in cui è allestita la mostra di
Marco Tirelli, Memories: triplice
installazione di mobili (una poltrona scura di pelle, un letto dalle lenzuola
bianche e disfatte, un severo tavolo di legno) tagliati e attraversati da
specchi che li raddoppiano dimezzandoli, prigionieri di un’emblematica
condizione metafisica che li rende al tempo stesso doppi e mancanti.
Non parlo dell’affollato concerto di domenica sera, Horses, quasi un commiato dal festival,
dove nella grande sala Santa Cecilia il pubblico non ce l’ha fatta a restare
seduto, ma dell’omaggio ad Allen Ginsberg nello stesso spazio, con Philip
Glass: una grande cantante rock-punk e il maggiore musicista e compositore
americano vivente uniti dall’amicizia verso il grande poeta beat. Una
dedica/tributo sperimentata da anni in numerosi teatri in Europa e negli Usa, e
che ha lo stesso titolo, “The Poet Speaks”, della tredicesima miniatura
dell’opera Kinderszenen (“Scene infantili”, 1838) di Robert Schumann, fatta di brevi
composizioni pianistiche che sembrano quasi anticipare il minimalismo di Philip Glass.
Coincidenza?
Philip Glass ebbe una lunga consuetudine di rading-concerti con
Ginsberg, che gli aveva affidato una registrazione della propria voce che legge
Jukebox all’Idrogeno da usare in sua
assenza. Ma dopo la morte di Ginsberg nel 1997 non ne fece più per anni, fino a
sentire la mancanza della poesia. Fu la dizione personalissima e intensa di
Patti Smith, che legge Ginsberg come legge i propri testi, a dare nuova vita a
questi reading/concerti. Ora, io che amo sconfinatamente Allen Ginsberg, al
quale devo ogni inizio e iniziazione nella balbettante avventura di scrivere,
posso dire che la voce di Patti Smith è semplicemente bellissima, sia che legga
testi di Ginsberg (Wichita Vortex Sutra
(1966), Magic Psalm (1960), sia che
canti le proprie canzoni accompagnata dal chitarrista Lenny Kaye (Ghost
Dance, Pissing in the River, People
have the power). Se ascoltare il pianoforte suonato da Philip Glass è come
galleggiare in un’estatica samadhi tank, Patti Smith ha un modo di far
scivolare la voce come un cigno nell’acqua. Ci si chiede se sia la musica
naturale delle poesie di Ginsberg a venire allo scoperto e prendere il volo, o
se sia Patti Smith a insufflarvi musica e farle risuonare nell’aria, come se
soffiasse in una nuvola per farla danzare e ricamare forme. Insomma, ci si
chiede, sta parlando o cantando? Entrambe le cose, certamente, in un Dire così
alto e importante che non si esaurisce nei suoi detti, un Dire che resta vivo,
aperto e accogliente, cioè poesia.
Dietro la scena spoglia sono proiettate immagini. Quella
iniziale raffigura Ginsberg di lato che posa in un loft newyorchese allestito
come studio fotografico. Altre immagini rigorosamente in bianco e nero si
alternano nel corso della serata: Ginsberg in India o sullo sfondo di
grattacieli di Manhattan e automobili anni ’50 (e già il suo volto nella
scenografia urbana è fonte di una commozione estetica), Ginsberg con altri
poeti beat, e il volto giovane di Gregory Corso. Patti Smith ricorda che le
ceneri dell’autore di Dove my casa?,
in perpetuo poetico inferno ed esilio, sono sepolte a Roma accanto ai resti
degli amati Keats e Shelley nel cimitero detto dei poeti al Testaccio. Io
ricordo invece che nel concerto in cui scoprii Patti Smith, nel 1979 a Bologna
(una notte d’estate con splendida luna piena), Gregory Corso c’era e voleva
ascoltare la sua amica cantante, ma non fu fatto entrare dal servizio d’ordine,
né tantomeno fu riconosciuto.
Quando Patti Smith legge un proprio ritmico testo, “Blue
thangka”, e lo ascoltiamo guardando la gigantografia di Allen davanti a una
porta scolpita con la ruota del samsara, all’improvviso avviene, almeno per me,
un’illuminazione: grazie alla voce che rende mantra ogni parola e le note di
pianoforte prodotte dalla magica pazienza di Philip Glass, comprendiamo che il samsara, la sofferenza del ciclo di
morte e rinascita nel mondo materiale, non è
che il Nirvana (l’estinzione suprema del samsara, o se volete il Paradiso). E
chiamiamo poesia, cioè un’azione priva di scopo, la scintilla che accende questa
epifania e questa consapevolezza. Tutto, in questo spettacolo che sembra
scucito, è in realtà legato con tutto.
Poi, una novità rispetto alla scaletta collaudata, legge di
Allen Ginsberg To Aunt Rose (1958),
poesia alla zia Rose. Poesia in qualche modo spettrale, per Patti Smith è
un’illustrazione possibile del trittico concepito da e con Marco Tirelli. Parla di memoria, di una casa
a Newark, con un vestito a fiori stampato e un pianoforte a coda, atmosfera di
un Gozzano ebreo-americano dopo la Shoah, testimonianza di una Storia in bianco
e nero (“Hitler è morto”, dice un verso, “Hitler è con Tamerlano e Emily
Bronte”).
Non è un caso infine se i due testi di Ginsberg più commoventi
della serata siano degli elenchi: quello stilato alla cerimonia di cremazione
del suo maestro, il tibetano Chogyiam Trungpa (On Cremation of Chögyam
Trungpa, Vidyadhara, 1987), e
le celebri Note a pié di pagina di Urlo
(Howl, 1955), la santità onnipresente che insegna che tutto è degno di
essere scritto, anche il buco del culo.
Alle mie spalle era seduta una classe di liceali, spaventati
all’inizio all’idea di ascoltare poesie per due ore (la loro idea di “poesia”
non doveva essere molto comoda). Mi hanno detto che Ginsberg non l’avevano ancora
studiato. Meglio così, ho sorriso, scoprirlo da soli è più bello. Ho aggiunto
che alla loro età Ginsberg mi aveva salvato la vita, più della musica rock.
Beh, è un po’ lo stesso effetto che mi fanno sempre i brani delle Metamorphoses di Philip Glass suonate da
lui, come l’altra sera: un’esperienza di rigenerazione, e un insegnamento.
Mentre la sua musica ci incanta con (apparentemente) pochissime varianti, ci fa
più consapevoli delle innumerevoli varianti che accadono in noi mentre la
ascoltiamo. Si potrebbe anche spiegarla così la poesia, divenire coscienti di se
stessi ascoltando qualcun altro. Come diceva Allen Ginsberg, “poesia è
allargare l’area della coscienza”.
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(foto sul palco)
(quella originale è del grande Robert Franck) |
(articolo uscito su l'Unità di martedì 16 aprile 2013)