7/25/2010

In a Silent (& Salent) Way

Sono in Salento, e in una piccola bellissima baia raggiungo, isolato tra gli scogli e il mare che brilla maestoso, un chioschetto coi tavolini, immagine della sosta ideale. Mi siedo, e mi accorgo che dagli altoparlanti strilla la voce di Michael Jackson. Non ho niente contro la voce di Michael Jackson e i ritmi che la accompagnano, tuttavia lì mi appare incongrua, a parte il volume eccessivo. Il suono del mare e del vento, le cicale, le voci lontane dei bagnanti e qualche gabbiano sono già un bel paesaggio sonoro, a lasciarlo. Ma il padrone del chiosco è sordo (in ogni senso) e fiero della sua musica senza sosta. Chiudo gli occhi: potrei essere in una discoteca, una birreria, un supermercato, in una città, ovunque, questa musica rende ogni luogo un anywhere.
Un anno fa mi capitò la stessa cosa in Liguria, un baretto in spiaggia poco dopo l’alba. Ero l’unico cliente, e l’unico umano all’orizzonte. Chiesi con gentilezza di abbassare, se non di spegnere qualche minuto, l’altoparlante che diffondeva musica radiofonica continua, azzerando la ragione stessa per cui avevo scelto di sedermi lì. Il barista si offese della bizzarria della mia richiesta. Possibile, mi chiedo ogni volta, che gli esercenti non vogliano fare affari valorizzando la bellezza, il lusso del silenzio, tutte merci (sic!) che hanno pur sempre estimatori ed acquirenti? Siamo obbligati invece ad essere complici di un livellamento generale che annulla ogni differenza e ogni geografia. Non è solo l’horror vacui che ha instupidito le piazze delle città con al centro brutti monumenti o fontane. E’ la stupidità malvagia di un mercato infelice e senz’anima: aspettando, come nei fantastici romanzi di Douglas Adams, che i viaggi nel tempo uniformino anche la Storia con una speculazione triviale - McDonald nella Preistoria, altoparlanti e disco-music nell’Impero Romano, pubblicità di Mediolanum e BP a Cartagine, Venezia, Baghdad... - ma questo, scusate, in effetti forse c’è già.

(rubrica domenicale "acchiappafantasmi", l'Unità del 25/7/2010)

7/17/2010

Le verità nascoste (la nuova caverna)

Chi l’avrebbe detto che lo stranoto “mito della caverna” di Platone, non a caso contenuto in un trattato politico (La Repubblica), si sarebbe riprodotto in questo Paese con tanta drammatica fedeltà. La posta in gioco non è solo conoscitiva - far sapere agli altri che le ombre proiettate nella caverna non sono la realtà, e che fuori (dalla caverna) c’è un mondo – ma riguarda il destino e la sopravvivenza della democrazia e della cittadinanza.
Poiché faccio parte della nicchia di lettori di giornali ho accesso a molte notizie. Nel corso della settimana molti elementi si sono aggiunti allo scempio posto in atto dal governo; mi hanno poi colpito l’aggressione della polizia alla manifestazione dei terremotati dell’Aquila, quella analoga a un corteo di operai a Milano, il licenziamento di tre dipendenti della Fiom a Pomigliano, ecc. Non pongo la domanda retorica su come sono state date queste e altre notizie sul Tg1 e sui Tg Mediaset. La maggior parte degli elettori di questo Paese non ha accesso alla realtà dei fatti perché guarda appunto il Tg1 e i Tg Mediaset e vota Berlusconi. La maggior parte degli elettori di questo paese, come gli abitanti della caverna di Platone, non sa nulla dei discorsi del presidente della Camera Fini a difesa della legalità, lo considera un traditore, e sono gli stessi che approvano l’idea di uno sciopero dei lettori di giornali (anche se non comprano mai giornali). Nulla sanno della corruzione, della camorra al governo, delle puttane del Capo ecc. Lo sanno in tutto il mondo, ma in Italia no. E’ un fatto. Il mio è un appello ai politici democratici e repubblicani di qualunque schieramento: se andate in tv, su Raiuno e Mediaset soprattutto, non dite altro che questo, guardando le telecamere: le verità nascoste. Avvertite il popolo nell’ombra della caverna della gravità taciuta. Non dite altro, senza narcisismo, senza darvi di gomito.

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 18 luglio)

7/11/2010

"Spazzatour": reportage dall'olocausto bianco dei rifiuti

Napoli. Sto percorrendo, dopo la cosiddetta Via degli Americani, l’Asse Mediano: una periferia continua, fitta di traffico. Da una parte smisurati cartelloni pubblicitari che non fanno vedere niente, una sopraelevata nel mezzo, e dall’altra incongrue villette e ristoranti per matrimoni con vista su auto e camion. Ho passato la mattina a spiare vertiginose discariche presidiate da militari, e sono diretto ora al settore monumentale dei rifiuti, la distesa di ecoballe che svettano in ciò che resta delle campagne napoletane. Ma è la normale bruttezza di queste strade senz’anima ora a turbarmi. E’ la terra dei fuochi descritta anche da Saviano nell’ultimo spaventoso capitolo di Gomorra. Di notte, qui, si alzano fumi densi e neri, accesi dai ragazzi rom, pagati per incendiare. I pneumatici, che la Campania paradossalmente importa con i camion, servono ad attutire le esplosioni dei solventi chimici.
La mia nuova guida, Pina Elmo, della “Rete campana Salute e ambiente”, mi racconta le lunghe lotte per fermare i Tir carichi di svariati rifiuti: arresti, pestaggi. L’appuntamento con lei era nello sterminato parcheggio di una serie di supermercati, una distesa di catrame e cemento a coprire - lo sanno tutti - strati di rifiuti, quindi ottenere altra terra e materiali di risulta per coprire altre discariche e così via, nel ciclo continuo di affari della camorra. Del resto lo si impara subito, come un’evidenza: supermercato e discarica sono l’uno il riflesso dell’altra, si specchiano e si rivelano a vicenda come una stessa materia, un’unica logica.
Poi svoltiamo a sinistra, e tra i cumuli di rifiuti e detriti sul ciglio della strada emerge una prostituta nera quasi bambina. Cosa fra le cose, vita dismessa, come i gruppi di africani che stagnano in attesa di un lavoro (magari nei campi inquinati di pomodori), immagine di una diversa prostituzione. Ci siamo. La chiamano anche “l’Ottava meraviglia”: sembrano installazioni, monoliti avvolti da plastiche nere nella campagna verde, separati da noi da un muretto sottile e una rete. Sono le gigantesche ecoballe, totem o dolmen che comunicano sgomento. Due chilometri quadrati di parallelepipedi neri che trattengono materiali tossici, veleni industriali e rifiuti urbani, di cui solo metà è sotto sequestro giudiziario. Tutt’intorno alberi di pesche mature, le pregiate percoche, ignare che il percolato che impregna ormai la terra raggiunga la loro linfa. Cani che abbaiano, guardiani in divisa oltre la rete a sorvegliare milioni di tonnellate di veleni che valgono oro per l’industria fasulla dello smaltimento. Perché nessuno, tanto meno la Impregilo, l’onnipresente azienda che domina e determina ogni politica dei rifiuti, è ormai in grado di farlo. Il resto di questa campagna, anche quando non si vede, è foderato da anni di sversamenti di rifiuti delle industrie del nord che alimentano i tumori. Gli impianti di Cdr (“combustibile da rifiuti”, ora declassati a “tritarifiuti”) confinano qui con le fragole. Chi non voleva più vedere la spazzatura sotto le finestre di città è stato esaudito dalla bacchetta magica, anzi militare, del governo. Pazienza che torni loro in altre forme. Nella frutta sul tavolo della cucina, per esempio. Nelle nanoparticelle diffuse dai fumi densi degli incendi.

Circa un mese fa la Commissione petizioni del Parlamento europeo (una socialista olandese, una verde danese, un conservatore tedesco) si recò a Napoli a verificare la “soluzione” alla crisi dei rifiuti. Quando Judith Merkies, capodelegazione, in stivaloni e guanti nella discarica di Terzigno, estrasse un pneumatico dicendo “questo non dovrebbe essere qui”, fu chiaro anche a loro che la soluzione all’emergenza era un bluff. La visita fu per i tre deputati uno shock politico e culturale: discariche sorvegliate come basi dell’esercito, inosservanza delle regole europee sull’impatto ambientale, assenza di trasparenza e consultazione degli abitanti. E nessuna strategia, nessuna rete di impianti per il riciclo e il compostaggio, null’altro che scavare buche, stoccare ecoballe sotto il cielo nella campagna agricola, gridare all’emergenza per avere mano libera nel militarizzare il territorio. Quando sono andato anch’io a vedere la discarica di Terzigno, alle falde del Vesuvio, nel cuore del parco nazionale, era appena stato arrestato un ragazzo sorpreso a filmare all’ingresso principale. Mi hanno guidato Mariella Tafuto, Elena Velussi, Anna Fava e Sabina Laddaga, volontarie del “CoReRi” (Coordinamento regionale rifiuti). La famosa emergenza rifiuti di Napoli era ed è “un marketing terroristico”, mi dicono mentre ci inoltriamo in un paesaggio di vigne e oliveti da cui viene la Falanghina del Vesuvio e il Lacrima Christi. La discarica (già cava di pietra lavica) è segnalata da stormi di gabbiani che svolazzano. Profonda un’ottantina di metri, è un cono rovesciato come l’Inferno di Dante, ma pieno di rifiuti, i dannati della materia. Passiamo dal retro. Cartelli militari avvertono: Zona di interesse strategico nazionale. Vietato l’ingresso.
“Gli abitanti non possono accedere ai dati – mi ripetono le guide – né sapere cosa viene messo negli impianti. Nessun controllo, anzi una sospensione dei diritti, e perfino un tribunale speciale per la Campania, una super-procura che accentra ogni denuncia e inchiesta nel settore ambientale (Legge 123). Ogni atto che qui avviene in materia di rifiuti è in deroga ai diritti costituzionali. Oltre al fatto che le strutture tecniche, le persone che firmano le ordinanze sono le stesse di sempre, anche quelle compromesse coi clan. O come Marta De Gennaro, responsabile del settore sanitario della Protezione civile, arrestata e inquisita nel 2008 col vice di Bertolaso per avere occultato rifiuti pericolosi, poi promossa a gestire il terremoto a l’Aquila”. Nella gestione governativa dei rifiuti c’è continuità con metodi e persone della camorra. “La camorra prima scava una voragine, ne usa i materiali e vi sversa i rifiuti tossici; la zona viene sequestrata e il governo vi mette i rifiuti urbani che coprono ogni prova”. (Prima della militarizzazione dei siti, alcune discariche vennero chiuse grazie alle denunce dei cittadini. Ora tutto è secretato).
Intorno a noi eucalipti, fiori, limoni, vigne. Dietro il muro grigio e il reticolato il cratere che diffonde il fetore. Lo osservo arrampicandomi: un inferno nell’oasi, cosparso di detriti biancastri come i gabbiani, che ruspe e camion non riescono del tutto a interrare. La Cava Vitiello, lì vicino, è stata scelta dal governo come prossima discarica, anche se il signor Vitiello (come l’Unione Europea) si indigna all’idea. Ma a fianco del campo da calcio panoramico di sua proprietà, col Vesuvio da una parte e i monti dietro cui c’è Sorrento dall’altra, una serie di silos che raccolgono percolato produce un rombo sinistro e costante. In questo parco naturale ai contadini è proibito erigere un muretto a secco o una rete per conigli, ma non silos e discariche.
Abbiamo proseguito il viaggio alla discarica di Chiaiano, già paradiso delle ciliegie, con tanto di sagra. Attraversato un pruneto, ci siamo fermati e affacciati sul vuoto: un immenso buco in cui strati di amianto triturato sono stati coperti da tonnellate di nuovi rifiuti. Un’altra discarica abusiva ufficializzata dal governo, a poca distanza dagli ospedali. Anche qui volteggiano i gabbiani, portatori d’inquinamento con le loro deiezioni.

Più tardi, nel pomeriggio inoltrato, l’ultima tappa di questo “spazzatour” è nel casertano, la cui terra riconosciuta come la più feconda del pianeta, vera e propria fabbrica di cibo, è ridotta quasi a un’immensa discarica. Mi conduce l’agronomo e ricercatore, già combattivo vicesindaco di Caserta, Giuseppe Messina. Mi parla dell’aumento in Italia della desertizzazione, dovuta al cattivo uso del suolo. L’anno d’inizio della discesa agli inferi è il 1997, da quando per contratto la Fibe-Impregilo (di proprietà della Fiat) è diventata proprietaria dei rifiuti, esautorando gli Enti locali. Esistono tecnologie in grado di riciclare completamente i rifiuti, ma se l’imprenditore è pagato per bruciare, ha un piano solo per bruciare, non per pensare soluzioni europee, avanzate, che tutelino l’ambiente, l’agricoltura, la salute. I parametri sono già curvati secondo interessi prestabiliti: il Conai per esempio (Consorzio nazionale imballaggi), che smaltisce bruciandole il 45% delle plastiche da raccolte differenziate in Italia, e guadagna sia nella produzione che nello smaltimento, non perora certo una riduzione degli imballaggi nella merce, ma incoraggia l’usa-e-getta. Come mi spiegavano Elena e Anna al mattino, “occorre superare la nozione di rifiuto. Parliamo invece di materia come risorsa, non come rifiuto. Nessuno investirà sul riciclo finché sono così forti gli altri interessi”.
Ci fermiamo quindi nel triangolo della morte, ultimo girone, a poche centinaia di metri da Casal di Principe: Parco Saurini, S. Tammaro, Ferrandelle. Ogni rilievo, ogni collina (ce ne sono tante) racchiude una discarica interrata, su cui crescono cespugli giallastri. Ma ce ne sono altre speciali, incredibili: montagne incolori, ecoballe di rifiuti senza neanche la plastica, denudate e impudiche sotto un impietoso cielo azzurro. Quelle che Bertolaso aveva dichiarato di avere eliminato, che nessun manto vegetale ricopre. Come se l’esplosione finale al rallentatore di Zabriskie Point si fosse adagiata e ricomposta in colline compatte, incollando ogni frammento. Una marmellata biancastra e fetida punteggiata di plastiche sbiadite. Otto milioni di tonnellate di rifiuti esibiti a pochi metri da coltivazioni, allevamenti di bufale, vecchi caseifici. Terreni generosi che valevano anche 200.000 euro all’ettaro, e ora non valgono più niente, se non per chi ne ricaverebbe altre discariche a cielo aperto. A poche centinaia di metri giacciono impianti per il compostaggio inutilizzati e boicottati. Anche qui, il solito cartello etichetta le montagne di veleno che chiunque può toccare: Area di Interesse Stategico Nazionale. Divieto di accesso. Ai piedi del cartello un flacone di Vernel, l’ammorbidente. Mi stordisce l’idea di qualcuno che ha cura di ammorbidire il bucato ma è incurante di avvelenare la terra, cieco a ogni relazione tra i suoi gesti.

Quando più tardi percorro a senso inverso la desolata e rumorosa “terra dei fuochi”, la quotidiana abitudine alla bruttezza dove tutto ha inizio, dentro di me ripercorro il senso di questo reportage: sono i rifiuti la nostra nuova frontiera del Sacro, indissolubile dal Potere. Se “sacrare” qualcosa o qualcuno vuol dire separarlo dall’uso comune, dalla vita, noi ci siamo affacciati sulle discariche con terrore e tremore come su crateri di vulcani attivi, abbiamo contemplato le ecoballe come temibili fascinosi templi, e gli altari incolori, disgustosi e ipnotici che rendono alieno ciò che è stato nostro, separato per sempre, come la bottiglia di Vernel. Culmine della nostra alienazione, divinizziamo ciò che di noi non riconosciamo più, ma a cui sacrifichiamo tutto. “E’ un olocausto bianco”, mi aveva detto Mariella, una delle mie guide, invitandomi qui. Ma ciò che accade da anni in Campania non è che un laboratorio di quello che succederà, e sta anzi già succedendo, nel resto dell’Italia.


(uscito su Venerdì di Repubblica in data 9/7/2010, in edicola oggi, domenica 11 luglio)

7/10/2010

L'incrinatura (The Crack-Up)

Saluto come importante, per disapprovandone la traduzione del titolo (Frances Scott Fitzgerald, Il crollo, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi) l’uscita in un piccolo libro dei tre testi più sconcertanti dell’autore di Tenera è la notte, noti come The Crack-Up. Cioè “l’incrinatura”, come si dice di un piatto crepato, anche se qui è la propria vita a essere descritta con voce disperatamente off,o postuma. Usciti sulla rivista Esquire nel 1936, si tratta di una “confessione” perfettamente attuale in questi nostri anni disgraziati, ma anche una lezione sul senso profondo dello scrivere, oggi degradato: ci sono molti libri, sì, ma pochissima letteratura. Quello che commuove di The Crack-Up, testimonianza di una “bancarotta affettiva”, emotiva e professionale, è che Fitzgerald riesce a scrivere perfino sulla propria impotenza e impossibilità di scrivere. Lo fa con sincerità accecante, immune da ogni intellettualismo. E’ anche la consapevole conclusione di un’opera che ha avuto sempre a che fare, lo scrisse lui stesso, con “un tocco di disastro”. Ma il vero tema dei suoi libri non è il declino o la disgrazia, quanto il sentimento di esclusione sociale. Il suo incanto e disincanto è quello dell’estraneità, solitudine che si prova non fuori, ma all’interno di una comunità, quella dei ricchi soprattutto, di chi ha successo: non c’è glamour che non gli si riveli un agghiacciante “pasto nudo”. Da qui la sua modernità, e il carattere profondamente sperimentale (Deleuze lo chiamò “stoico”) della sua opera. Se Fitzgerald si è tanto interessato ai ricchi (celebre l’esclamazione fatta a Hemingway: “i ricchi sono diversi da noi”, cui l’altro rispose: “sì, hanno più soldi”), è perché rispetto a loro si sentì sempre uno straniero, abitante di quello “spazio letterario”, il disperato non-luogo di chi fa letteratura nell’età contemporanea.

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità 11/7/2010)

7/09/2010

I costruttori di vulcani di Carlo Bordini

Come ho scritto in un blog (absolutepoetry), io sono troppo intimo per commentare Carlo Bordini - intimo alla sua poesia, al suo farsi, e a molti episodi della sua vita che hanno in qualche modo influito sulla sua poesia. Ma di questo sono sicuro: che la sua opera è una delle più alte di questi decenni, di una bellezza e di un’autenticità spesso acceccanti; che la sua è tra le poche opere di poesia che si leggono misteriosamente come un romanzo, cioè con suspence e passione; o, come mi ha detto lui spesso di Stendhal, che si può leggere anche in autobus. La sua poesia ha qualcosa in comune coi vulcani, in effetti: l’energia latente, esplosiva, tanto più intensa quanto apparentemente non erompe. Se Carlo Bordini fosse americano, o qualcosa del genere, i suoi libri sarebbero, ne sono certo, dei libri di culto. Ma siamo in Italia. E comunque sia I costruttori di vulcani è un libro magnifico, da leggere e rileggere.
Detto questo, il testo che segue è un articolo/intervista che già da tempo avevo fatto per Venerdì di Repubblica, e che per una serie di rinvii, ultimo dei quali lo sciopero odierno, sarà in edicola nel numero che esce in edicola domenica. Spero vi dia la voglia di andare a comprare questo libro.

Intervista a Carlo Bordini, costruttore di vulcani

Noi vi dobbiamo sembrare una strana categoria / un po’ folle e nebulosa / ed infida / anche...”. Così inizia e finisce, con una poesia emblematica degli anni Settanta usata come sigla (“poi venne la crisi di fine estate a quasi tutti noi”, e “questa discesa negli abissi / profondi di se stessi”), il libro che raccoglie 35 anni di lavoro di un grande poeta italiano, Carlo Bordini, col titolo (bellissimo) I costruttori di vulcani. Poesie 1975-2010 (Luca Sossella Editore).
Ci sono i versi introvabili degli anni in cui Bordini faceva parte di “Poesia nel movimento”, c’è il mitico poema Strategia (un attraversamento della follia occasionato dall’amore, visto come estenuante match di pugilato), i poemi Pericolo, Polvere, Sasso, noti al pubblico dei reading da Castelporziano in poi. Dei vulcani la poesia di Carlo Bordini ha l’energia latente ed esplosiva, cioè l’intensità, la potenza, l’apparente amenità (i vulcani, si sa, possono essere laghi o monti belli da vedere). Ma non dimentichiamone l’attualità: se un’eruzione in Islanda con la sua nuvola di cenere ha paralizzato il traffico aereo, in fondo i poeti hanno sempre saputo che basta una nuvola per fermare il mondo.
Bordini ha superato i settant’anni senza perdere l’aria di ragazzo svagato in scarpe da ginnastica, l’umorismo sornione e un senso acuto del grottesco (è autore di un esilarante Manuale di autodistruzione). Di ritorno da una serie di letture in Germania e in Serbia, è in partenza per la Francia, dove è stato tradotto, e un anno fa ha dato alle stampe per l’editore Sossella un delizioso librino di appunti di poeta viaggiatore in America Latina: Non è un gioco. “Al festival di poesia di Bogotà ho capito l’importanza della poesia nei paesi poveri alla periferia del mondo, il senso del sacro che la circonda e che non passa attraverso integralismi. Ogni società ne ha bisogno, ma in Colombia ho visto gente piangere ascoltando una poesia, anche soldati armati. Lì la poesia è sacra perché rientra nella ricerca del significato dell’esistenza. D’altronde è nei momenti più terribili della Storia, nei periodi di orrore, che prolifera la poesia. Come a Sarajevo durante l’assedio”. Io stesso, dice, “scrivo per dare ordine alla mia vita, per non impazzire”.
Sulla sua visibilità e invisibilità di poeta dice: “A parte che sono pochissime le figure notevoli nel campo della critica, credo che dipenda da una mia certa antiletterarietà (più apparente che reale) e da una mia supposta semplicità (anch’essa più apparente che reale). Ma confesso che non sono mai stato un campione di pubbliche relazioni. Il dato nuovo è che la mia poesia interessa ai giovani. Amo i poeti irregolari. Di quelli del secondo Novecento italiano soprattutto Roberto Roversi, Amelia Rosselli, Pasolini”. “La critica letteraria italiana - continua Bordini - è ancora legata all’idea che in poesia esistano materiali nobili e materiali ignobili - idea superata da decenni in ogni altro campo artistico, dove vale la contaminazione. La poesia da noi è ancora aulica, prevale l’elemento apollineo su quello dionisiaco. Il più grande poeta italiano, Dante, in Italia è isolato. Grandi e pensosi poeti del Novecento come Eliot e Pound hanno imparato l’italiano per leggere Dante, i poeti italiani quasi lo ignorano, a parte Pasolini”.
Il che ci riporta al legame tra poesia e inferno, l’orrore in cui la poesia si diffonde come epidemia buona. La sua, che dice la disgregazione storica e umana con stile apparentemente disgregato, è una poesia dei nervi spezzati, con tratti di moralità “stoica”, coincidenza tra stile di scrittura e stile di vita. Imparentato sia con un certo Dante che con un certo Raymond Carver, le parole che più mi vengono in mente sono quelle del capolavoro di William Burroughs, “il pasto nudo”, che potrebbero benissimo designare l’esperienza profonda e rischiosa della poesia. “Un grande artista – dice Bordini - è quello che decide di fare un viaggio, un viaggio all’inferno e in paradiso. Per fare questo libro come un’opera organica ho tolto delle poesie che non ho potuto metabolizzare, seguendo un’arte del mosaico, o meglio del puzzle. Ho voluto fare un libro cattivo, a volte feroce, con poesie che emergono come punte che feriscono”.
Gli acumina, le “punte” che feriscono, sono storicamente il connotato della poetica stoica, del suo stile morale – senza dimenticare che la stessa parola “stile” (stilos) indica in origine un coltello. La poesia Epidemia è tra quelle indicate come le più cattive. Parla della fine del mondo in tono pacato, ma “nasce come una maledizione, io vi ho scritto esattamente quello che pensavo, come un omicidio o un suicidio rituali”. Fatta all’epoca dello scandalo bio-politico della “mucca pazza” e del massacro del G8 a Genova, l’autore adopera frasi di giornali sostituendo alla parola “mucche”, abbattute perché infettate dal morbo, la parola “schiavi”. Bordini usa spesso la tecnica del collage, inserendo testi altrui, come certe avanguardie visive del Novecento. Non a caso ama il pre-surrealista Guillaume Apollinaire, con cui condivide una non appartenenza. La poesia di Bordini rientra insomma in una “strana categoria”, quella dell’intensità libera, del non codificato, del senza requie, del vulcano agli antipodi dell’ideologia.
“Io non scrivo, sono scritto. Ho imparato a diffidare delle ideologie e del senso del dovere, la realtà è infinitamente più grande, vera e libera del pensiero. Se esaminassimo tutta la letteratura civile degli ultimi 150 anni, scopriremmo che funziona solo chi, fuori dagli schemi, porta in sé un elemento di eresia”.

(da Venerdì di Repubblica del 9/7/2010 - in edicola domenica 11 luglio)

7/03/2010

Un destino piccolo piccolo

“Borgo delle Terme sembrava un mollusco andato a male, (...) semichiuso d’inverno e semiaperto d’estate. Un paese che aveva dimenticato le proprie origini, (...) cooperativiste e partigiane. (...) Corrotto. Stuprato prima dai fascisti, poi deluso dai compagni. Sempre tenuto a bada dai preti (...) Paese fiction delle signore country trendy che andavano a ritirare i bambini dalla scuola, uno alla volta, con auto tanto grandi da poterne contenere almeno quindici. E invece no: quindici Suv per quindici bambini (...) Il paese si era esteso a colpi di centri commerciali e capannoni prefabbricati (...) un’astronave di plexiglass in mezzo a una pianura che brillava come lamiera ondulato”. Così Andrea Villani (La strategia del destino, Mursia 2010), romanzo ambientato nella provincia della città da cui anch’io provengo. Iscritto nella strategia editoriale del “noir” italiano, ne adotta la maniera da fiction tv (storie che si alternano e convergono immancabilmente, il tutto nello spazio di 24 ore). Ma il finale, degno di Palhaniuk, è un cataclisma che sommerge i destini del Borgo delle Terme di una sostanza che non posso dire. L’ho letto d‘un fiato, pur dubitando della scelta di scrivere “con” le parole invece che scrivere parole (se traducete questa frase in suonare “con” la chitarra, o suonare la chitarra, ne capite il senso), come è norma per gli sceneggiatori. Villani, che è più bravo del genere che usa, un tempo ha fatto anche il barman. Ora, è noto che il barman sia il migliore amico dell’uomo, pardon dello scrittore: uno scrittore con l’esperienza del barman ha una marcia in più, se smette di voler essere uno scrittore. Chi scrive non vuole diventare uno scrittore, ma diventare altro, o al limite sparire, e ossessionare la realtà come uno spettro. Lo faccio forse anche qui: questa in fatti NON è una recensione (non saprei farle), e parlo di questo romanzo per dire qualcos’altro, il destino – una tragedia piccola piccola - di questo nostro Paese.

(rubrica "acchiappafantasmi" - l'Unità del 4-7-2010)