Saluto come importante, per disapprovandone la traduzione del titolo (Frances Scott Fitzgerald, Il crollo, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi) l’uscita in un piccolo libro dei tre testi più sconcertanti dell’autore di Tenera è la notte, noti come The Crack-Up. Cioè “l’incrinatura”, come si dice di un piatto crepato, anche se qui è la propria vita a essere descritta con voce disperatamente off,o postuma. Usciti sulla rivista Esquire nel 1936, si tratta di una “confessione” perfettamente attuale in questi nostri anni disgraziati, ma anche una lezione sul senso profondo dello scrivere, oggi degradato: ci sono molti libri, sì, ma pochissima letteratura. Quello che commuove di The Crack-Up, testimonianza di una “bancarotta affettiva”, emotiva e professionale, è che Fitzgerald riesce a scrivere perfino sulla propria impotenza e impossibilità di scrivere. Lo fa con sincerità accecante, immune da ogni intellettualismo. E’ anche la consapevole conclusione di un’opera che ha avuto sempre a che fare, lo scrisse lui stesso, con “un tocco di disastro”. Ma il vero tema dei suoi libri non è il declino o la disgrazia, quanto il sentimento di esclusione sociale. Il suo incanto e disincanto è quello dell’estraneità, solitudine che si prova non fuori, ma all’interno di una comunità, quella dei ricchi soprattutto, di chi ha successo: non c’è glamour che non gli si riveli un agghiacciante “pasto nudo”. Da qui la sua modernità, e il carattere profondamente sperimentale (Deleuze lo chiamò “stoico”) della sua opera. Se Fitzgerald si è tanto interessato ai ricchi (celebre l’esclamazione fatta a Hemingway: “i ricchi sono diversi da noi”, cui l’altro rispose: “sì, hanno più soldi”), è perché rispetto a loro si sentì sempre uno straniero, abitante di quello “spazio letterario”, il disperato non-luogo di chi fa letteratura nell’età contemporanea.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità 11/7/2010)
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