Vorrei riproporre qui un mio testo scritto ormai molti anni fa, e compreso anche nel mio ultimo libro Oggetti smarriti e altre apparizioni (Laterza Contromano). Vi si parla di Easy Rider, il magnifico film del 1969 diretto e intepretato da Dennis Hopper, scomparso ieri a 74 anni. Devo molto a quel film, e a Dennis Hopper. Il testo è intitolato, nell'ultima versione, "Il cane morto". Vi lascio capire perché leggendolo.
Il cane morto
Due negli ultimi tempi sono state le suggestioni più forti che ho avuto sui temi del “luogo” e del “viaggio”: una rivedendo un vecchio film che pensavo non avesse più niente da rivelare; l’altra leggendo una biografia di Michel Foucault.
In questa c’è un brano che racconta l’esperienza dell’acido lisergico che il già maturo filosofo fece con due giovani docenti californiani. Restò seduto immobile per ore davanti al deserto della Death Valley, a guardare la Terra e il firmamento, come Cézanne di fronte alla montagna Sainte Victoire. Quando venne buio aveva gli occhi umidi di pianto: “Sono felice”, disse. Disse anche che, finalmente, aveva “capito”. E poi, due volte: “Adesso posso ritornare a casa”. Aggiunse qualcosa sul “rivedere sua sorella”.
L’altra scena, quella del film, ha forse anch’essa a che fare con l’Lsd. Ma è poco più di un fotogramma, e per non bruciarla, e anche perché se la dicessi adesso non saprei più come andare avanti, la scriverò solo alla fine.
Mi viene in mente invece un racconto di Pier Vittorio Tondelli, se ricordo bene, dove racconta di un suo giro in macchina scandito da un orizzonte musicale, un vagabondaggio notturno sul filo delle onde radio locali. E’ un’idea narrativa molto bella, al panorama visivo se ne sovrappone un altro auditivo, ogni mutamento dello spazio si accompagna all’apertura di un paesaggio sonoro, ed è ormai un’esperienza che si può fare ovunque, viaggiare in automobile costeggiando le invisibili frontiere delle varie rock station. Ma mi suggerisce anche un’altra idea: che non si dà più viaggio, o spostamento nello spazio, che non sia in qualche modo tele-guidato; che non si dà più nemmeno una deriva senza un orientamento, e che anche il perdersi ha un suo proprio oriente, spesso rassicurante e frivolo come l’ingresso in un programma Windows, o come un log-in, simbolo dell’universo di esperienze sempre più virtuali con cui stiamo soppiantando, chissà poi perché, tutte le altre nostre esperienze, possibili proprio perché reali.
Penso alla luna. E a quella fatidica notte del luglio 1969 spesso rievocata dai media, di cui, tra ricordi miei e quelli di amici, ho messo su la scena seguente.
Su un prato di luglio, in campagna, la famiglia si siede davanti a una delle prime televisioni portatili, quelle rivestite di plastica rossa o bianca, alimentata con dei cavi collegati a una batteria da camion. Guardano in diretta il reportage dell’allunaggio. E’ una notte di luna, naturalmente, e i bambini alternano lo sguardo dalla luna molle e informe sulla televisione in bianco e nero e con la voce off di Tito Stagno, a quella bianca e luminosa che si staglia sulle cime degli alberi nel cielo blu scuro.
Passa un vecchio contadino, mettiamo che si chiami Alfio, è un amico di famiglia, si ferma e si rivolge così al padre dei bambini: “Mi meraviglio di lei, che è una persona così istruita e se ne sta lì a guardare quelle cose. Ma non crederà mica che ci siano andati davvero, sulla luna? E’ tutta una finzione che hanno inventato loro, quelli lì della televisione...” I bambini guardano la luna sopra le loro teste, il contadino in piedi, il papà seduto per terra, i corpi degli astronauti che galleggiano dentro la televisione sulla luna grigiastra, la televisione rossa sul prato con dentro la Luna e la Terra (il Mondo) in bianco e nero, e poi ancora le stelle e il cielo, gli alberi, e trovano tutto questo molto strano (più strano dei carri armati nel Golan, più strano delle immagini di corpi ammazzati di Vietkong), di una stranezza forse affascinante. Capiscono che sono di fronte a una strana storia, e forse quello che ricorderanno è proprio questa sensazione, che le storie sono strane, cioè sono vere ma in modo diverso, ti promettono una verità ma non sai bene quale sia, e non sei mai sicuro quando arriva, né di riconoscerla, come nelle promesse. Luigi Ghirri, il grande fotografo, diceva questo a proposito della missione sulla luna del 1969: che venne fatta allora “la prima fotografia del Mondo”.
Diversi anni fa, all’epoca di un pionieristico lavoro di descrizione-narrazione della via Emilia coordinato da Luigi Ghirri e Gianni Celati, nel testo che consegnai alla fine omisi una citazione cui tenevo molto. E’ una frase dell’antropologo Claude Lévi-Strauss singolarmente sentimentale per uno strutturalista, e in cui ritrovavo perfettamente la mia esperienza: “Fra qualche secolo, in questo stesso luogo, un altro esploratore, altrettanto disperato, piangerà la sparizione di ciò che avrei potuto vedere e mi è sfuggito. Vittima di una doppia incapacità, tutto ciò che vedo mi ferisce, e senza tregua mi rimprovero di non guardare abbastanza”. Che il problema fosse in realtà una questione di sintassi, cioè di linguaggio, perché nel raccontare un luogo, anche nella lotta contro la cecità e l’assuefazione, il vero problema è sempre quello di raccontare una storia, lo capii solo dopo. I fotografi mi avevano insegnato comunque a lavorare sul campo, a lasciare lo scrittoio e a uscire fuori dallo studio (“fuori dai nostri armadi”, cantava Lou Reed). Sono andato in giro per anni a proiettare il mio desiderio di abitare, a fare prove generali di vita cercando di non disprezzarne nessuna - a provare storie come abiti, direbbe Max Frisch - e una volta restai perfino qualche giorno in quel mondo parallelo che è l’autostrada, per vedere come si poteva viverci. Alla raccolta di racconti “di luoghi” che pubblicai in seguito, omisi stavolta una sorta di prefazione di cui ricordo solo questa frase: “In attesa di raccontare, di una casa, si dà qui la ricerca del raccontare, della casa. Café Suisse è il luogo, il libro, di quest’avventura”.
Il fatto è che mi sembra più avventuroso stare fermi che viaggiare. Abitare, che vuol dire sempre abitare da qualche parte, è in fondo un viaggio condensato e intensivo, e penso che abitare qui, in questo o quel luogo, esposti alla vertigine della domanda “Perché qui, e non invece in un altro posto?”, sia l’avventura più intensa che ci possa capitare. Inoltre è sempre già un perdersi. Un po’ perché siamo già tutti perduti, cioè tutti, in qualche modo, dei rifugiati politici, degli stranieri; un po’ perché lo straniero, come spiegava Georg Simmel, non è colui che arriva oggi e parte domani, ma colui che arriva oggi e che domani non parte; che resta indefinitamente, e arricchisce con la sua specifica modalità di relazione il luogo e i suoi abitatori.
Oggi quindi mi interessa soprattutto il restare fermo sul posto, fare l’esperienza del qui, del questo, dell’ora; del linguaggio capace di indicare, di dare del tu alle cose e ai luoghi – “il melo, il pero, il muro” (Pascoli), “quest’ermo colle”, “questo mare” (Leopardi): e si noti che ho nominato due tra i nostri maggiori raccontatori del paesaggio. E’ un caso che tutti i testi sapienziali, terapeutici (ammesso che dei testi possano essere sapienziali e terapeutici) abbiano un rapporto stretto con la consapevolezza del qui, del questo? “Conoscere se stessi, per dimenticare se stessi”, recita una massima Zen. Ma si potrebbe dire: conoscere a fondo il qui, poi dimenticarlo.
[...]
Scrivo queste ultime frasi sullo schermo luminoso del computer nella stanza buia, e dalla finestra aperta vedo la città notturna, il fascio di linee oblique delle case, le sponde del fiume, gli alberi (tigli) sul lungofiume, un lembo di strada, le luci dei lampioni, il riflesso della luce sull’acqua, la luminosità oscura della notte. Più lontano, dietro le chiazze buie dei tetti e delle case invisibili, vedo le strade invisibili e la periferia invisibile; e dietro il cielo notturno vedo i colori e i rumori invisibili del giorno.
C’era Easy Rider alla televisione, stasera (è questo il vecchio film di cui dicevo all’inizio) e ho rivisto le famose scene dell’Lsd preso al cimitero. Ma c’erano scene nuove subito prima (c’è sempre una scena nuova quando si rivede un film, o quando si legge un libro), di cui non mi ricordavo (anche ora non me la ricordo: penso solo al blues di Dylan prima della loro morte). Il carnevale, ecco, Dennis Hopper e Peter Fonda, in una sosta del loro viaggio infinito, che vanno fuori dal bordello con le loro donne e camminano (le donne che escono dal bordello e camminano con i loro uomini), camminano e vanno per le strade e guardano il carnevale isterico nella città - ci sono tante cose da vedere - finché arrivano quasi all’uscita e si trovano ora in una periferia molto vasta, ci sono poche case, bianche e quadrate, sembrano molto abitabili, loro si fermano, restano chini a guardare, osservano un cane morto accostato al marciapiede - ecco, la scena è questa, questo indugio.
Forse loro lo sanno perché stanno lì a guardarlo, il cane morto. Poi senza una parola proseguono, camminano fuori dalla città e arrivano al cimitero.
5/30/2010
La libertà di stampa e la verità della letteratura
Riguardo alla libertà di espressione e di stampa, penso da sempre che si dovrebbe conferire una fondamentale, irrevocabile immunità alla letteratura (settore poco illuminato nella sacrosanta lotta contro ogni legge bavaglio), una libertà totale di dire, nominare, narrare. Riconoscimento alla natura di un genere che di solito si riserva alla satira, dimenticando che la libertà della satira ha senso in virtù della sua appartenenza alla letteratura. (Né si capisce perché far ridere dovrebbe godere di maggior libertà del rendere seri o perplessi).
Un anno fa ebbi intense discussioni coi legali di due case editrici, in Francia e in Italia, per due diversi libri in uscita: narrazioni scritte in soggettiva ma basate sulla realtà, e che mi metteva nella posizione di dovermi tutelare dal rischio di querela solo per aver nominato persone reali e identificabili. Resta che i nomi di luoghi e persone erano per me parti integranti del testo. E pensai con solidarietà e angoscia a Roberto Saviano, che ha offerto la propria soggettività a una descrizione di fatti in cui è questione di vita e di morte (se non di genocidio).
Ma la cosa più interessante fu apprendere, con grande iniziale stupore, che in Francia (non so in Italia) la legge è più severa con le opere letterarie che con i giornali. Capii meglio allora la frase di cui ero grato all’editore italiano per averla posta in quarta di copertina di un mio libro: “una messa in scena assoluta della verità, e della sconfitta, della letteratura” [mi riferisco a HP. L’ultimo autista di Lady Diana, N.d.R.]
La verità della letteratura è la sua nudità, la sua inermità. E la sua potenza, se esiste, è nel suo non essere né avere mai “potere”, a differenza di altre parole pubbliche come la politica, l’informazione o la pubblicità, il cui dire è già sempre un fare. D’altra parte è la letteratura, inerme e inattuale (le cui news restano tali anche dopo averle lette) a potersi fare “parte civile”, a giudicare cioè anche crimini che per la legge sono ormai stati prescritti. Anche ciò che non fa più notizia.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 30 maggio)
Un anno fa ebbi intense discussioni coi legali di due case editrici, in Francia e in Italia, per due diversi libri in uscita: narrazioni scritte in soggettiva ma basate sulla realtà, e che mi metteva nella posizione di dovermi tutelare dal rischio di querela solo per aver nominato persone reali e identificabili. Resta che i nomi di luoghi e persone erano per me parti integranti del testo. E pensai con solidarietà e angoscia a Roberto Saviano, che ha offerto la propria soggettività a una descrizione di fatti in cui è questione di vita e di morte (se non di genocidio).
Ma la cosa più interessante fu apprendere, con grande iniziale stupore, che in Francia (non so in Italia) la legge è più severa con le opere letterarie che con i giornali. Capii meglio allora la frase di cui ero grato all’editore italiano per averla posta in quarta di copertina di un mio libro: “una messa in scena assoluta della verità, e della sconfitta, della letteratura” [mi riferisco a HP. L’ultimo autista di Lady Diana, N.d.R.]
La verità della letteratura è la sua nudità, la sua inermità. E la sua potenza, se esiste, è nel suo non essere né avere mai “potere”, a differenza di altre parole pubbliche come la politica, l’informazione o la pubblicità, il cui dire è già sempre un fare. D’altra parte è la letteratura, inerme e inattuale (le cui news restano tali anche dopo averle lette) a potersi fare “parte civile”, a giudicare cioè anche crimini che per la legge sono ormai stati prescritti. Anche ciò che non fa più notizia.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 30 maggio)
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5/28/2010
Rompere teste. Arte, mondanità, indifferenza (per un'antropologia dei gesti del pubblico d'arte)
Sono giorni di grande fervore mondano per l’arte a Roma, tra apertura del Maxxi e la festa al Macro. Sono al vernissage della fiera Road to Contemporary Art, e il cortile dietro il primo padiglione del Macro, tra il muro e i paletti dello spazio ristoro, è ricoperto di teste di ceramica bianca. Sono posate per terra, erette, salvo poche rovesciate o cadute, reclinate. Un camposanto, penso. L’istinto è di circumnavigarle, e mi siedo a un tavolo dello spazio ristoro a fianco dell’opera en plein air ad aspettare un amico. E’ un buon punto per contemplare il passaggio dei visitatori. Il loro flusso è ancora contenuto, e risalta così la goffaggine di qualcuno che attraversa l’opera per sbaglio, e imbarazzato cammina come sulle uova cercando di non urtare e ferire le bianche teste. Le guardo meglio: sono di tre tipi, dalla maturità all’infanzia (quest’ultime un po’ più piccole); i loro volti hanno gli occhi chiusi, in un’espressione contemplativa che ne aumenta l’inermità.
Quasi al centro della distesa di teste c’è una striscia sottile di cocci, e il rumore di ceramica tritata mi fa alzare la testa: una coppia di incaute signore ci cammina su. Mi metto così ad osservare i gesti e le andature della gente convenuta a questo vernissage: esitanti, rispettosi, saputi, indifferenti, curiosi, distratti, irriverenti, mondani, presuntuosi, attoniti, ignari - il campionario è vasto. L’ex ministro ai Beni Culturali Rutelli, con consorte, evita le teste passando ai bordi, senza però degnarle di uno sguardo, tranne quello che ti permette di non calpestarle. Aumentano però quelli che, noncuranti, attraversano il campo minato calpestando il rivolo di cocci. Alcuni urtano le teste, che si rovesciano. Qualcuna si infrange, e il rumore è come una ferita. Ma non si voltano. Finché un giovane vestito da fighetto si lancia tra le teste come in una gimkana. Ne rompe tre o quattro prima di tornare indietro, e ride con gli amici. Passano i minuti e i visitatori, e io resto spettatore esterrefatto di un crescendo perturbante di gratuita aggressività. E’ come un documentario sull’approccio e l’interazione all’arte e ai musei: chi sono i visitatori, che cosa vedono quando guardano un’opera? L’inermità dei volti e teste per terra, bianchi e fragili, è una perfetta metafora dell’opera d’arte, che nel migliore dei casi è sempre un volto che si offre ed espone alla nostra simpatia o violenza. Vale per l’arte ciò che vale per il sacro e il gioco: cosa fa sì (per esempio) che in certi luoghi, di fronte a certi oggetti o persone, facciamo silenzio o ci togliamo il cappello, oppure rilanciamo la palla che ci cade addosso?
Quelli che evitano le teste bianche sono diminuiti a favore dei baldanzosi che le rompono. Non provano nessun imbarazzo, anzi ridono. La prima signora che rompe una testa (di vecchio? di bambino?) coi tacchi alti, inaugura un crescendo peggiore: camminano fra le teste per urtarle, come chi si diverte a far scoppiare palloncini. Una signora elegante ha un’idea migliore, seguita poi da varie emulatrici: solleva una testa con la mano e, in posa di fronte al compagno che la fotografa, la lascia cadere per terra in un fragore di cocci. Teste rotte, pezzi sparsi di volto. Senza accorgermene grido. Una coppia anziana mi chiede: “Lo possono fare?” Un altro dice: “Sì, è l’artista che lo vuole”. Non è che lo vuole, rispondo, ma certo lo ha previsto. L’opera ha un titolo perfetto, Indifference, e un cartellino spiega: quasi 1000 teste di ceramica fragile. E’ dell’artista Renato Meneghetti, galleria Factory di Berlino.
C’è una bella differenza tra intenzione (o addirittura istigazione) e previsione. Se lascio la macchina aperta e l’occasione fa l’uomo ladro, resta che si tratterebbe di un furto. L’umana indifferenza esibita degli invitati al museo, luogo elettivo dell’empatia, mi stordisce. E’ questa l’opera, lo so: fare quello che ti pare. Poi immagino che le teste che fanno scoppiare per terra, mettendosi in posa per farsi fotografare, non siano di ceramica, ma vive e ugualmente inermi. Che siano teste di bambini. Mi alzo e mi allontano, inseguito alle spalle dal rumore di cocci come ossa, come carne.
(su l'Unità di sabato 29 maggio 2010)
Quasi al centro della distesa di teste c’è una striscia sottile di cocci, e il rumore di ceramica tritata mi fa alzare la testa: una coppia di incaute signore ci cammina su. Mi metto così ad osservare i gesti e le andature della gente convenuta a questo vernissage: esitanti, rispettosi, saputi, indifferenti, curiosi, distratti, irriverenti, mondani, presuntuosi, attoniti, ignari - il campionario è vasto. L’ex ministro ai Beni Culturali Rutelli, con consorte, evita le teste passando ai bordi, senza però degnarle di uno sguardo, tranne quello che ti permette di non calpestarle. Aumentano però quelli che, noncuranti, attraversano il campo minato calpestando il rivolo di cocci. Alcuni urtano le teste, che si rovesciano. Qualcuna si infrange, e il rumore è come una ferita. Ma non si voltano. Finché un giovane vestito da fighetto si lancia tra le teste come in una gimkana. Ne rompe tre o quattro prima di tornare indietro, e ride con gli amici. Passano i minuti e i visitatori, e io resto spettatore esterrefatto di un crescendo perturbante di gratuita aggressività. E’ come un documentario sull’approccio e l’interazione all’arte e ai musei: chi sono i visitatori, che cosa vedono quando guardano un’opera? L’inermità dei volti e teste per terra, bianchi e fragili, è una perfetta metafora dell’opera d’arte, che nel migliore dei casi è sempre un volto che si offre ed espone alla nostra simpatia o violenza. Vale per l’arte ciò che vale per il sacro e il gioco: cosa fa sì (per esempio) che in certi luoghi, di fronte a certi oggetti o persone, facciamo silenzio o ci togliamo il cappello, oppure rilanciamo la palla che ci cade addosso?
Quelli che evitano le teste bianche sono diminuiti a favore dei baldanzosi che le rompono. Non provano nessun imbarazzo, anzi ridono. La prima signora che rompe una testa (di vecchio? di bambino?) coi tacchi alti, inaugura un crescendo peggiore: camminano fra le teste per urtarle, come chi si diverte a far scoppiare palloncini. Una signora elegante ha un’idea migliore, seguita poi da varie emulatrici: solleva una testa con la mano e, in posa di fronte al compagno che la fotografa, la lascia cadere per terra in un fragore di cocci. Teste rotte, pezzi sparsi di volto. Senza accorgermene grido. Una coppia anziana mi chiede: “Lo possono fare?” Un altro dice: “Sì, è l’artista che lo vuole”. Non è che lo vuole, rispondo, ma certo lo ha previsto. L’opera ha un titolo perfetto, Indifference, e un cartellino spiega: quasi 1000 teste di ceramica fragile. E’ dell’artista Renato Meneghetti, galleria Factory di Berlino.
C’è una bella differenza tra intenzione (o addirittura istigazione) e previsione. Se lascio la macchina aperta e l’occasione fa l’uomo ladro, resta che si tratterebbe di un furto. L’umana indifferenza esibita degli invitati al museo, luogo elettivo dell’empatia, mi stordisce. E’ questa l’opera, lo so: fare quello che ti pare. Poi immagino che le teste che fanno scoppiare per terra, mettendosi in posa per farsi fotografare, non siano di ceramica, ma vive e ugualmente inermi. Che siano teste di bambini. Mi alzo e mi allontano, inseguito alle spalle dal rumore di cocci come ossa, come carne.
(su l'Unità di sabato 29 maggio 2010)
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5/23/2010
"Shame the devil" (fai vergognare il diavolo)
La legge-bavaglio che azzera in un solo colpo la conoscenza (inchieste poliziesche) e la comunicazione dei reati (giornalismo, narrazione) ha una portata così alta e ampia che mi chiedo se nel regime di pubblicitari si sia insediato un filosofo o uno scrittore, al passo con George Orwell e il ministero della “verità” di 1984. Cosa è in fondo la realtà, se non un racconto? Geniale trovata del fascismo soft dei nostri tempi, quella del padrone delle televisioni: abolire le notizie di crimini per abolirne l’esistenza, quindi abolire le inchieste giudiziarie, e soprattutto quella fastidiosa “opinione pubblica” che storicamente si è formata proprio leggendo i giornali e scambiandosi lettere, provando il gusto di conoscere cosa sia appunto la cosiddetta realtà (da cui è nato il romanzo moderno, poliziesco compreso). Tanto poi in questi anni la “realtà”, uccisa dalla televisione, si sarebbe trasformata in un “reality”, e la comunicazione in generale è diventata progressivamente spam, come si dice degli e-mail indesiderati. Sì, ma la realtà dei crimini, delle mafie colluse alla politica, delle ruberie, della violenza del G8 ecc.? Ovvio che anche gli scrittori, come tutti gli altri cittadini e anche di più, debbano schierarsi.
Ecco, mi trovo a Piacenza al bellissimo festival blues “Dal Mississipi al Po”, che si conclude oggi, domenica, in compagnia di scrittori di polizieschi (e non solo) come Tim Willocks, Martin Walkler, Joe Lansdale, Victor Gischler, Stanley Péan, Anne Perry, Peter Beagle – per non citarne che alcuni. Alterniamo e fondiamo parole alle note e alle voci di Harrison Kennedy, Kevin Welch, Kasey Lansdale e altri magnifici interpreti del blues. Ma è il maestoso afro-canadese Harrison Kennedy a fornirmi, parlando di spirito del blues, la frase più giusta per controbattere il fascismo di oggi e di sempre. Gliela ripeteva sua madre, e sarà il titolo del suo prossimo cd: Say the true, and shame the devil, “dì sempre la verità, e fai vergognare il diavolo”.
(uscito nella mia rubrica odierna "acchiappafantasmi" su l'Unità con un titolo troppo idiota per ricordarlo)
Ecco, mi trovo a Piacenza al bellissimo festival blues “Dal Mississipi al Po”, che si conclude oggi, domenica, in compagnia di scrittori di polizieschi (e non solo) come Tim Willocks, Martin Walkler, Joe Lansdale, Victor Gischler, Stanley Péan, Anne Perry, Peter Beagle – per non citarne che alcuni. Alterniamo e fondiamo parole alle note e alle voci di Harrison Kennedy, Kevin Welch, Kasey Lansdale e altri magnifici interpreti del blues. Ma è il maestoso afro-canadese Harrison Kennedy a fornirmi, parlando di spirito del blues, la frase più giusta per controbattere il fascismo di oggi e di sempre. Gliela ripeteva sua madre, e sarà il titolo del suo prossimo cd: Say the true, and shame the devil, “dì sempre la verità, e fai vergognare il diavolo”.
(uscito nella mia rubrica odierna "acchiappafantasmi" su l'Unità con un titolo troppo idiota per ricordarlo)
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5/16/2010
Il ritorno delle periferie
Le pensose dichiarazioni del sindaco di Milano e del ministro dell’Interno - rispettivamente: gli stranieri delinquono, le periferie italiane sono pericolose come le banlieues di Parigi – mirano alla solita ricetta: più rigore poliziesco e continua nemicizzazione degli “altri” – stranieri e rom, di cui si è intensificato il controllo anche sui treni, come negli anni ‘30 in Germania.
Pare che il ministro Maroni abbia letto una ricerca dell’Università Cattolica di Milano sulle periferie di alcune città italiane prima di concludere che la situazione è esplosiva: la “crescita tumultuosa” (leggi: corsa all’arricchirsi senza regole e guerra contro i poveri), ha aumentato il disagio sociale, i palazzi ghetto, le gang giovanili e la disoccupazione. In altre parole, da quando lui è ministro (con a capo un ex palazzinaro che produce mezzi di distrazione di massa), la situazione è peggiorata. Il suo governo è talmente bravo nel creare disagi che ha costruito periferie-ghetto perfino a L’Aquila.
Pochi anni fa uscì un libro tutto sommato pionieristico, Periferie. Viaggio ai margini delle città, a cura di Stefania Scateni (Laterza Contromano): sei città italiane descritte (non giudicate a tavolino da esperti accademici o del Viminale, ma “sul terreno”) da altrettanti artisti e scrittori. Ne risultavano alcuni dati interessanti, come il fatto che le periferie, diversamente da tante chiacchiere di politici, sono semplicemente i luoghi in cui abita la gente; e che i luoghi più pericolosi, vere terre di nessuno, sono spesso non ai margini, ma nel centro detto commerciale delle città, dove banche e uffici finanziari hanno sfrattato cinema e ritrovi sociali, creando sinistri deserti già al primo imbrunire. Ne risultava anche che, al contrario delle banlieues di Parigi dove si fecero barricate per non abitarci più, in Italia, a Roma soprattutto, se si facessero barricate sarebbe per restarci, per esempio in quelle ultime borgate desiderate dagli immobiliaristi, colleghi minori del capo del governo.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 16 maggio 2010)
Pare che il ministro Maroni abbia letto una ricerca dell’Università Cattolica di Milano sulle periferie di alcune città italiane prima di concludere che la situazione è esplosiva: la “crescita tumultuosa” (leggi: corsa all’arricchirsi senza regole e guerra contro i poveri), ha aumentato il disagio sociale, i palazzi ghetto, le gang giovanili e la disoccupazione. In altre parole, da quando lui è ministro (con a capo un ex palazzinaro che produce mezzi di distrazione di massa), la situazione è peggiorata. Il suo governo è talmente bravo nel creare disagi che ha costruito periferie-ghetto perfino a L’Aquila.
Pochi anni fa uscì un libro tutto sommato pionieristico, Periferie. Viaggio ai margini delle città, a cura di Stefania Scateni (Laterza Contromano): sei città italiane descritte (non giudicate a tavolino da esperti accademici o del Viminale, ma “sul terreno”) da altrettanti artisti e scrittori. Ne risultavano alcuni dati interessanti, come il fatto che le periferie, diversamente da tante chiacchiere di politici, sono semplicemente i luoghi in cui abita la gente; e che i luoghi più pericolosi, vere terre di nessuno, sono spesso non ai margini, ma nel centro detto commerciale delle città, dove banche e uffici finanziari hanno sfrattato cinema e ritrovi sociali, creando sinistri deserti già al primo imbrunire. Ne risultava anche che, al contrario delle banlieues di Parigi dove si fecero barricate per non abitarci più, in Italia, a Roma soprattutto, se si facessero barricate sarebbe per restarci, per esempio in quelle ultime borgate desiderate dagli immobiliaristi, colleghi minori del capo del governo.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 16 maggio 2010)
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5/06/2010
Parlando di fantasmi sulla nave
C'è qui un'intervista a me fatta dalla bravissima Alessanda Casella su booksweb.tv, registrata a poppa della nave per Barcellona poco tempo fa. Ho un strano accento napo-parmigiano, sarà la svogliatezza della nave senza tempo e senza luogo, di fronte alla scia lasciata nel mare...
Dice una didascalia ritagliando alcune mie parole: "Ogni personaggio letterario è uno che vuole tornare a casa. E anche gli scrittori scrivono, forse, perché vorrebbero tornare a casa..."
Dice una didascalia ritagliando alcune mie parole: "Ogni personaggio letterario è uno che vuole tornare a casa. E anche gli scrittori scrivono, forse, perché vorrebbero tornare a casa..."
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