5/30/2010

In memoria di Dennis Hopper (e di "Easy Rider")

Vorrei riproporre qui un mio testo scritto ormai molti anni fa, e compreso anche nel mio ultimo libro Oggetti smarriti e altre apparizioni (Laterza Contromano). Vi si parla di Easy Rider, il magnifico film del 1969 diretto e intepretato da Dennis Hopper, scomparso ieri a 74 anni. Devo molto a quel film, e a Dennis Hopper. Il testo è intitolato, nell'ultima versione, "Il cane morto". Vi lascio capire perché leggendolo.

Il cane morto

Due negli ultimi tempi sono state le suggestioni più forti che ho avuto sui temi del “luogo” e del “viaggio”: una rivedendo un vecchio film che pensavo non avesse più niente da rivelare; l’altra leggendo una biografia di Michel Foucault.
In questa c’è un brano che racconta l’esperienza dell’acido lisergico che il già maturo filosofo fece con due giovani docenti californiani. Restò seduto immobile per ore davanti al deserto della Death Valley, a guardare la Terra e il firmamento, come Cézanne di fronte alla montagna Sainte Victoire. Quando venne buio aveva gli occhi umidi di pianto: “Sono felice”, disse. Disse anche che, finalmente, aveva “capito”. E poi, due volte: “Adesso posso ritornare a casa”. Aggiunse qualcosa sul “rivedere sua sorella”.
L’altra scena, quella del film, ha forse anch’essa a che fare con l’Lsd. Ma è poco più di un fotogramma, e per non bruciarla, e anche perché se la dicessi adesso non saprei più come andare avanti, la scriverò solo alla fine.
Mi viene in mente invece un racconto di Pier Vittorio Tondelli, se ricordo bene, dove racconta di un suo giro in macchina scandito da un orizzonte musicale, un vagabondaggio notturno sul filo delle onde radio locali. E’ un’idea narrativa molto bella, al panorama visivo se ne sovrappone un altro auditivo, ogni mutamento dello spazio si accompagna all’apertura di un paesaggio sonoro, ed è ormai un’esperienza che si può fare ovunque, viaggiare in automobile costeggiando le invisibili frontiere delle varie rock station. Ma mi suggerisce anche un’altra idea: che non si dà più viaggio, o spostamento nello spazio, che non sia in qualche modo tele-guidato; che non si dà più nemmeno una deriva senza un orientamento, e che anche il perdersi ha un suo proprio oriente, spesso rassicurante e frivolo come l’ingresso in un programma Windows, o come un log-in, simbolo dell’universo di esperienze sempre più virtuali con cui stiamo soppiantando, chissà poi perché, tutte le altre nostre esperienze, possibili proprio perché reali.
Penso alla luna. E a quella fatidica notte del luglio 1969 spesso rievocata dai media, di cui, tra ricordi miei e quelli di amici, ho messo su la scena seguente.
Su un prato di luglio, in campagna, la famiglia si siede davanti a una delle prime televisioni portatili, quelle rivestite di plastica rossa o bianca, alimentata con dei cavi collegati a una batteria da camion. Guardano in diretta il reportage dell’allunaggio. E’ una notte di luna, naturalmente, e i bambini alternano lo sguardo dalla luna molle e informe sulla televisione in bianco e nero e con la voce off di Tito Stagno, a quella bianca e luminosa che si staglia sulle cime degli alberi nel cielo blu scuro.
Passa un vecchio contadino, mettiamo che si chiami Alfio, è un amico di famiglia, si ferma e si rivolge così al padre dei bambini: “Mi meraviglio di lei, che è una persona così istruita e se ne sta lì a guardare quelle cose. Ma non crederà mica che ci siano andati davvero, sulla luna? E’ tutta una finzione che hanno inventato loro, quelli lì della televisione...” I bambini guardano la luna sopra le loro teste, il contadino in piedi, il papà seduto per terra, i corpi degli astronauti che galleggiano dentro la televisione sulla luna grigiastra, la televisione rossa sul prato con dentro la Luna e la Terra (il Mondo) in bianco e nero, e poi ancora le stelle e il cielo, gli alberi, e trovano tutto questo molto strano (più strano dei carri armati nel Golan, più strano delle immagini di corpi ammazzati di Vietkong), di una stranezza forse affascinante. Capiscono che sono di fronte a una strana storia, e forse quello che ricorderanno è proprio questa sensazione, che le storie sono strane, cioè sono vere ma in modo diverso, ti promettono una verità ma non sai bene quale sia, e non sei mai sicuro quando arriva, né di riconoscerla, come nelle promesse. Luigi Ghirri, il grande fotografo, diceva questo a proposito della missione sulla luna del 1969: che venne fatta allora “la prima fotografia del Mondo”.

Diversi anni fa, all’epoca di un pionieristico lavoro di descrizione-narrazione della via Emilia coordinato da Luigi Ghirri e Gianni Celati, nel testo che consegnai alla fine omisi una citazione cui tenevo molto. E’ una frase dell’antropologo Claude Lévi-Strauss singolarmente sentimentale per uno strutturalista, e in cui ritrovavo perfettamente la mia esperienza: “Fra qualche secolo, in questo stesso luogo, un altro esploratore, altrettanto disperato, piangerà la sparizione di ciò che avrei potuto vedere e mi è sfuggito. Vittima di una doppia incapacità, tutto ciò che vedo mi ferisce, e senza tregua mi rimprovero di non guardare abbastanza”. Che il problema fosse in realtà una questione di sintassi, cioè di linguaggio, perché nel raccontare un luogo, anche nella lotta contro la cecità e l’assuefazione, il vero problema è sempre quello di raccontare una storia, lo capii solo dopo. I fotografi mi avevano insegnato comunque a lavorare sul campo, a lasciare lo scrittoio e a uscire fuori dallo studio (“fuori dai nostri armadi”, cantava Lou Reed). Sono andato in giro per anni a proiettare il mio desiderio di abitare, a fare prove generali di vita cercando di non disprezzarne nessuna - a provare storie come abiti, direbbe Max Frisch - e una volta restai perfino qualche giorno in quel mondo parallelo che è l’autostrada, per vedere come si poteva viverci. Alla raccolta di racconti “di luoghi” che pubblicai in seguito, omisi stavolta una sorta di prefazione di cui ricordo solo questa frase: “In attesa di raccontare, di una casa, si dà qui la ricerca del raccontare, della casa. Café Suisse è il luogo, il libro, di quest’avventura”.
Il fatto è che mi sembra più avventuroso stare fermi che viaggiare. Abitare, che vuol dire sempre abitare da qualche parte, è in fondo un viaggio condensato e intensivo, e penso che abitare qui, in questo o quel luogo, esposti alla vertigine della domanda “Perché qui, e non invece in un altro posto?”, sia l’avventura più intensa che ci possa capitare. Inoltre è sempre già un perdersi. Un po’ perché siamo già tutti perduti, cioè tutti, in qualche modo, dei rifugiati politici, degli stranieri; un po’ perché lo straniero, come spiegava Georg Simmel, non è colui che arriva oggi e parte domani, ma colui che arriva oggi e che domani non parte; che resta indefinitamente, e arricchisce con la sua specifica modalità di relazione il luogo e i suoi abitatori.
Oggi quindi mi interessa soprattutto il restare fermo sul posto, fare l’esperienza del qui, del questo, dell’ora; del linguaggio capace di indicare, di dare del tu alle cose e ai luoghi – “il melo, il pero, il muro” (Pascoli), “quest’ermo colle”, “questo mare” (Leopardi): e si noti che ho nominato due tra i nostri maggiori raccontatori del paesaggio. E’ un caso che tutti i testi sapienziali, terapeutici (ammesso che dei testi possano essere sapienziali e terapeutici) abbiano un rapporto stretto con la consapevolezza del qui, del questo? “Conoscere se stessi, per dimenticare se stessi”, recita una massima Zen. Ma si potrebbe dire: conoscere a fondo il qui, poi dimenticarlo.

[...]

Scrivo queste ultime frasi sullo schermo luminoso del computer nella stanza buia, e dalla finestra aperta vedo la città notturna, il fascio di linee oblique delle case, le sponde del fiume, gli alberi (tigli) sul lungofiume, un lembo di strada, le luci dei lampioni, il riflesso della luce sull’acqua, la luminosità oscura della notte. Più lontano, dietro le chiazze buie dei tetti e delle case invisibili, vedo le strade invisibili e la periferia invisibile; e dietro il cielo notturno vedo i colori e i rumori invisibili del giorno.
C’era Easy Rider alla televisione, stasera (è questo il vecchio film di cui dicevo all’inizio) e ho rivisto le famose scene dell’Lsd preso al cimitero. Ma c’erano scene nuove subito prima (c’è sempre una scena nuova quando si rivede un film, o quando si legge un libro), di cui non mi ricordavo (anche ora non me la ricordo: penso solo al blues di Dylan prima della loro morte). Il carnevale, ecco, Dennis Hopper e Peter Fonda, in una sosta del loro viaggio infinito, che vanno fuori dal bordello con le loro donne e camminano (le donne che escono dal bordello e camminano con i loro uomini), camminano e vanno per le strade e guardano il carnevale isterico nella città - ci sono tante cose da vedere - finché arrivano quasi all’uscita e si trovano ora in una periferia molto vasta, ci sono poche case, bianche e quadrate, sembrano molto abitabili, loro si fermano, restano chini a guardare, osservano un cane morto accostato al marciapiede - ecco, la scena è questa, questo indugio.
Forse loro lo sanno perché stanno lì a guardarlo, il cane morto. Poi senza una parola proseguono, camminano fuori dalla città e arrivano al cimitero.

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