10/18/2009

Una persona normale (rubrica "acchiappafantasmi")

La principale motivazione per cui dedicai un libro alla biografia di Henri Paul, colui che guidava la macchina quando morì Lady Diana (e che pure morì sul colpo), fu riabilitare dal massacro mediatico una persona ordinaria stritolata tra i Windsor e gli Al Fayed, la cui vita fu dissezionata per incolparlo: alcoolizzato, depresso, lasciato dalle donne ecc. Prendete una persona qualsiasi, leggete ogni dettaglio della sua vita in funzione di una tesi preconcetta, e riuscirete senz’altro a farlo apparire colpevole o sospetto. Infamia di cui siamo tutti potenziali vittime. Qualcosa di più lieve ma dello stesso genere è accaduto al giudice "colpevole" di una sentenza civile (lodo Mondadori) che compensa un imprenditore dallo “scippo” tramite corruzione da parte di un altro imprenditore. Le televisioni del secondo hanno cercato di irridere il giudice pedinandolo con le telecamere, e farlo apparire “stravagante”. Se ho pensato ad H. P. è anche perché l’autore del programma, Claudio Brachino, scrisse un pamphlet innocentista sul caso Diana, e mi sembrò persona sensibile al tema della persecuzione mediatica. Stupisce vederlo all’opera per fare questo favore al suo Capo, oggi capo del governo.
Ma le immagini del servizio che dovrebbero screditare il giudice Misiano si ritorcono contro gli autori. Il giudice appare appunto una persona normale, ordinaria. Che addirittura lo si prenda in giro perché si siede su una panchina, in attesa di andare dal barbiere, è davvero il colmo: della simpatia che l’uomo ci ispira. Alcuni lettori sanno che ho scritto un libro sulle Panchine, oggetto poetico e oggi sociale, simbolo dello spazio pubblico da difendere e di un tempo, se non libero, da liberare. So bene che è anche un luogo di rappresaglia sociale, di guerra contro i poveri e gli "stravaganti", e chi si siede appare oggi un po' losco. Amo le panchine e mi ci siedo ogni volta che posso. Amo chi si siede sulle panchine. (Alla vergogna pubblica e privata dei gesti del Capo, invece, agli antipodi delle panchine, non ci abitueremo mai).

(mia rubrica domenicale "acchiappafantasmi" su l'Unità, per cause tecniche spostata a domani, lunedì 19 ottobre; qui in anteprima per voi)

10/10/2009

Fuori luogo (per Derrida)

Scrivo questa rubrica nell’ennesima stanza d’albergo, ma già abituato al tavolo, al letto, alla finestra (questa volta sul golfo di Napoli), e penso così alla frase di uno scrittore ebreo americano sull’attuale diaspora universale come condizione umana: essere sempre ovunque e in nessun luogo, e soprattutto mai a casa. (Forse è per questo che abbiamo così bisogno di una home page). Siamo tutti clandestini, ma anche tutto intorno a noi, stando a quello che leggo sui giornali, appare sbagliato e fuori posto, parole comprese. La democrazia è “comunista”, si lamenta il capo del governo.
Sono a Napoli, ospite dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, al convegno sul grande filosofo Jacques Derrida (di cui per anni fui allievo) a cinque anni dalla morte. Che cosa significa “grande filosofo”? Che ha insegnato di nuovo a pensare; a dubitare, prima di tutto, e a guardare in modo nuovo il mondo, compresi noi stessi, i nostri pensieri e le nostre parole. A formulare quindi nuovi modi di dire e di pensare. Come si dice di un grande scrittore, che allarga l’area del raccontare storie, del narrabile, così un filosofo allarga l’area del pensare, della teoria. Derrida parlava di continuo di cose e problemi fuori luogo (ma lui diceva, con Shakespeare, “out of jont”, fuori asse).
Forse il problema filosofico più importante è da sempre quello stesso che pone la letteratura: come tornare a casa (anche se non è mai la stessa che abbiamo lasciato alle spalle). Come sentirsi a casa. Derrida ha parlato molto del dovere etico di ospitalità e accoglienza, con discorsi paradossali e inattesi, cioè “fuori luogo”. E oggi che in Italia “essere clandestini” - che è la condizione ontologica più diffusa - è diventato un crimine oltre ad essere un pleonasma, mi chiedo cosa ne sarà del pensiero: sarà bandito anch’esso, fuori luogo e fuori legge?

(in uscita su l'Unità, domenica 11 ottobre, rubrica "acchiappafantasmi")

10/06/2009

Spettri di Derrida



http://www.iisf.it/derrida_spettri.htm

10/04/2009

L'epiteto "berlusconi" (rubrica "acchiappafantasmi")

Il senso delle parole è il loro uso. Come scrisse un filosofo, “nelle usanze non c’è errore”.
Alcuni anni fa lessi che a Massa l’autista di un autobus si rifiutava di guidare un mezzo pubblico tappezzato di manifesti elettorali di Berlusconi, e quindi suscettibile di venire bersagliato da lanci di sassi (era già successo). Nello stesso periodo mi colpì un’altra notizia di cronaca che rimpiango non avere ritagliato. Diceva il litigio tra due automobilisti, in cui a un certo punto uno dei due dà all’altro del “Berlusconi” (per stigmatizzarne, pare, i modi arroganti). Di fronte a quell’insolito epiteto l’altro si sente così offeso che sporge querela (“Berlusconi a me? Ma come si permette?”). Immaginai che il diverbio tra i due si spostasse in tribunale - come il mio lavoro non quererabile (sic!) di scrittore mi consente – e quindi alcuni scenari argomentativi. La strategia difensiva del querelato (quello che ha gridato “Berlusconi”) doveva sostenere che la parola pronunciata non fosse un’offesa: e come poteva esserlo dato che era il nome del Primo Ministro, oltre che il più ricco e abile imprenditore italiano? Ma allora cosa significava in quel contesto? Da parte sua, la parte querelante avrebbe dovuto all’opposto argomentare che l’epiteto fosse invece infamante per questo e quest’altro motivo, quantificandone il danno.
Nella mia fantasia ispirata a un fatto vero c’era un però: come avremmo dovuto sentirci noi cittadini sapendo che nelle aule di un tribunale si sarebbe deciso se il nome di chi ci governa fosse equiparabile a un insulto? E se sì, che tipo di insulto sarebbe stato? (Tutto questo, che ho scritto anni fa, mi è tornato in mente grazie alla vignetta del sublime Altan pubblicata ieri su Repubblica: “Berlusconi!”, dice un tizio a un altro piccoletto con la banana in mano. “Calunnia!”, risponde il Cav.).

(rubrica "acchiappafantasmi", uscito su l'Unità di domenica 4 ottobre 2009)

10/01/2009

Intervista a James Lee Burke


In occasione dell'uscita del suo ultimo romanzo, Il prezzo della vergogna (Fanucci Editore) ecco un'intervista esclusiva al grande James Lee Burke, di Rock Reynolds e Beppe Sebaste:

La voce di James Lee Burke, attualmente nel Montana, è insieme intensa e stanca, carica di vita e di passione. Ci emoziona parlare con uno dei più intensi scrittori americani, di cui abbiamo seguito le vicende del personaggio più famoso, il detective Dave Robicheaux di New Orleans, e i tanti altri romanzi che descrivono un’America selvaggia e amata, dalla natura lussureggiante e dalla violenza terribilmente umana. I suoi romanzi raccontano parabole e sentimenti universali, per esempio quello del sentirsi perduti. Fanno venire in mente quello che scrisse il filosofo Gilles Deleuze sulla “superiorità della letteratura angloamericana”, legata agli spazi, agli orizzonti, alle linee di fuga, e in cui “fuggire, evadere, non vuol dire fare dei viaggi di vacanza, portando in giro il proprio io, ma disfarlo”. Forse, chiediamo a James Lee Burke, conta che gli Americani non hanno il peso della Storia, come in Europa, ma hanno in compenso molta “geografia”? E quanto è importante per te la natura?

“Fin dai tempi di Mark Twain e di Henry James, il romanzo americano è stato preso a modello in tutto il mondo, proprio come la sua industria cinematografica. Credo che il motivo stia nel fatto che la storia americana è essenzialmente una storia esistenziale. Quanto all’ambiente naturale, sia quello rurale che quello urbano, esso diventa un protagonista delle mie storie, un’entità viva. Credo che tutti gli essere umani siano plasmati nel corso dell’infanzia dalle condizioni ambientali in cui si trovano a crescere.
Com’è nato il tuo eroe Dave Robicheaux?
Il personaggio è scaturito da un paio di romanzi scritti e mai pubblicati che, in seguito, ho messo insieme, creando Pioggia al neon. Erano quattordici anni che i miei libri mancavano dal mercato, e in un certo senso devo a Pioggia al neon il mio ritorno. Quel libro mi ha decisamente cambiato la carriera.
E’ quindi la letteratura noir ad averti salvato?
Difficile dirlo, e poi le etichette siano sempre fuorvianti. Mettiamola così: da giovane ho avuto un sacco di successo, ma a metà della mia carriera non sarei riuscito nemmeno a vendere acqua ghiacciata all’inferno. La serie di Dave Robicheaux mi ha aiutato tantissimo.
Come lo descriveresti in due parole?
Molto simile ai cavalieri erranti tra Medioevo e Rinascimento. La sua origine va ricercata nel teatro elisabettiano: è l’eroe tragico che deve la sua rovina alla sua stessa tracotanza.
Cosa intendi quando descrivi Robicheaux come eroe “blue-collar”? E perché il soprannome di “Streak”?
Blue-collar” sta per classe operaia, per un lavoratore di umili origini. E Robicheaux è l’uomo comune secondo l’etica medievale, uno che Dante e Boccaccio riconoscerebbero subito. “Streak” è per via della ciocca di capelli bianchi, scolorita per la malnutrizione dell’infanzia.
Dave Robicheaux vive e invecchia da un romanzo all’altro, ha una vita propria. Riflette la tua vita o è un “amico” che ti accompagna?
Penso che i personaggi di qualunque romanzo vivano nell’inconscio dell’autore. Sono ottimi compagni di viaggio.
Come sono i criminali che Robicheaux si trova ad affrontare e che tipo di rapporto hanno con il male? Anche Robicheaux ha un passato difficile, con l’incubo della guerra del Vietnam, la distruzione della sua famiglia e slanci autodistruttivi, come l’alcolismo...
I miei libri sono allegorici, e le storie che raccontano sono concepite per rappresentare problematiche più grandi. Spesso sono molto politiche e spero che il lettore le consideri emblematiche di questioni più alte. I miei criminali sono individui che simboleggiano le energie distruttive che operano nella nostra società, sia negli USA che nel resto del mondo, negli ultimi trent’anni. I primi tre libri della serie di Robicheaux sono stati concepiti come una vera e propria trilogia. Mi sono ispirato al modello de Il Paradiso Perduto e Il Paradiso Riconquistato di Milton. Ovviamente non intendo mettermi al livello di John Milton, sto semplicemente dicendo che quei tre libri hanno al loro centro la discesa nell’abisso, nei gironi danteschi, prima di raggiungere la pace e la serenità, cosa che vediamo nel terzo libro, Black Cherry Blues.
Ti è piaciuto Levon Helm nei panni dello spettro dell’ufficiale confederato nel film tratto da L’occhio del ciclone, con Tommy Lee Jones nei panni di Dave Robicheaux?
Moltissimo. Ha grande talento. Ovviamente me lo ricordo nei panni del padre di Loretta Lynn in La ragazza di Nashville, inoltre era il batterista di Bob Dylan nel gruppo "The Band". Insomma, in questo film ci ha lavorato parecchia gente di talento e la cosa mi ha lusingato non poco. Tommy Lee Jones è bravissimo e ha fatto un ottimo lavoro. Come anche Alec Baldwin [nei panni di Robicheaux in Omicidio a New Orleans]. Credo di essere molto fortunato, dal mio lavoro sono stati tratti tre diversi adattamenti, con attori e registi molto in gamba, non potrei pretendere di meglio.
Ti ha influenzato più il cinema o la letteratura?
Le mie influenze sono tutte letterarie. I miei ispiratori primari sono William Faulkner, Flannery O’Connor, Eudora Welty, James T. Farrell, Ernest Hemingway, Tennessee Williams, i poeti gesuiti… santo cielo, ora mi sfuggono… ecco, Gerard Manley Hopkins mi ha influenzato profondamente. Di certo sul piano stilistico sono stato influenzato da Scott Fitzgerald. Gli scrittori Usa oggi hanno un vantaggio enorme perché la letteratura mondiale negli ultimi cento anni è stata influenzata da alcuni dei migliori scrittori del mondo, tutti americani. Prendiamo la nascita del jazz, per esempio. Abbiamo vissuto una specie di Rinascimento iniziato alla fine del XIX secolo e proseguito fin quasi ai giorni nostri, con la nascita di fantastici autori. È un vantaggio enorme per uno scrittore americano giovane.
Quant’è importante la musica sudista per la tua scrittura? Pensi che i tuoi libri possano essere etichettati come “blues-noir”?
La musica è importantissima nei miei libri perché è parte integrante della tradizione orale del Sud degli Stati Uniti. E la storia del Sud degli Stati Uniti, in fondo, è la storia degli Stati Uniti. Tutto quello che è successo al Sud è successo anche al Nord e all’Ovest, solo che nel Sud è più recente. Prendiamo la schiavitù. Nel XVII secolo, al Nord, il più grande mercato degli schiavi di tutti gli Stati Uniti era sulle rive del fiume Hudson, a New York. Ma, per uno scrittore che abiti nel Sud, molti di quegli eventi sono molto più vicini in termini di tempo e lo scrittore riesce tuttora a vederne lo svolgimento. La musica fa parte di quella tradizione orale, della storia che viene tramandata.
Prima che l’uragano arrivi e L’urlo del vento raccontano la devastazione dell’uragano Katrina. Che impatto emotivo ha avuto su di te quella catastrofe?Ciò che è accaduto a New Orleans rappresenta il più grande scandalo della storia politica americana. Si è trattato di un crimine e non semplicemente di una catastrofe naturale. Io la vedo così, anche se non tutti sono d’accordo. Ho raccontato le vicende di Katrina attraverso gli occhi di un prete, un vero prete che è morto per essersi rifiutato di abbandonare i suoi parrocchiani, gente poverissima che in buona parte non possedeva automezzi ed è rimasta intrappolata nelle loro case. Lui è morto con loro e il suo corpo non è mai stato ritrovato. La storia di quest’uomo è la trave portante del mio romanzo, che ritengo uno dei migliori che io abbia scritto. Credo che gli eventi accaduti a New Orleans indichino indifferenza e abbandono nei confronti dei poveri e derelitti. Non avrei mai pensato che una cosa del genere potesse verificarsi nei confini degli Stati Uniti e invece è successo.
<em> Il prezzo della vergogna parla di un petroliere texano senza scrupoli che decide di stuprare l’ambiente naturale del Montana per fare altri soldi, d’accordo con predicatori religiosi. E’ un’idea che proviene da otto anni di amministrazione Bush e di incuria ambientale, o è solo frutto della tua immaginazione?
Provate a pensare al signore che è stato alla Casa Bianca, un uomo di enorme potere che abbiamo visto un sacco per otto anni, e poi date un’occhiata alla sua faccia e ditemi se è un personaggio immaginario! Sembra uscito dalla Central Casting, l’agenzia di casting specializzata in controfigure e sosia. Credo di averlo rappresentato in maniera fin troppo gentile. Appartiene alla categoria di persone il cui strumento principe è la mazza da baseball.
Visto che in America avete avuto altri presidenti-attori, pensi che in un certo senso Ronald Reagan, di cui parli in un paio di romanzi, abbia lasciato un’eredità spirituale raccolta dai Bush?
Non so cosa dire riguardo a Bush padre, ma ecco come penso sia andata. Credo che Reagan abbia rappresentato una sorta di prototipo per Bush. In un certo senso, gli USA si sono trovati a ripercorrere le orme colonialiste di Francia e Gran Bretagna e si è trattato di un tragico errore. L’epoca di Reagan è stata caratterizzata da un enorme trasferimento di ricchezza. Anzi, il paese è stato realmente ridotto sul lastrico da Reagan e altri politici a lui fedeli. Reagan era un attore mandato al potere da grandi gruppi economici che gli dicevano cosa dire. Le sue parole a molta gente risultavano davvero convincenti. Ha avviato il processo che alcuni definiscono “l’appropriazione indebita del cristianesimo” ed è proprio questo il tema centrale de Il prezzo della vergogna. Il problema principale della nostra epoca, che è tale dal 1914, è rappresentato dall’energia, dalle risorse naturali: finché non ce ne rendiamo conto, continueranno a esserci guerre in tutto il terzo mondo che ci dissangueranno del tutto. Reagan e la sua cricca hanno capito che la leva migliore per guadagnare voti era la religione e così l’hanno sfruttata ottimamente, anche se con risultati non paragonabili a quelli ottenuti da George W. e dalla sua cricca, che si sono appropriati del Cristianesimo riuscendo a convincere milioni di membri della classe operaia a votare contro i propri stessi interessi. Abbiamo così assistito a un periodo di lotta al sindacato, salari volutamente bassi, sfruttamento di forza lavoro del terzo mondo e immigrazione clandestina sotto George Bush. La camera di commercio degli USA è stata il motore di questo processo. Tutte cose perpetrate sotto il vessillo apparente del Cristianesimo. Alla fine però le compagnie petrolifere sono riuscite a piazzare un loro uomo alla Casa Bianca, per quanto le elezioni del 2000 siano state un furto, con l’acquisizione indebita della Florida. Da che mondo è mondo, in America i grandi gruppi di interesse si sono scontrati coi governi e hanno cercato di destabilizzarli, poi si sono accorti che il modo migliore per gestire il problema rappresentato dal governo era di assumerne il comando, e l’hanno fatto in nome del Cristianesimo. Sono convinto che si tratti di veri e propri criminali, con le mani sporche di sangue. Sono cattive persone. Ma è solo l’opinione di un singolo. Comunque, ora non sono più al potere. Ce ne siamo liberati. Abbiamo eletto un uomo di colore, dimostrando così al mondo intero che il nostro è ancora il paese di Thomas Jefferson.
Nei tuoi romanzi nettamente sociali, c’è anche un elemento forte di spiritualità: presenze angeliche, intrusioni del soprannaturale, un parlare con i morti... C’è una spiritualità (anche nelle esperienze dell’Anonima Alcoolisti) che costella la vita di Robicheaux, una religiosità spontanea, non organizzata...
Ne sono convinto. Personalmente, penso che esista un mondo spirituale che si nasconde dietro quello materiale. Credo che il mondo invisibile sia esattamente sotto quello visibile. Credo che i morti siano ancora con noi. Sono convinto che il tempo non sia sequenziale. Credo che futuro, presente e passato siano un’entità sola. Credo che nulla di ciò che consideriamo come vera realtà sia affatto una realtà.

(copyright Rock Reynolds e Beppe Sebaste, uscita su l'Unità del 1 ottobre 2009)